di Sandro Moiso
Luigi Fabbri, La prima estate di guerra. Diario di un anarchico (1 maggio – 20 settembre 1915), a cura di Massimo Ortalli, BFS edizioni, Pisa 2015, pp. 126, € 12,00
Il diario di Luigi Fabbri, recentemente pubblicato dalle edizioni della Biblioteca Franco Serantini di Pisa, costituisce ancora, ad un secolo dalla sua originaria stesura, un documento davvero straordinario per comprendere da un punto di vista di classe gli avvenimenti che precedettero ed accompagnarono l’entrata in guerra dell’Italia nel 1915.
Molto è stato infatti scritto su quello che alcuni si attardano ancora a chiamare “maggio radioso”, sia dal punto di vista storico che documentaristico, ma il diario di Fabbri ci immette direttamente, per così dire, al centro delle aspettative, dei tentennamenti, delle riflessioni e delle delusioni che si svilupparono all’interno di un fronte classista che avrebbe dovuto essere omogeneo e che invece tale non fu.
Tale disomogeneità non fu soltanto dovuta alla tradizionale divisione tra movimenti e partiti di classe e repubblicani oppure tra anarchici e socialisti, ma si manifestò quasi da subito anche all’interno di quelle forze che avrebbero dovuto contrastare radicalmente l’immane carneficina che si andava consumando in Europa a partire dall’anno precedente.
Non soltanto il tradimento di Benito Mussolini o il voltafaccia repubblicano dopo la sconfitta della “settimana rossa” oppure le scelte del sindacalismo rivoluzionario finirono quindi con l’impedire ed ostacolare qualunque presa di coscienza anti-militarista a livello di massa, ma anche l’estremismo di alcuni, l’infantilismo o, peggio ancora, l’opportunismo di singoli militanti contribuì a facilitare l’entrata in guerra dell’Italia, nonostante le numerose manifestazioni di dissenso e di protesta, spesso spontanee, che si erano andate sviluppando tra i lavoratori e i soldati richiamati alla leva fin dai mesi precedenti.
Come afferma Giampietro Berti in uno studio sull’anarchico marchigiano: ”Luigi Fabbri nasce come anarchico nell’ultimo decennio dell’Ottocento – il decennio crispino e della crisi di fine secolo – , ma si esprime come anarchico nell’età giolittiana. C’è quindi una doppia anima nel suo anarchismo. Vi si trova, allo stesso tempo, una componente esistenziale o, per meglio dire sentimentale (vale a dire a-razionale), che lo forma moralmente e politicamente durante gli anni duri ed eroici del movimento operaio e socialista; e una componente razionale che gli permette di dare il meglio di sé durante il primo quindicennio del secolo”1
E’ proprio questa sorta di “doppia identità” intellettuale che permette a Fabbri di analizzare con estrema precisione e, talvolta, con mal celata disillusione gli avvenimenti e le scelte che accompagnano l’orribile maggio e i mesi che lo precedono e seguono immediatamente.
Infatti già nel novembre del 1914, in una lettera inviata ad una compagna, “l’anarchico fabrianese si era detto «estenuato e sfiduciato ed anche nauseato.[…] certi momenti mi domando se non sarebbe meglio tacere, e lasciare che la bufera passi, […] lasciare cioè che il popolo s’abbia il governo che merita, i politicanti che merita e la guerra che merita»”2
Nonostante tutto, però, Fabbri continuò a portare avanti sulle pagine di “Volontà”, di cui fu direttore fino al maggio del 1915 dopo la fuga di Errico Malatesta a Londra, una campagna antimilitarista in cui cercò comunque di marcare sempre la differente posizione dei socialisti-anarchici di cui era esponente, sia nei confronti delle altre componenti del movimento operaio, sia delle confuse e rumorose correnti libertarie favorevoli alla partecipazione bellica. Mentre soltanto dopo la definitiva chiusura del periodico libertario decise di affidare le sue riflessioni ad un diario, destinato fin dall’inizio a diventare oggetto di pubblicazione.
Quello che fin dai primi giorni di maggio non mancò di sottolineare fu come quella guerra che doveva essere rapida e breve si stesse rivelando come un immane macello, così come rivelavano le corrispondenze degli stessi giornali borghesi dai fronti già aperti dall’agosto precedente .
“No, il popolo non vuole la guerra. Per la parte più incosciente, non aperta alle idee, la guerra non è voluta per ragioni tutt’altro che simpatiche. Eppure tali masse costituiscono la maggioranza stragrande del paese, che subisce passivamente i fatti per legge di adattamento; se la guerra si farà, com’è certo, altrettanto certamente marceranno compatte; – cominceranno col subire la guerra come una sventura, ma finiranno col parteciparvi con tutte le apparenze della buona volontà…fino al giorno in cui non la bestemmieranno, quando ne saranno stanchi o si determineranno fatti che creeranno un prevalente stato d’animo diverso” ( 10 maggio, pag. 33)
Il messaggio di Fabbri è chiaro e valido ancora per l’oggi: una volta iniziata una guerra non si può arrestare, almeno fino a quando non arrivi ad un punto di rottura psicologico, fisico, economico, militare e sociale. “Soltanto se l’opposizione alla guerra sapesse diventare opposizione antimonarchica e passare i ponti della legalità prima della guerra, questa potrebbe essere evitata. Se no, no!” ( pag . 34)
Nei giorni che precedono immediatamente l’entrata in guerra le manifestazioni antimilitariste sono ancora numerose e diffuse: basti pensare che oltre a quelle spontanee, spesso organizzate dal basso dalle famiglie dei richiamati, tra il 1° maggio e il 2 maggio vi furono in Italia più di 400 comizi pubblici rivolti in tal senso. Certamente la stampa borghese tendeva però ad ignorare tale realtà per dare molto più spazio e visibilità a quelle degli interventisti. Lasciati liberi di spadroneggiare sulle piazze in finte rivolte e manifestazioni di protesta, spesso capeggiate da ufficiali e carabinieri. Gli stessi che in caso di manifestazioni operaie e antimilitariste non avevano esitato a prendere e a revolverate la folla.
Sarà lo stesso Fabbri a sottolineare come non siano “le sfuriate pseudo-rivoluzionarie di Mussolini e del suo variopinto contorno a pretese sovversive” (15 maggio, pag. 41) a costituire lo strumento principale della diffusione della propaganda interventista ma, piuttosto, la propaganda della stampa borghese e della sua cultura di stampo “classico” a diffondere anche tra i giovani, studenti soprattutto, l’idea della necessità di una guerra irredentista contro l’Austria.
Peccato soltanto che, per quanto un luogo comune della stampa interventista sia sempre stato quelle delle popolazioni “irredente” in fremente attesa dell’arrivo delle truppe italiane: “Dopo l’inizio della guerra italo-austriaca […] pare ora che in tutto ciò ci fosse molta esagerazione. Sempre più si diffonde la notizia che invece quelle popolazioni mostrino una vera ostilità contro gli italiani. Ciò è confermato dalle notizie, lasciate passare dalla censura,, di interi villaggi che il comando militare ha dovuto far evacuare, internandone gli abitanti, perché essi costituivano un vero pericolo alle spalle delle linee combattenti […] Dovunque si sono eseguite fucilazioni” (21 giugno, pag. 67)
Però, in un contesto pur ancora difficile per i fomentatori del conflitto, gli ostacoli che si frappongono ad una possibile iniziativa di classe sono di varia natura. Intanto l’ambigua posizione del Partito Socialista che, sventolando la parola d’ordine della neutralità, finì con l’accomunarsi ai germanofili e austriacanti nella medesima fiducia in una soluzione ministeriale. ”Se si fosse, unanimemente, adottata da tutti i sovversivi la formula della «guerra alla guerra» e la si fosse sostenuta esclusivamente sul terreno popolare, rivoluzionario e dell’azione diretta, forse, si sarebbe salvaguardata qualche posizione elettorale di meno e si sarebbe corso qualche rischio personale di più, ma si sarebbe rimasti meglio a contatto con l’anima proletaria, si sarebbe ottenuto dalla propria attività un miglior risultato” (14 maggio, pag. 40)
Ma se da un lato l’educazione legalitaria e parlamentarista diffusa tra le masse dai socialisti aveva contribuito a diffondere la paura per le conseguenze di una autentica sollevazione tra le stesse file proletarie, dall’altro la propaganda bellicista poteva valersi delle strida di coloro che atteggiandosi ancora a veri rivoluzionari, giustificavano la partecipazione al conflitto in mille modi, sia tra gli ex-socialisti che tra gli anarchici più esagitati.
Oltre che della repressione e delle misure cautelari preventive cui fu sottoposto chiunque osasse levare la voce contro il conflitto. Come lo stesso Fabbri ebbe modo di vivere sulla propria pelle con un internamento in carcere cui fu sottoposto tra il 22 e il 29 maggio. A queste prime contenute misure seguirà poi l’istituzione di reparti speciali costituiti interamente da sovversivi e ribelli proletari destinati ad “operazioni militari in cui la strage è prevista; dei reparti di truppe devono sgombrare il terreno per gli altri, saggiarlo, rompere i reticolati, ecc. La maggior parte dei soldati che ne fan parte è per ciò condannata a morte sicura.[…] <
E’ solo in questo contesto che è possibile comprendere appieno il ruolo vile e servile svolto da Mussolini nei confronti dell’imperialismo italiano e anglo-francese. Non nell’avere davvero mobilitato milioni di italiani, ma di aver contribuito a diffondere l’autentica lue dell’odio nazionalista ed interventista tra le fila del proletariato allontanandolo dalle autentiche posizioni anti-imperialiste e anti-belliciste che avrebbero potuto condurre la sue lotte a ben altri esiti.
“Quanto danno ha fatto quest’uomo, in soli dieci o dodici mesi di attività giornalistica! Quanto odio ha seminato! Quante idee ha contorte e confuse nell’animo di suoi lettori più deboli, più ingenui e più incolti!” (26 agosto, pag 103)
In queste parole si può cogliere tutta la responsabilità, illimitata, di Benito Mussolini nel fuorviare la lotta di classe e la falsità e l’infingardaggine di tutti coloro che hanno cercato e ancora cercano di cogliere e individuare nel fascismo e nel suo duce un’anima proletaria e una differente funzione sociale del suo autoritarismo. Sarà così proprio Fabbri, più che i teorici del Partito Socialista e del nascente PCd’I negli anni successivi al conflitto, ad individuare lucidamente nel fascismo una controrivoluzione preventiva svolta tutta in funzione anti-proletaria e classista.
Il diario si conclude nei giorni in cui Fabbri è richiamato alle armi, ma molte sarebbero ancora le considerazioni, ivi contenute, degne di essere segnalate per la loro preziosa lucidità ed avvedutezza di giudizio, tanto da rendere la sua lettura un esercizio costante di confronto con le tante opinioni accumulatesi a ”sinistra” sui conflitti e sul dispiegamento politico-militare imperialista così come sull’azione proletaria, sia spontanea che organizzata.
A questo punto però è preferibile segnalare ai lettori l’ampio catalogo dedicato dalla BFS alle opere, alle corrispondenze e alla vita dell’intellettuale e militante anarchico, nato a Fabriano nel 1877 e morto in esilio a Montevideo (Uruguay) nel 1935. Così oltre gli Atti del convegno tenutosi a Fabriano nel 2005 e già segnalati in nota, occorre qui ricordare:
Luigi Fabbri, Epistolario ai corrispondenti italiani ed esteri (1900 – 1935), a cura di Roberto Giulianelli
Luce Fabbri, Luigi Fabbri. Storia di un uomo libero
Santi Fedele, Luigi Fabbri. Un libertario contro il bolscevismo e il fascismo
Cui andrebbe ancora aggiunto: Luigi Fabbri, La controrivoluzione preventiva. Riflessioni sul fascismo, Zero in condotta, Milano 2009
Giampietro Berti, Il posto di Luigi Fabbri nella storia del movimento anarchico italiano, in Da Fabriano a Montevideo. Luigi Fabbri: vita e idee di un intellettuale anarchico e antifascista, ( a cura di Maurizio Antonioli e Roberto Giulianelli), Atti del convegno tenutosi a Fabriano l’11 e il 12 novembre 2005, BFS edizioni, Pisa 2006 ↩
Roberto Giulianelli, Prefazione a La prima estate di guerra, pag. 10 ↩