di Armando Lancellotti
Holger Afflerbach, L’arte della resa. Storia della capitolazione, il Mulino, Bologna, 2015, 296 pagine, € 25,00
Aut vincere aut mori, proclamava solennemente il codice dei valori militari della Roma antica, sul quale si incardinava anche quello dei valori civili; Min sicherheit si din (La mia garanzia sia la tua), diceva un cavaliere medievale tedesco che, arrendendosi, si consegnava nelle mani del rivale, confidando nel suo senso dell’onore. Nel primo caso non si concepisce alcuna alternativa accettabile alla vittoria che non sia la morte armi in pugno, come pretende una concezione eroica del guerriero ed epica dell’atto bellico, nell’altro, più pragmaticamente e ragionevolmente, si contempla la possibilità di un’uscita dalla battaglia che non sia il manicheo “vincere o perire” e che, osservando un codice di gesti rituali e formule prestabilite, garantisca la vittoria dell’uno e la vita, non solo l’onore, dell’altro.
E’ di questi momenti, quelli in cui finisce uno scontro, in cui termina una battaglia o si conclude una guerra che lo storico Holger Afflerbach si occupa nel suo saggio, che si dà come obiettivo quello di tracciare una storia della capitolazione, di declinare una fenomenologia delle possibilità e delle modalità della resa di un soldato, di un esercito, di una intera nazione. La fine dei combattimenti, questione di solito trascurata dagli storici, prende il posto delle strategie belliche, delle tecnologie degli armamenti e dei metodi di comando – di queste cose infatti gli studiosi di storia militare si sono spesso occupati – per divenire il tema di un excursus storico che dall’antichità ad oggi osserva il comportamento e il destino degli sconfitti, seppur in relazione alle possibilità a loro concesse dalle pretese e dai vantaggi dei vincitori.
La capitolazione, ci ricorda l’autore, non è l’unico modo, sia per il singolo soldato sia per un esercito e lo stato di riferimento, di terminare una guerra. Il primo può disertare, fuggire, farsi catturare; uno stato può negoziare l’armistizio, se le condizioni della guerra lo rendono ancora possibile. Diverso il caso della capitolazione, quando i combattenti decidono di deporre le armi, in relazione alle possibilità/modalità di resa eventualmente dai vincitori concesse ai vinti, in modo tale che queste siano per i vinti stessi accettabili.
I vertici in dialettico rapporto tra loro di una sorta di “quadrilatero aristotelico della resa” che racchiude e definisce forme e modi del capitolare sono l’onore del soldato che combatte, il suo istinto di sopravvivenza, le condizioni di resa imposte dal vincitore e la disponibilità o la possibilità del vinto di accettarle. E il principio regolatore dell’intero meccanismo è una sorta di “mano invisibile della guerra” che, ritiene l’autore, come quella smithiana regolatrice del mercato, dovrebbe solitamente essere in grado di condurre al termine del conflitto prima dell’annientamento di una delle parti coinvolte. «L’idea […] mefistofelica di una forza che mira al male e realizza il bene può venire trasposta nel contesto della cessazione dei conflitti: i moventi egoistici e individualistici delle parti belligeranti […] impediscono normalmente che la guerra raggiunga i suoi eccessi, ossia il completo annientamento dell’avversario sconfitto». (p. 9) Ma talvolta la “mano invisibile” fallisce nel suo intervento e cioè quando la superiorità del vincitore è tale che questo si convince di non avere nulla da guadagnare da una qualche forma di riguardo o clemenza verso lo sconfitto e che anzi la sua eliminazione spietata possa essere un vantaggio.
Più volte l’autore si rifà alle parole di Carl von Clausewitz, generale e teorico militare prussiano protagonista delle guerre contro Napoleone, e in particolare a quelle del suo Della guerra (postumo, 1832), in cui si sostiene che il fine di un conflitto sia l’annientamento del nemico, ove «il termine “annientamento” non significa lo sterminio fisico del nemico, la morte dei soldati sconfitti, ma indica una condizione in cui i vinti non sono più in grado di infliggere danni significativi al vincitore» (p. 13) Pertanto, è stato possibile nel corso della storia che gli uomini abbiano progressivamente abbandonato l’idea (senza mai, però, rigettarla completamente, come gli eventi bellici novecenteschi frequentemente dimostrano) che una guerra si debba concludere necessariamente con l’eliminazione fisica del nemico, fino all’ultimo uomo, ed invece abbiano introdotto norme, condiviso consuetudini con cui “civilizzare” la brutalità ferina della guerra e tra queste, appunto, rientra la pratica della capitolazione. Questa poi può verificarsi nella forma di una resa che contempla la negoziazione di condizioni oppure in quella della resa incondizionata (che trova il suo archetipo nella deditio romana), che pone come unici limiti alle pretese del vincitore quelli previsti dal diritto internazionale, da quando esiste e se sufficientemente forte per imporsi; ovvero la capitolazione può essere spontanea o forzata, ma in ogni caso precedente la debellatio, cioè la distruzione totale della forza militare nemica, che conduce al disarmo e che rende superflua la capitolazione stessa.
Di queste ed altre forme di dedizione, delle specifiche circostanze storiche e delle rispettive conseguenze si occupa Afflerbach nei diversi capitoli del libro, ma una è la “regola aurea” della capitolazione che egli individua: “il principio di reciprocità”, cioè del vantaggio vicendevole, seppur tra due parti in relazione così squilibrata come i vincitori e i vinti di una battaglia o di una guerra. Se lo sconfitto capitola tempestivamente, risparmia ulteriori perdite e lutti non solo alla propria parte, ma anche a quella del nemico vincitore, che sarà perlopiù ben disposto a considerare l’eventualità di un atteggiamento clemente. La resistenza accanita priva di reali possibilità di capovolgimento delle sorti dello scontro produce invece l’effetto opposto e induce il vincitore alla brutalità e alla eliminazione di ogni scrupolo morale nell’imposizione della propria superiore forza. Il ricorso al principio di reciprocità risulta conveniente anche al vincitore che, se si dimostrasse incapace di clemenza, indurrebbe futuri nemici a comportarsi allo stesso modo nei suoi confronti o a non arrendersi per nessuna ragione, non intravedendo a quel punto più alcuna differenza tra il soccombere combattendo o disarmati.
L’efficacia di questa regola risulta evidente nel caso degli assedi, del passato come del presente, dell’età antica come di quella moderna o contemporanea, quando cioè diviene cruciale capire quale sia il momento giusto per dichiarare la resa; l’alternativa – la difesa a oltranza – si risolve solitamente con un inutile massacro. «Non sempre si riuscivano a bilanciare con successo i costi e i benefici: l’occupazione di Cartagine nella Terza guerra punica, quella di Numanzia durante l’avanzata dei romani in Spagna, quella di Magdeburgo nella guerra dei Trent’anni e di Berlino nel 1945 dimostrano che sia nelle guerre dell’antichità, sia in quelle moderne i tentativi di resistenza eccessivamente prolungati si ritorcevano drasticamente contro il vinto». (pp. 25-26)
Ed il medesimo principio, quello di reciprocità, agisce anche da strumento di mediazione e passaggio tra “ideale”, la lotta fino alla morte, riproposta nelle sue varianti in quasi tutte le epoche storiche, e “prassi”, il pragmatismo, che porta il vincitore a comportarsi magnanimamente per interesse e l’istinto di sopravvivenza, che spinge il vinto ad arrendersi.
Nella Grecia antica i modelli ideali di guerriero e di battaglia erano rispettivamente rappresentati da Leonida e dallo scontro delle Termopili, in cui gli spartani non presero in considerazione l’idea di capitolare dinanzi alle soverchianti forze nemiche e preferirono morire combattendo. Il comportamento di Leonida e dei suoi uomini, celebrato e indicato come paradigma valoriale da poeti e storici antichi, riprendeva l’idea epica di battaglia dei poemi omerici, ma spesso un più prosaico e ragionevole pragmatismo contribuiva a scelte diverse dalla indisponibilità alla capitolazione, come ci dice Tucidide riguardo ai fatti dell’isola di Sfacteria nel 425 a.C., durante la guerra del Peloponneso, quando gli stessi spartani decisero di capitolare incondizionatamente per avere salva la vita. Se all’ateniese Tucidide questo fatto tornò utile per sfatare il mito che dipingeva tutti gli spartani come altrettanti Leonida alle Termopili, ad Holger Afflerbach serve per mostrare il funzionamento del meccanismo della moderazione. «Le fonti rivelano la presenza di due fattori determinanti: innanzitutto, la disperazione e il tenace istinto di sopravvivenza degli spartani sconfitti […]; in secondo luogo, le mire politiche degli ateniesi […] che si attendevano dalla cattura degli spartani vantaggi superiori rispetto a quelli che avrebbero avuto massacrandoli. Qui mancava l’unico elemento cha avrebbe potuto vanificare il funzionamento di un meccanismo di questo tipo: la presenza di un condottiero disposto a tutto come Leonida». (p. 35)
Anche nell’antica Roma, almeno sul piano ideale, vigeva il principio del vincere o perire e la capitolazione era vista come una ignominia, un colpevole e vergognoso atto di vigliaccheria, ma anche qui come in Grecia erano pochi i determinati ad attenersi ed uniformarsi all’ideale e molti coloro che, nonostante le eventuali conseguenze sociali del gesto, preferivano arrendersi in caso di sconfitta certa. La cultura legalistica di Roma portò, per la prima volta nella storia secondo Afflerbach, all’introduzione di leggi e norme precise che regolamentavano la guerra ed anche i suoi momenti finali, come la resa del nemico sconfitto. I romani miravano ad ottenere la deditio, cioè una capitolazione incondizionata del nemico, con cui quest’ultimo si consegnava totalmente all’autorità di Roma ed anche al suo arbitrio. Così si esprime Polibio: «Coloro i quali si arrendevano alle autorità romane, consegnavano loro ogni terra e le città, con tutti gli uomini e le donne che si trovavano in quelle terre e città, nonché le acque, i porti, i templi e le tombe; sicché i Romani divengono i signori assoluti e ai capitolati non rimane più nulla». (p. 45) Per questo – sostiene Afflerbach – si può dire che la pax romana per i popoli non romani fosse, in realtà, la pace del campo santo.
Nel capitolo che tratta delle regole della capitolazione nel medioevo, l’autore per prima cosa rileva come, nonostante i profondi rivolgimenti e lo scenario politico completamente mutato rispetto all’età antica, il codice d’onore dei soldati rimanga lo stesso, tanto che nei poemi epici quali il Canto dei Nibelunghi, Beowulf, la Chanson de Roland o il Cantar del mio Cid si continua a combattere fino alla morte e quella che si può considerare la differenza principale rispetto all’antichità, lo sfondo culturale e religioso cristiano, non fa altro che confermare il principio del vincere o morire attraverso l’ideale del martirio per fede. Ma ancora una volta la distanza tra la teoria e la prassi risulta evidente. Innanzi tutto se l’ideale cristiano del martirio o della crociata può essere considerato la declinazione medievale dell’antico principio aut vincere aut mori, nel corso del tempo mutò il modo di rapportarsi dei vincitori nei confronti dei vinti, cosicché nella guerra cavalleresca pratiche quali il massacro spietato del nemico sconfitto o la riduzione in schiavitù di donne e bambini vennero progressivamente considerate incompatibili con i valori religiosi, sebbene non manchino casi contrari come a Gerusalemme nel 1099 o a Costantinopoli nel 1204. Che la mentalità stesse cambiando lo dimostrano anche le parole del cronista Fulcherio di Chartres, secondo le quali «La battaglia è pericolosa, la fuga allettante; ma è meglio sopravvivere da codardo che morire compianto per sempre» (p. 60); parole che nessun autore antico avrebbe mai messo per iscritto.
Ma – come Afflerbach argomenta ripetutamente nel corso del suo libro – è ancora una volta il principio di reciprocità, con le sue logiche di ricerca di un vicendevole interesse, che modifica la prassi della capitolazione, tanto è vero che nel medioevo si diffonde l’abitudine della cattura, non dell’uccisione, del nemico, al fine di richiedere ed ottenere un riscatto. Tutto questo riguardava – vale la pena ricordarlo – soltanto i nobili cavalieri, che avevano mezzi sia per poter trattenere in ostaggio un nemico sia per poter pagare un riscatto e che vicendevolmente si riconoscevano valore e dignità tali da essere garantiti da un codice d’onore vincolante. Diverso il discorso per i rustici pedites, i mediocres de vulgo che, se impossibilitati a darsi alla fuga, venivano uccisi senza alcun riguardo, ma che, a loro volta, non si facevano scrupolo di uccidere un malcapitato cavaliere caduto tra le loro mani, non avendo la possibilità di catturarlo al fine di ottenere un riscatto e preferendo razziarne il cadavere e gli averi.
Col passaggio all’età moderna, l’ideale epico dell’eroe che lotta alla morte comincia a declinare, come testimoniano le “canzonature” che di esso fanno Cervantes nel Don Chisciotte o Ariosto nell’Orlando furioso, o la critica che Montaigne rivolge a quei generali che pretendono dai loro uomini di combattere oltre ogni limite ragionevole e che meriterebbero di essere trascinanti dinanzi ad un tribunale. La distanza tra “ideale” e “prassi” tende a restringersi a seguito di alcuni cruciali cambiamenti che riguardano soprattutto la tecnologia militare, le modalità di combattimento e quelle di arruolamento. La diffusione delle armi da fuoco, cioè di armi a distanza, rende progressivamente meno frequente lo scontro fisico tra i soldati, il corpo a corpo, e quindi sottrae al singolo soldato la decisione riguardo all’eventualità di arrendersi e consegnarsi al nemico, lasciandola all’ufficiale in comando. A questo si aggiunga la crescita degli eserciti che aumentano sia di numero sia di complessità organizzativa e gerarchica e ciò «costrinse i soldati a una rigida disciplina e sostituiva al valore del singolo combattente – l’ideale dell’eroe antico e medievale – l’omologazione e l’obbedienza» (p. 86)
Un altro cambiamento importante concerne le possibilità di capitolazione previste: viene mantenuto il codice comportamentale dei cavalieri che prevede l’eventualità della resa, della cattura e della liberazione, ma viene riconosciuto anche ai semplici soldati, cioè alle classi sociali inferiori e non solo alla nobiltà. Per questo Afflerbach sostiene che l’età moderna costituisca un momento di grande progresso etico per quel che riguarda la capitolazione, il che non significa ovviamente che le guerre dell’età moderna siano più civili e meno brutali o distruttive di quelle delle precedenti epoche: la guerra dei Trent’anni – giusto per fare un solo esempio – dice il contrario.
La seconda metà del saggio si concentra sulla resa nel corso dei secoli XIX e XX, che l’autore vede manifestarsi all’interno di un arco di possibilità che ha i suoi estremi nel riconoscimento, stabilito da accordi e trattati, dei diritti dei vinti e nel disprezzo di quei diritti stessi, conseguenza di quelle che qui vengono definite guerre extrasistemiche, cioè non normate da un sistema di regole e di cui la guerra totale e di annientamento intrapresa sul fronte orientale dalla Germania nazista durante il secondo conflitto mondiale è un chiaro nonché tragico esempio.
Con la rivoluzione francese e le guerre europee conseguenti due dei processi già in atto nella storia militare moderna giungono a compimento, cioè l’incremento continuo delle dimensioni e della potenza degli eserciti e la tendenza a regolamentare la guerra.
Come è noto l’introduzione nella Francia rivoluzionaria della leva obbligatoria dà il via al progressivo fenomeno dell’arruolamento di eserciti di massa, supportato anche dalla contemporanea crescita demografica in Europa e dalla disponibilità esponenzialmente crescente di armi che l’industrializzazione del XIX secolo rendeva possibile. Si tratta di una tendenza storica che copre il periodo tra 1792 e il 1945, nel corso del quale sia la disponibilità quasi inesauribile di soldati continuamente rimpiazzabili, sia la logica della “guerra totale” o “assoluta” (rientrano in questa categoria, secondo l’autore, le guerre napoleoniche, la guerra di secessione americana e i due conflitti mondiali), logica che pone in secondo piano le considerazioni riguardo a costi e benefici e impone come unico obiettivo quello della vittoria ad ogni costo, producono come effetti la violenza illimitata, la morte di massa e l’annientamento di una delle parti belligeranti. Facendo riferimento alla enorme disponibilità di uomini dovuta alla leva obbligatoria, «il filosofo e pacifista britannico Bertrand Russel ha riassunto questo atteggiamento nella celebre formula maximum slaughter at minimum expense (il massimo massacro con la minima spesa)». (p. 146)
Per quanto riguarda l’altro aspetto – la regolamentazione della guerra – nello stesso periodo vengono progressivamente introdotte non solo norme più vincolanti riguardo alla tutela della vita dei capitolati, ma anche disposizioni relative al sostentamento e alla sistemazione dei prigionieri di guerra. Essendo ora concepite e concordate forme più certe di capitolazione con cui sottrarsi al pericolo della morte in guerra o con cui attendere la fine di essa in condizioni approssimativamente accettabili di prigionia, ci si dovrebbe attendere un crescente ricorso a queste possibilità da parte dei soldati dei moderni eserciti ed invece «la storia delle guerre tra il 1789 e il 1945 mostra che ciò non avvenne affatto, che i soldati degli eserciti di leva combattevano a lungo e resistevano con tutte le loro forze, pensando in generale alla capitolazione soltanto in condizioni catastrofiche e disperate». (p. 148) Quale la spiegazione? L’autore la trova nella teoria della good boy orientation, elaborata dagli psicologi americani dopo la seconda guerra mondiale, che evidenzia le difficoltà della maggior parte degli uomini di vivere al di fuori delle regole della società di appartenenza, da intendersi nel caso del soldato sia come la società “in grande” del paese per cui si combatte sia come il piccolo gruppo dei commilitoni. L’interiorizzazione delle regole sociali produce comportamenti omologati e ritrosia del singolo ad infrangere una norma collettiva e pertanto la scelta di arrendersi ed abbandonare il combattimento non è quasi mai individuale, ma dipende dal consenso generale che ricomprende l’atteggiamento del singolo. Un meccanismo questo che dispiega tutte le sue potenzialità di condizionamento in società di massa che, mosse a questo da esigenze belliche, predispongono ed attivano gli apparati di propaganda, di costruzione e controllo del consenso.
Nelle sue dettagliate analisi delle diverse modalità di resa nelle guerre contemporanee, Allferbach considera gli atteggiamenti dei soldati della Grande Guerra, una volta esauritasi l’ubriacatura patriottica e nazionalistica dell’estate 1914 o dei primi mesi del conflitto, quali la diserzione, l’autolesionismo, l’ammutinamento, lo sciopero militare, che dagli alti comandi degli eserciti e dai governi sono non solo puniti in modo inflessibile, ma anche “disinnescati” nelle loro temute potenzialità disgregatrici del consenso nazional-patriottico con miti negativi quali quello tedesco della “pugnalata alle spalle”, del tradimento interno. La conseguenza è quella che l’autore chiama “ossessione della capitolazione”, che ricorre sia nella teoria sia nella prassi della seconda guerra mondiale. «Nel primo conflitto mondiale la capitolazione aveva rivestito un ruolo importante. Milioni di soldati erano stati fatti prigionieri e l’affievolimento dello spirito bellico, sia dei militari, sia della patria, aveva condotto in alcuni casi al crollo del governo, come in Russia, in altri alla fine dei combattimenti, come in Germania. Per questa ragione nella Seconda guerra mondiale il rifiuto della capitolazione ebbe fin da principio un ruolo importante nella retorica politica, diventando un’ossessione che costò immensi sacrifici». (p. 186)
Ma anche nelle guerre dell’età contemporanea, come in quelle delle precedenti epoche storiche, vale il principio della distanza tra teoria e prassi, tra l’ideale propagandistico della “guerra assoluta”, che non prevede alternative alla vittoria che non sia la morte in battaglia e la prassi di numerose capitolazioni regolamentate con la conseguenza di milioni di soldati fatti prigionieri. Ma se in Occidente questo avvenne nel rispetto sostanziale delle convenzioni internazionali, seppur in un quadro complessivo di una guerra terribile e distruttiva, è in Oriente che il carattere “extrasistemico” del conflitto, cioè trascendente qualsiasi regola o norma stabilita e che trova il suo precedente o modello storico nelle guerre coloniali condotte dai paesi occidentali, produce effetti disastrosi e criminali. La guerra sul Fronte orientale, per chiara intenzione del governo e del comando nazista che coinvolsero buona parte del popolo tedesco e della Wehrmacht, non rispettava qualsivoglia regola o convenzione internazionale, ma la norma tanto criminale quanto elementare dello sterminio, del saccheggio, della distruzione indiscriminata, indotti dall’odio politico verso il comunismo e dal disprezzo razziale verso i popoli slavi e gli ebrei orientali. Si trattò in sostanza di un ritorno al bellum romanum.
La lettura di alcuni dati parla chiaro: a Est il 57% dei prigionieri di guerra sovietici morì nei campi di prigionia e lavoro tedeschi, mentre a Ovest la mortalità dei prigionieri inglesi catturati dai nazisti si attesta intorno al 3,5%. L’effetto inevitabile, come il principio di reciprocità vuole, fu l’indisponibilità totale dei sovietici alla resa e un trattamento intransigente da parte di questi ultimi verso i nemici quando, dopo la battaglia di Stalingrado, le sorti del conflitto si rovesciarono; in questo caso la percentuale dei prigionieri tedeschi che morirono in Russia arriva al 35,8%.
Interessanti anche le considerazioni proposte da Afflerbch riguardo alla riformulazione moderna della deditio romana che portò Roosevelt e Churchill a stabilire il principio della capitolazione incondizionata (unconditional surrender) a Casablanca nel gennaio del 1943. Il principio non era certo una novità e di lì a poco (settembre ’43) lo avrebbe accettato il governo italiano per firmare l’armistizio, ma nuova era – appunto – la sua applicazione non ad una singola unità combattente o fortificazione militare, ma ad una intera nazione.
Le analisi riguardanti la seconda guerra mondiale proseguono e si concludono con lo studio delle motivazioni e delle conseguenze di due casi di rifiuto ostinato di capitolare: quello tedesco e quello giapponese, che si concluderanno con la distruzione di Berlino e le due atomiche sul Giappone.
L’epoca successiva al 1945 è da Afflerbach definita “post-eroica”, in quanto gli orrori del conflitto da poco concluso hanno favorito lo sviluppo di nuovi e diversi atteggiamenti nei confronti della guerra (e di conseguenza della resa): il principale consiste in un rifiuto di essa e della sua “ideologia” e questo è accaduto principalmente nei paesi usciti sconfitti o comunque distrutti dalla guerra mondiale; il secondo, più frequente tra i vincitori, che ripropone la guerra come strumento necessario per debellare sul nascere pericoli e mali peggiori della guerra stessa; il terzo è l’atteggiamento che ha fatto da supporto alle guerre di emancipazione dei popoli del periodo della decolonizzazione e che, in sostanza, riprende un’idea già molte volte proposta nel corso della storia; ed infine, l’atteggiamento di coinvolgimento crescente dell’opinione pubblica mondiale e la sua capacità di influenza sulla cessazione (ma anche sullo scatenamento) di un conflitto. Si tratta, in quest’ultimo caso, di un fenomeno iniziato nel XVIII secolo che nella contemporaneità ha raggiunto la sua piena realizzazione e che nella partecipazione dell’opinione pubblica americana alle vicende della guerra del Vietnam trova un chiaro esempio.
Non manca, nelle ultime pagine di questo interessante ed approfondito lavoro sulla storia della capitolazione, un riferimento alla “illusione” della “guerra pulita”. Si tratta di una costruzione ideologica degli Stati Uniti e dei loro alleati che «una volta superato lo shock della guerra del Vietnam e terminata la guerra fredda [hanno riproposto] la vecchia idea della “guerra giusta” sotto le nuove spoglie dell’”intervento umanitario”». (p. 230) Da un lato gli Stati Uniti e gli europei sostengono di intraprendere azioni militari per ragioni e scopi umanitari e per tutelare popoli perseguitati, dall’altro, intervenendo militarmente, finiscono per uccidere ed arrecare ingenti danni alle stesse popolazioni destinatarie del cosiddetto intervento umanitario. A questo si aggiunga poi la difficoltà di giustificare agli occhi della propria opinione pubblica perdite ingenti subite e violenze eccessive compiute. Per queste ed altre ragioni la nuova frontiera della pratica bellica consiste nella guerra basata principalmente sull’aeronautica, sui cosiddetti bombardamenti chirurgici e, per ultimo, sull’utilizzo dei droni. Se non che, scrive l’autore, riprendendo lo storico Martin van Crefeld, «procurare la morte senza doverla a propria volta temere non è la peculiarità del soldato, ma del boia». (p. 232)