di Gioacchino Toni
Leonardo Gandini, Voglio vedere il sangue. La violenza nel cinema contemporaneo, Mimesis, Milano – Udine, 2014, 114 pagine, € 12,00
Quando viene affrontata la questione della violenza nel cinema, pur con varie sfumature, facilmente finiscono col fronteggiarsi due impostazioni: da una parte quanti pensano che la sua presenza rafforzi negli spettatori “l’aggressività e l’ostilità verso il prossimo”, dall’altra coloro che, intendendo sminuire gli effetti sugli spettatori, sono convinti che la sua presenza possa contribuire a produrre un pubblico “ammansito e pacificato”. In entrambe le posizioni, sostiene Leonardo Gandini, autore del saggio “Voglio vedere il sangue. La violenza nel cinema contemporaneo”, si ravvisa la certezza che le immagini della violenza, in un modo o nell’altro, agiscano su chi le osserva ed, inoltre, in entrambi i casi, si ripropone l’annosa questione circa la difficoltà, se non l’impossibilità, di misurare la disposizione alla violenza di un individuo prima e dopo aver osservato immagini violente. Di maggiore utilità, secondo l’autore, risultano gli studi che, anziché preoccuparsi delle reazioni del pubblico di fronte alla violenza cinematografica, si occupano di come la violenza che attraversa la società influenzi il desiderio di assistere a film violenti.
Uno dei motivi del successo della violenza cinematografica è dovuto al fatto che le regole del cinema narrativo impongono alla violenza sullo schermo di non essere gratuita, di avere un senso ed una struttura, cioè che vi sia consequenzialità tra gesti e comportamenti dei personaggi. Il cinema, a differenza di altri media in cui le immagini tendono ad essere decontestualizzate, offre allo spettatore una logica narrativa capace di far comprendere la violenza senza che per forza la si debba condividere. Nel cinema dell’epoca del codice Hays, ad esempio, la censura più che alla rappresentazione della violenza è interessata alle modalità di rappresentazione del mondo del crimine; “Il problema, ieri come oggi, non consiste nel tasso di violenza e sangue presente sullo schermo, quanto nella prospettiva morale a partire dalla quale – attraverso la narrazione – il film ordina e struttura le proprie immagini”. La violenza in un film, per poter essere socialmente e culturalmente accettata, necessita di una giustificazione che permetta allo spettatore di valutarla moralmente. La morale sembra dunque rappresentare, ben più delle reazioni dello spettatore e delle sue inclinazioni all’aggressività, un elemento di collegamento importante tra la violenza reale e quella immaginaria, in quanto gioca un ruolo fondamentale in entrambi i casi.
Nel cinema classico hollywoodiano, l’accettabilità della violenza considerata legittima deriva dal fatto che i film permettono di confrontarla con una violenza malvagia, fonte di disturbo per la morale dello spettatore. Nel saggio viene argomentato come i film, maggiormente discussi a proposito della rappresentazione della violenza, tendenzialmente sono quelli che scompaginano il rapporto tra violenza malvagia e violenza legittima.
Probabilmente “il momento in cui, nella rappresentazione cinematografica della violenza, la morale e l’estetica non risultano più del tutto funzionali l’una all’altra” è databile attorno alla fine degli anni ’60, quando escono film come Gangster Story (1967, di Arthur Penn) ed The Wild Bunch (1969, di Sam Peckinpah). A risultare spiazzanti sono: “la dimensione estetica della violenza” (es. uso di immagini rallentate nelle scene più crude); il fatto che a risultarne vittime siano proprio i personaggi per cui simpatizzano gli spettatori; una narrazione che induce il pubblico ad identificarsi con fuorilegge. Ecco allora che, secondo Gandini, “senza un chiaro giudizio morale a reggerla, la violenza cinematografica si carica improvvisamente di una componente di ambiguità che lascia interdetta la critica e induce il pubblico a reazioni, per l’epoca, sorprendenti e inattese”.
Per quanto riguarda il cinema moderno e contemporaneo, molti studiosi hanno notato come il parziale affrancamento della violenza cinematografica dalla struttura narrativa porti spesso ad una maggiore complessità della messa in scena della violenza e come ciò provochi negli spettatori reazioni molto diverse; da un lato tutto ciò può produrre nel pubblico un’attrazione emotiva nei confronti della violenza mostrata slegata dalle valutazioni morali, dall’altro lato può produrre, invece, in base alle scelte estetiche adottate dal film, una sorta di straniamento dello spettatore rispetto alla violenza, inducendolo a concentrarsi “sul modo della rappresentazione più che sui contenuti”. Secondo diversi studiosi, è a partire dai tardi anni ’60, quando “diventa ‘celebrativa’, che la violenza viene resa oggetto di processi di stilizzazione elaborati al punto da richiamare (…) l’attenzione del pubblico sull’eleganza della forma più che sulla brutalità dei contenuti”.
Il saggio si sofferma su di una serie di film – Strange Days (1995, di Kathryn Bigelow), Sucker Punch (2011, di Zach Snyder), Kick Ass (2010 di Matthew Vaughn), Natural Born Killers (1994, di Oliver Stone), Bronson (2008, di Nicolas Winding Refn) – che, pur in maniera decisamente diversa, pongono interrogativi circa il rapporto tra violenza e sguardo, sui meccanismi della visione, sulle modalità con cui lo spettatore, attraverso un processo di straniamento, si mantiene a distanza dagli eventi e sulle implicazioni morali.
A partire dagli anni ’70, quando le maglie della censura si allentano, il cinema inizia ad esibire sempre più palesemente la violenza, tanto che l’autore parla di un passaggio dall’avarizia espressiva alla bulimia estetica che ha condotto tanti registi contemporanei “a rispecchiare la violenza più che a riflettervi, a renderla più accattivante che legittima”. Non è infrequente che ad uscirne sacrificata sia proprio la morale a scapito dell’estetica. Con la crescita dell’estetica della violenza, della sua massima visibilità, si è avuta una contrazione dell’immaginazione e lo spostamento della questione morale in un ambito di discussione esterno al film.
L’autore individua anche alcuni film in cui la violenza, anziché descritta, viene semplicemente evocata. La parsimonia nell’esposizione della brutalità al cinema è storicamente legata a ragioni di carattere morale ma, tale modalità, funziona in quanto costringe il pubblico a supplire con la fantasia alla carenza visiva: deve immaginare ciò che il film non mostra fino in fondo. Tale coinvolgimento in termini di immaginazione induce lo spettatore a contribuire direttamente alla rappresentazione. A tal proposito nel saggio vengono esaminati film come Dogville (2003, di Lars Von Trier), Manderlay (2005, di Lars Von Trier) e Redacted (2007, di Brian De Palma). I primi due film del regista danese, che trattano il ruolo della violenza nei rapporti sociali, presentano una smaterializzazione estrema della scenografia, con una voce narrante che commenta in maniera asettica gli eventi che portano la vittima ad optare per una forma di ritorsione violenta. Le due opere di Lars Von Trier vengono indicate da Gandini come “un’illustrazione delle modalità con cui i meccanismi della sovranità popolare partoriscono, legittimano e realizzano atti di violenza ai danni del singolo”, dunque, continua lo studioso, è a tale “idea della sovrapposizione fra violenza e diritto che si attiene lo stile dei film, nei quali i momenti di aggressività e sopraffazione vengono rappresentati con la medesima, inesorabile pacatezza con cui il popolo di Dogville e quello di Manderlay emettono le loro sentenze di morte, schiavismo e punizione corporale”. Visivamente la rappresentazione della brutalità sottostà “al principio di astrazione e razionalizzazione che governa i due film sul piano tematico, caratterizzandosi come un evento inessenziale, prosaico, ancorato alle ordinarie dinamiche di amministrazione democratica di una comunità. La violenza perde qui completamente i suoi tratti di sregolatezza, innanzitutto nel senso etimologico del termine, poiché entrambi i film ci mostrano come essa di fatto sia né più né meno che una regola, in virtù della quale viene tutelato il benessere delle due comunità”.
De Palma, nel suo Redacted, ricorrendo all’assemblaggio di filmati derivanti da fonti diverse (video amatoriali, reportage televisivi, immagini notturne ai raggi infrarossi, riprese delle telecamere di sorveglianza ecc.), sembra quasi realizzare un film che prende le distanze da quelle immagini, “il fatto che i materiali che compongono la tessitura visiva del film siano estrapolati da altri contesti e riproposti in forma sintetica e frammentata dispensa lo spettatore dalla reazione emotiva che pure essi avrebbero potuto o dovuto suscitare nella loro forma originaria”. Nel suo presentarsi come riproduzione di una violenza catturata da altri media, il film depura l’evento dal suo tratto più “sensazionale”, consentendo così alla riflessione di sostituirsi all’indignazione.
Sia nei film citati di Von Trier, che in quello di De Palma, si sostiene nel saggio, “la forma determina una distanza che permette al regista di sollecitare lo spettatore non tanto a guardare la violenza, quanto a guardare alla violenza, vagliandone cause e conseguenze che la generano e diffondono”. Gli aspetti violenti e sensazionalistici che toccano l’emotività degli spettatori vengono qui decisamente limitati nel tentativo di “rendere lo spettacolare non spettacolare”. Secondo Gandini, in tali opere, si attua un doppio atto di negazione. “Da una parte viene rinnegata l’immediatezza propria delle fotografie più cruente sull’argomento, dall’altra sono ripudiate le occorrenze stilistiche e narrative che corredano abitualmente la rappresentazione cinematografica del tema. È necessario, per dare risalto alla violenza e renderla nuovamente eccezionale, calarla in un contesto nel quale il cinema possa guardarla – e farla guardare agli spettatori – come fosse la prima volta”. Attraverso la strada dell’astrazione, nel danese, e della rimediazione, nello statunitense, tali opere determinano “un effetto straniante, indispensabile in un’epoca nella quale i media affrontano il tema dispensando a getto continuo visioni sempre più stereotipate a beneficio di spettatori sempre più distratti”.
Nel saggio viene affrontato anche il film austriaco Funny Games (1997, di Michael Haneke) – di cui esiste un remake americano del 2007, ad opera dello stesso regista – opera in cui la violenza tende, per lunghi tratti, ad essere nascosta allo sguardo dello spettatore. La macchina da presa indugia spesso su luoghi diversi da quelli in cui si sta compiendo violenza affidando al sonoro il compito di farla immaginare allo spettatore. Il fatto che uno dei due assassini volga più volte lo sguardo in macchina, contribuisce a coinvolgere lo spettatore negli eventi, inoltre, suggerisce Gandini, tale espediente “accorcia ulteriormente la distanza fra i due personaggi e il regista, poiché alla fredda crudeltà con cui Haneke distilla la violenza ai suoi spettatori si unisce l’impressione, generata appunto dagli sguardi in macchina, che i due ragazzi operino da registi interni della vicenda, dettandone tempi e modi anche alla macchina da presa, nella piena consapevolezza che ‘lì fuori’, oltre lo schermo, qualcuno li sta guardando”.
Mentre nei film di Von Trier e di De Palma “la forma della violenza viene utilizzata per riflettere sulla sua genesi ed evoluzione”, nell’opera di Haneke essa “serve a mettere sotto i riflettori le sue conseguenze”. L’austriaco intende “smantellare ‘l’innocente complicità’ che correda la violenza cinematografica” e “portare lo spettatore a solidarizzare con le vittime piuttosto che con i carnefici”. Haneke non concepisce la sua estetica della violenza “in termini di contenuto, ovvero nei suoi tratti di cruento sensazionalismo, ma di ricezione, ovvero dal punto di vista di una possibilità di lettura, oltre che di visione, della brutalità umana. È per questo che in Funny Games alle inquadrature fuori campo (…) ne fanno puntualmente seguito altre in campo, dove allo spettatore è data piena possibilità di cogliere nel dettaglio gli effetti della violenza che in precedenza aveva potuto percepire soltanto sul piano sonoro”.
In Dogville, sul finire del film, quando Grace decide di vendicarsi, vi è una sequenza in cui la violenza si palesa sia sul piano visivo che drammatico, analogamente anche in Funny Games si giunge a “dare al pubblico un assaggio di quello che il film, sotto il profilo estetico, non vuole essere”: si tratta della scena, girata e montata in maniera diversa dal resto del film, in cui la protagonista riesce a sparare alla testa di uno dei due giovani comportando l’affannosa ricerca, da parte dell’altro ragazzo, del telecomando per “riavvolgere gli eventi”. Il saggio si sofferma sulla logica di tale sequenza che proietta l’attenzione dello spettatore “sul carattere illusorio e manipolabile della violenza cui ha assistito sino a quel momento (…) La natura convenzionale del frammento espulso non riguarda (…) solo il piano stilistico ma anche quello narrativo, poiché la scena vede la vittima ribellarsi e vendicarsi del suo carnefice. La vicenda dunque ritrova qui, sia pure solo per un pugno di inquadrature, una logica morale, basata sulla ritorsione”.
Riflettendo sul frammento “anomalo” di Funny Games, Gandini sottolinea come lo spettatore giustifichi il ricorso alla violenza della donna in quanto reazione ad una violenza invece ingiustificabile operata dai due giovani. Per certi versi, con tale sequenza, il pubblico “viene attirato nell’orbita di violenza alla quale si illudeva, attraverso la condanna dei personaggi, di rimanere estraneo. Provando sollievo e soddisfazione per il modo con cui la moglie si sbarazza del ragazzo, egli smette di rinnegare la violenza in quanto tale, proprio perché in quel punto assume verso di essa un atteggiamento di approvazione e complicità (…) lo spettatore sin lì crede di poter uscire dal film confortato nella sua convinzione che la violenza è comunque odiosa e sbagliata, mentre in realtà, a causa di quella scena, dovrà uscirne con la convinzione che la violenza può essere sbagliata oppure legittima, a seconda delle circostanze morali che la preparano e motivano. Nello stesso tempo quel frammento – riavvolto con suprema disinvoltura in virtù di un telecomando – ci dice anche che la violenza del cinema, per quanto possa suscitare in noi sentimenti di adesione ai personaggi che la subiscono e di avversione per quelli che la infliggono, è volatile, inconsistente e relativa”.
In diversi film la questione della legittimità morale o meno del ricorso alla violenza diventa problematica, si pensi, ad esempio, ad A Clockwork Orange (1971, di Stanley Kubrick), pellicola in cui la classica contrapposizione “fra tutori e trasgressori della legge non poggia su una distinzione morale in grado di giustificare la brutalità dei primi e condannare quella dei secondi”.
La produzione cinematografica degli ultimi decenni risulta decisamente variegata, tanto che non mancano esempi di film volti a tranquillizzare lo spettatore che la “violenza dei giusti” finisce col prevalere su quella “dei malvagi”, d’altra parte, sostiene Gandini, il pubblico “non ha mai smesso di volere un cinema capace di essere, al contempo, violento e morale (…) Può essere che talvolta non apprezzi la morale di un film se non la vede scritta nel e col sangue; ma certamente vuole che il sangue, nel corso del film, prima o poi si incanali lungo percorsi di retribuzione e castigo, colpa ed espiazione”. Non è, pertanto, affatto detto che un’estetica violenta neghi implicazioni di carattere etico o morale. Allo stesso tempo non è nemmeno detto che una maggior complessità estetico-narrativa comporti la scomparsa della morale.
L’imbarazzo morale provato dallo spettatore che, al cinema, osserva con piacere episodi violenti, si stempera grazie alla promessa narrativa che, prima o poi, quella violenza verrà giudicata e punita, pertanto, secondo l’autore, ad ogni “dilatazione visiva” della violenza corrisponde una narrazione in grado di giustificarla. A tal proposito ci si può riferire a quelle opere in cui la figura del killer moralista/moralizzatore agisce per punire la dilagante corruzione che lo circonda. In Seven (1995, di David Fincher) il serial killer agisce in preda ad un bisogno morale e la coppia di detective che indaga sui suoi omicidi, per dargli la caccia, si trova a doversi sintonizzare sulla “lunghezza d’onda morale del suo avversario”. Analogamente anche in Saw (2004, di James Wan) i crimini derivano dalla volontà di punire individui rei di colpe condannabili moralmente. In opere come Seven e Saw “estetizzazione e moralizzazione della violenza” coincidono e, secondo l’autore, se da un lato tali film sembrano “mettere in guardia lo spettatore contro gli eccessi della morale”, dall’altro “possiamo vedere nelle figure dei killer-moralizzatori, in quanto curatori ed artefici di messe in scena della violenza di grande complessità, un equivalente del regista dei film che li contiene, col quale condividono l’attenzione congiunta per l’etica e l’estetica del delitto. La loro condotta criminale rimanda implicitamente all’obbligo di dare alla violenza quei tratti di necessità (morale) e appariscenza (visiva) senza i quali essa oggi non può essere presentata né apprezzata”.
Nel libro non manca una riflessione su Fight Club (1999, di David Fincher), film ove, invece, la violenza diviene terapeutica; si ricorre ad essa per alleviare e curare le ferite della società contemporanea ormai totalmente anestetizzata.
L’ultima parte del saggio affronta alcune opere recenti che affrontano la violenza facendo i conti con la tradizione del cinema, soffermandosi su alcuni film di Quentin Tarantino – Reservoirs Dogs (1992); Pulp Fiction (1994); Kill Bill (2003 e 2004); Django Unchained (2012); Inglorious Basterds (2009) – e di Clint Eastwood. In questo ultimo caso, è inevitabile che, nel momento in cui le sue opere recenti affrontano la violenza, la sua presenza fisica nei film rimandi alla sua icona giovanile, dunque si inneschi un dialogo col passato.
In Gran Torino (2008, di Clint Eastwood) l’ormai anziano protagonista si trova a fare i conti con il rimorso per le violenze compiute in gioventù nel corso della guerra in Corea. Il film si presenta dunque come una storia di “rimorso, pentimento ed espiazione” che, per compiersi, richiede al protagonista di riappacificarsi con la sua identità giovanile e di cimentatisi, un’ultima volta, con la violenza ma, stavolta, non in qualità di giustiziere, bensì di martire, “facendo del sacrificio del proprio corpo un atto di giustizia”.