di Gioacchino Toni
Massimiliano Studer, Olympia, Mimesis, Milano-Udine, 2014, 187 pagine + DVD del film Olympia (Germania, 1938) di Leni Riefensthal, € 19,90
Ancora oggi in Germania è in vigore una lista di film messi all’indice dagli Alleati al termine del Secondo conflitto mondiale. Sul suolo tedesco, i film di Leni Riefensthal possono essere proiettati in pubblico soltanto se affiancati da un intervento di contestualizzazione storica e politica. Senza aver mai rinnegato il suo entusiasmo per Hitler, a distanza di molti anni dalla fine della guerra, la cineasta tedesca viene assolta dall’accusa di collaborazionismo e giudicata “fiancheggiatrice del nazismo”. Il processo di denazificazione ha calato il sipario sull’attività cinematografica di una delle figure più importanti della storia del cinema a livello internazionale ma non ha certo fermato quel processo di spettacolarizzazione, da lei introdotto, dei grandi eventi di massa, soprattutto sportivi. Olimpiadi, Mondiali di calcio ecc. sono ancora oggi organizzati tanto a livello logistico, quanto a livello di copertura audiovisiva, sull’esempio di Olympia e Apoteosi di Olympia (Olympia. Teil I: Fest der Völker. Olympia. Teil II: Fest der Schönheit, 1938). Se sia possibile estrapolare dall’opera della Riefensthal esclusivamente l’aspetto spettacolare in cui la massa diventa ornamento, dal retroterra storico in cui tale estetica nasce, con implicazioni ideologiche ben precise, è davvero tutto da verificare.
Studer si chiede quanto si possano rintracciare nella nostra quotidianità quegli elementi cardine della modernità celebrata dal nazismo e dai film della regista; “burocrazia, efficienza organizzativa, tecnologia avanzata e perseguimento incondizionato e instancabile verso l’obiettivo sono le caratteristiche del progetto sulle Olimpiadi di Berlino. (…) Ma sono anche le caratteristiche del pensiero moderno e della prassi nazista”. Quanti di questi elementi permangono nella civiltà contemporanea dopo che il sipario sembra essere calato sull’epopea nazista e sulla sua cinematografia propagandistica? Dallo studio sull’immaginario contemporaneo veicolato dall’organizzazione e dalla copertura mediatica dei grandi eventi, soprattutto sportivi, si possono ricavare informazioni importanti su quanto, forse, non si è disposti ad ammettere circa il permanere di tracce di quel mondo che si vorrebbe celare dietro al sipario abbassato. Attraverso l’analisi di opere come Olympia è possibile comprendere meglio quanto il mondo degli audiovisivi sia in grado di produrre sull’immaginario collettivo.
Il saggio di Studer si apre con un’interessante intervista a Leonardo Quaresima, vera e propria autorità in fatto di cinema tedesco ed autore di quella che, ancora oggi, è l’unica monografia pubblicata in Italia sulla cineasta tedesca (Castoro cinema, La Nuova Italia, 1984). Nel corso dell’intervista, Quaresima introduce alcune caratteristiche proprie della poetica audiovisiva della Riefensthal che poi saranno riprese da Studer nel corso della trattazione. Le prove cinematografiche della cineasta riescono, con maestria assoluta, a miscelare, in continuità con i fondamenti ideologici e politici del nazionalsocialismo, l’elemento völkisch della tradizione culturale legata ai valori delle radici della provincia con l’estetica neoclassica ma, a tutto ciò, la regista tedesca, aggiunge anche elementi estetici desunti dalle sperimentazioni d’avanguardia degli anni ’20 e ’30, solitamente non amate dal regime.
In Olympia la cineasta non rispetta la fedeltà documentaria nel mostrare i giochi olimpici, tanto che le cronologie delle performance sportive spesso non sono veritiere e gli eventi tendo ad essere mescolati. A tal proposito, Quaresima, nell’intervista, parla di “sinfonia audiovisiva”, della costruzione di un’opera “che, grazie alle risorse linguistiche del nuovo mezzo, e a soluzioni di cinema sperimentale, riesce davvero a coinvolgere lo spettatore e perfino emozionarlo”. Nell’opera della cineasta, continua Quaresima, “ci si allontana quasi completamente dal valore tecnico e agonistico per costruire configurazioni formali la cui materia è composta sì da alcune gare sportive, ma la cui utilizzabilità, in termini di valutazione della performance sportiva, è assolutamente nulla. Il valore è solo e squisitamente cinematografico: altissimo e di grande fascino. (…) A lei interessa la resa estetica dell’evento”. Si tratti, dunque, di un lungometraggio che “documenta le straordinarie capacità del linguaggio cinematografico”.
Il saggio di Massimiliano Studer ricostruisce la formazione cinematografica della Riefensthal a partire dall’incontro con il cineasta tedesco Arnold Frank. Recitando in alcuni lavori del regista, la Riefensthal apprende i segreti della regia, del montaggio e delle inquadrature. In un’epoca in cui il cinema tedesco, e non solo, viene girato quasi esclusivamente in studio, Frank si cimenta con i cosiddetti “film della montagna”, opere che, girate in esterno, si confrontano con scenari montuosi in cui il fascino del paesaggio deve fare i conti con le difficoltà tecniche legate alle difficili condizioni ambientali ed alla variabilità della luce atmosferica. Da queste esperienze la cineasta impara l’uso espressivo del paesaggio naturale, oltre che elementi di sperimentazione tecnica e visiva ben presenti in Frank, nonostante le tematiche tradizionali. Altro cineasta a cui la Riefensthal deve molto è Walter Ruttmann, autore di vere e proprie “sinfonie visive”, votate all’astrazione, di grande originalità tecnico-espressiva. Il primo film realizzato dalla Riefensthal, La bella maledetta (Das blaue Licht. Eine Berglegende aus den Dolomiten, 1932), ottiene un buon successo in Germania ed in tale opera-prima, sostiene Studer, “le atmosfere magico-oniriche e gli scenari naturali in cui sono immersi i personaggi condensano in maniera eccellente le tematiche della Volkskultur che il nazismo e la visione nazionalistica hitleriana esalteranno negli anni successivi”. Si tratta dell’unico film di fiction; a questo seguono opere di carattere documentario commissionate direttamente dal regime a fini propagandistici. Vittoria della fede (Der Sieg des Glaubens. Der Film von Reichsparteitag der NSDAP, 1933), nonostante il successo di pubblico, viene fatto sparire perché in diverse scene, al fianco di Hitler, compare Ernst Röhm, capo delle SA, che poi verrà ucciso nel giugno del 1934 durante la Notte dei lunghi coltelli. Nella seconda opera documentaria, Il trionfo della volontà (Triumph des Willens, 1935), tutto sembra ormai “funzionale alla rappresentazione filmica della nuova liturgia nazista” e, stilisticamente, risulta caratterizzato dalla presenza ossessiva della geometria, probabilmente di ispirazione ruttmanniana, in una vera e propria celebrazione della precisione e del rigore delle sfilate e della gestione delle masse. A testimonianza della potenza espressa dalle modalità utilizzate dalla cineasta tedesca, Studer sottolinea come a questa si rifacciano palesemente, nelle inquadrature e nei movimenti di macchina, diverse opere hollywoodiane, anche recenti. Ne Il trionfo della volontà, la cineasta si rivela particolarmente capace nel dare immagine all’idea di “comunità organica” strettamente subordinata a un capo. La realizzazione successiva, Giornata della libertà! La nostra Whermacht! (Tag der Freiheit! – Unsere Whermacht, 1935), dedicata alle parate militari riprese durante il Congresso Nazionalsocialista di Norimberga del settembre 1935, rappresenta la celebrazione dell’efficienza delle macchine da guerra della Whermacht. L’elogio della “tecnologia della velocità” intende promuovere il concetto di Blitzkrieg. Forte di queste premesse cinematografiche la Riefensthal inizia a lavorare al lungometraggio che intende celebrare quelle che passeranno alla storia come le “Olimpiadi dei nazisti” del 1936 e, con esse, nuovamente, il regime hitleriano.
L’opera Olympia deve essere collocata all’interno dello sforzo compiuto dal III Reich di sfruttare l’occasione dell’olimpiadi berlinesi, ottenute nel 1931, prima dell’avvento di Hitler al potere, per mostrare le capacità organizzative del regime sia ad uso interno, in termini autocelebrativi, che ad uso propagandistico esterno. Per tale motivo l’investimento economico-organizzativo per la realizzazione dei giochi olimpici e della relativa celebrazione audiovisiva dell’evento è esorbitante. Nelle vicinanze del monumentale nuovo impianto dell’Olympiastadion da centomila posti, viene individuato un castello come quartier generale in grado di alloggiare ben centoventi posti letto per la troupe addetta al documentario. Alla Riefensthal viene concessa un macchinario in grado di sviluppare e stampare 1200 metri di pellicola all’ora al fine di far fronte ad un progetto di riprese che prevede 15.000 metri di riprese quotidiane. Ben prima dell’inizio dei giochi, gli operatori iniziano ad esercitarsi ed a provare i macchinari costruiti appositamente, come cinecamere in grado di seguire lateralmente ed a velocità variabile le corse, cineprese insonorizzate per non infastidire gli atleti e persino a tenuta stagna per le riprese sott’acqua. Vengono anche scelte, direttamente dalla regista, le pellicole per le diverse riprese in base alle caratteristiche in termini di resa fotografica: Pellicole Kodak per i volti degli spettatori, Agfa per architetture marmoree e Petruz per i soggetti con gli sfondi verdi. Nulla viene lasciato al caso anche se, nei giorni delle gare, i problemi non mancano.
La prima parte di Olympia (Fest der Völker) prende il via con un prologo realizzato dal regista sperimentale Willy Otto Zielke, vero e proprio genio della fotografia in movimento, come dimostrato da un suo precedente film girato per le ferrovie tedesche, vero e proprio inno al mondo delle machine e del lavoro operaio (film poi proibito per l’eccessivo sperimentalismo, oltre che per la mancanza di celebrazione del nazionalsocialismo). Il prologo di Zielke viene girato in buona parte in Grecia, culla delle olimpiadi antiche e le prime immagini insistono sulle nuvole che, diradandosi, lasciano il posto, tramite una dissolvenza, alle rovine dei templi antichi. Dunque si passa a statue greche e via via agli atleti in carne ed ossa che riprendono le gesta dei marmi. Le caratteristiche stilistiche dei quindici minuti d’apertura di Zielke, sono ben analizzati dal saggio, in particolare si descrive la sua abilità nell’uso delle dissolvenze incrociate e nel rendere un effetto dinamico alle statue attraverso sapienti movimenti di macchina e di luce, oltre che al ricorso al “principio ėjzenštejniano del conflitto” ed al montaggio ellittico.
Una volta iniziati i giochi berlinesi, la Riefensthal inizia a ricorrere a riprese dai punti di vista insoliti; nel salto in alto, ad esempio, parte delle riprese vengono effettuate da buche interrate. Spesso si ricorre a riprese slow motion “in grado di esaltare il gesto atletico e le capacità espressive del cinema”, oltre che di dilatare il tempo del racconto permettendo all’osservatore di indagare i dettagli del gesto atletico. Altro elemento di sicuro effetto, ripetuto più volte, nel corso del lungometraggio, è dato dalla ripresa delle ombre degli atleti. Molto contenuta risulta la cronaca della gara del commentatore che si limita a presentare i nomi degli atleti, la nazionalità ed il risultato conseguito in termini numerici. Quel che interessa alla cineasta è “filmare e montare la gara in modo da cogliere gli elementi più spettacolari della disciplina, soprattutto mediante inquadrature che esaltino i corpi in movimento e i volti che esprimono la tensione agonistica e lo sforzo fisico”. Particolarmente interessante l’analisi della maratona che chiude la prima parte dell’opera, Festa dei popoli, dedicata alle gara d’atletica.
La seconda parte del documentario, Apoteosi di Olympia (così nella versione italiana, anche se la traduzione letterale del titolo tedesco Fest der Schönheit sarebbe Festa della bellezza) è dedicata alle discipline più moderne e popolari come la ginnastica, la vela, la scherma, il pugilato e sport d’acqua. Anche la seconda parte di Olympia ha un prologo che, secondo Studer, “racchiude una perfetta sintesi di quanto è stato definito ‘ideologia völkisch’”, dalle immagini di una natura che pare incantata, fuori dal tempo, “radice mitica del Volk”, sbucano gli atleti che si stanno allenando. Con le immagini dell’armonia della ginnastica artistica prendono il via le varie gare; corpo libero, cavallo con maniglie, anelli parallele simmetriche ecc. Interessante il passaggio dagli spazi aperti e luminosi della gara di vela (con macchine da presa collocate su imbarcazioni che seguono le gare) e lo stacco, attraverso dissolvenza nera in chiusura, che porta nel buio dell’ambiente della gara di sciabola ove, nuovamente, parte della gara è mostrata attraverso le riprese delle ombre. Le gare dei tuffi rappresentano, forse, il pezzo forte della seconda parte del lungometraggio. Qua i punti di osservazione degli atleti diventano sempre più insoliti, tanto che le riprese “mettono in evidenza una prospettiva di visione che strabilia lo spettatore cinematografico perché lo mette in condizione di vedere un gesto atletico come mai nessuno è riuscito a fare, nemmeno durante l’effettivo svolgimento della gara nella piscina olimpica di Berlino”. I tuffi maschili, grazie al cielo plumbeo da cui compare qualche bagliore di sole, sono ripresi quasi in controluce tanto che gli atleti si trasformano in piccole sagome nere che volteggiano nell’aria con geometrie armoniose e perfette. “La gara dei tuffi diventa, grazie alla tecnica e alla sua capacità moderna di manipolare il reale, una rappresentazione, inspiegabile, di come sia possibile sospendere o infrangere le leggi fisiche del movimento: lo spettatore, infatti, non assiste mai in questo sintagma alla conclusione del tuffo e nessun atleta viene ripreso mentre penetra l’acqua della piscina”.
Il film ottiene un grande successo europeo e viene premiato con la Coppa Mussolini alla Mostra del cinema di Venezia del 1938. Il Ministero della Propaganda stanzia una cifra considerevole per inviare la Riefensthal, tra il novembre del 1938 ed il gennaio del 1939, negli Stati Uniti per procedere ad una sorta di tour promozionale di Olympia. L’obiettivo del viaggio non è, ancor oggi, del tutto chiaro; la regista viene infatti fatta viaggiare sotto pseudonimo, in un paese in cui il sentimento antinazista blocca sul nascere la possibilità di ottenere la distribuzione nelle sale. Il tour potrebbe rispondere alla necessità di mostrare al paese che esercita, grazie al sistema hollywoodiano, una sorta di egemonia culturale anche in ambito europeo, un potente esempio di cultura tedesca, in grado di essere competitiva anche in terra americana. In altri termini, più che ad ambire ad una, decisamente improbabile, se non impossibile, distribuzione americana, l’obbiettivo vero può avere a che fare con il desiderio di mostrare, almeno agli ambienti hollywoodiani, la potenza di fuoco tedesca in termini audiovisivi. La questione di quanto, a prescindere da caso Olympia, la cultura popolare americana sia stata influenzata dalla cultura tedesca non è di poco conto. Quanto “germanesimo nascosto”, per dirla con Quaresima, è presente in moti aspetti della cultura occidentale contemporanea? E, soprattutto, verrebbe da aggiungere, quanto nazismo è presente nell’occidente contemporaneo?