di Walter Catalano
6) Federico Fiumani, Un ricordo che vale 10 lire, 2014
Federico Fiumani che, anno più anno meno, ha l’età mia, lo beccavo ogni tanto in giro per Firenze: ormai però in giro ci vado il meno possibile e anche lui, sembra. Nessuno lo ha mai considerato davvero un cantante (Fiumani stesso, probabilmente: infatti nei primi Diaframma cantava un altro) e pochi un chitarrista: un compositore però sì, eccome, capace di sfornare con rapidità e fecondità incredibili testi autentici e vissuti, mai banali e melodie semplici ma assolutamente irresistibili. Fino dai tempi lontani di “Siberia” non ho avuto dubbi: delle band fiorentine quella vera erano i Diaframma, i Litfiba non me li sono mai filati e Piero Pelù, che si vedeva in giro molto più di Fiumani, non mi diceva granché allora e non mi dice proprio nulla adesso. Molto più sincero invece, fin dal nome scelto per il gruppo, un tipo che spiattellava in forma punk solo le sue fissazioni, anzi la sua eterna ossessione, una sola: “Non mi interessa parlare di politica, le mie canzoni trattano un tema molto più universale: la fica” – ebbe a dire in numerose interviste. Curioso quindi che un compositore, molto poco cantante fuori dal suo personalissimo mondo privato, fatto di appartamenti in affitto condivisi a Gennaio, giornalini porno utilizzati massicciamente ad Agosto, fanciulle tampinate, inseguite, corteggiate, qualche volta insultate, un po’ in tutte le stagioni, si lanci a tradimento in un album di sole cover in cui, consegnato agli arrangiamenti di Alessandro Grazian, diventa a tutti gli effetti quello che non è mai stato: un cantante. Un esplicito omaggio al cantautorato, tra l’altro, ambiente musicale che un sedicente rockettaro punk, quale il Nostro si è sempre dichiarato (folgorato da Tom Verlaine sulla via di Marquee Moon), non avrebbe dovuto filarsi per niente o quasi, e invece…
Un tradimento ? Un segno di vecchiaia ? (passare i ’50 fa brutti scherzi a tutti…). Il disco suona strano e diverso ma è comunque piacevole: si comincia con un vecchissimo pezzo di Francesco De Gregori, Souvenir, dei tempi remoti in cui lo spocchioso romano era molto più ermetico che nazionalpopolare; segue – e come avrebbe potuto non essere – Lucio Dalla con Quando ero soldato, che, bisogna riconoscere, non è per niente male (abissi prima di Attenti al lupo…); ascoltare poi proprio Lontano, lontano di Luigi Tenco, se non brilla per originalità, esalta sempre la sottile malinconia e il fascino irresistibile del suicida di Sanremo; la scelta e l’esecuzione migliore del disco è senza ombra di dubbio Donna di fiume, uno dei pezzi più belli di Claudio Lolli, e Lolli fa proprio piacere sentirlo sempre, comunque ed ovunque; segue Lo scapolo di un regolamentare Paolo Conte; poi una prima caduta, E penso a te: con Battisti/Mogol si poteva pescare decisamente meglio di questo pezzo melenso che evoca Johnny Dorelli; Danze di Zenobi un altro brano non esattamente memorabile; bene invece Io che amo solo te, Sergio Endrigo lo si frequenta sempre con piacere ed emozione; poi Mai di Russo-Sisini-Malgioglio, una di quelle canzoncine carine, carine che esprimono tutta un’epoca e un mondo; altra caduta: Incontro di Francesco Guccini (che palle !), scelta banale (Radici offriva possibilità meno inflazionate); chiude Un giorno credi di Edoardo Bennato, anche qui non proprio una folgorazione, ma la canzone è bella, via! Conclusioni ? Vanno di moda gli album di cover e quindi… siamo indulgenti con Un ricordo che vale dieci lire, (altra citazione degregoriana): nostalgia a buon mercato, autodichiarata almeno. Comunque preferisco di gran lunga il Fiumani compositore ed i suoi abituali, ossessivi, esercizi pelvici e diaframmatici.
7) Rachele Bastreghi, Marie, 2014
Rachele Bastreghi, la voce femminile dei Baustelle, si lancia nella sua prima esperienza solista, orfana del talento compositivo di Francesco Bianconi si avventura da sola fra gli alambicchi alchemici della forma canzone e, tutto sommato, anche se non crea alcuna pietra filosofale non si fa neanche scoppiare tutto tra le mani. Con quella voce e con quegli occhi, la signora può cantare tutto quello che vuole, perfino le due cover del disco: All’inferno assieme a te, brano del 1970 portato al successo da Patty Pravo, e Cominciava così, pezzo del 1969 dell’Equipe 84, inizialmente pubblicato come lato B del singolo Tutta mia la città. Ma, per quanto leggiadre, sono scelte che denotano in modo fin troppo esplicito anche quelle sottese, nei testi e nelle musiche, a tutte le canzoni originali composte dalla belle dame: niente più che sofisticata musica leggera. Canzoni d’amore con versi artificiosamente tormentati ma in fondo abbastanza pretestuosi e banali (manca l’estro poetico, l’autenticità e l’originalità tematica di Bianconi) e melodie eleganti ma troppo algide: dalla chanson similfrancese a la Serge Gainsbourg di Mon petit ami du passé; a Senza essere, scritta a quattro mani con l’altro Baustelle Claudio Brasini; ed echeggiano, in peggio, i Baustelle anche Folle tempesta e Il ritorno, i restanti pezzi del breve disco, con le loro tipiche e suggestive reminescenze di Ennio Morricone. Il cordone ombelicale con il gruppo non è stato reciso in modo sufficientemente draconiano per giustificare non pretestuosamente un progetto autonomo e Rachele, sembra ancora una Baustelle minore, che si porta dietro solo quella melodica e sentimentale delle molte anime della band toscana. Ci sarebbe forse stato bisogno di più Syd Barret e Ian Curtis e di meno Milva e Patty Pravo…
8) Samaris, Silkidrangar, 2014
In Islanda sono stato purtroppo una sola volta e per poco tempo, praticamente solo a Reykjavík, ma l’impatto dell’isola vikinga su di me è stato forte. Con una natura e una luce come quella che hanno, non c’è da stupirsi se la gente sembra appena uscita da una nota a piè di pagina dell’Edda di Snorri e razionalissime colleghe insegnanti della scuola locale (niente “Buona Scuola”, niente Renzi e niente Giannini, lassù, beati loro!) mi invitavano ripetutamente e con estrema naturalezza a non passare da un certo posto perché avrei disturbato gli elfi. Non parliamo dei fantasmi, poi: Reykjavík, è la città più infestata d’Europa. Ricordo anche una visita a mezzanotte al cimitero, con tanto di pila elettrica, a visitare la tomba di Frieda, una bambina dei primi del ‘900, accusata di stregoneria e assassinata dalla matrigna: sulla lapide è ben visibile una croce rovesciata; mi hanno riferito che alcune streghe tedesche hanno cercato di fare mercato del muschio che cresce sulla tomba esportandolo nel loro paese come ingrediente per incantesimi: non so se la povera Frieda si sia vendicata in qualche modo. E di ectoplasmi, musicali in questo caso, parliamo anche a proposito dei Samaris: gruppo di giovanissimi, vent’anni a testa o poco più, un trio composto da Áslaug Rún Magnúsdóttir (clarinetto), Þórður Kári Steinþórsson (tastiere e percussioni elettroniche) e Jófríður Ákadóttir (voce) e ognuno proveniente da una diversa esperienza: rispettivamente la tradizione cantautorale, la techno sperimentale e il modern classical praticato al Conservatorio. La miscela riesce alla perfezione e tra glaciali loop elettronici, sinuosi contrappunti clarinettistici, e una voce da poltergeist che intona dark-ballads con testi – rigorosamente in norreno – che rimandano direttamente alle saghe tradizionali o almeno a queste fanno pensare, il disco si dipana tortuoso e incantato procedendo verso regni lontani, irraggiungibili ormai anche dalle star islandesi, che li hanno preceduti, Björk o i Sigur Rós, troppo internazionalizzate per non aver perso, almeno in parte, la possibilità di accesso all’altra dimensione. L’estremo underground in Islanda non rinnega le radici folkloriche e le suggestioni arcaiche: come vikinghi del 3000 immaginiamo i Samaris salpare verso le galassie alla guida di drakkar iperspaziali simili alla scultura di Sòlfar sul lungomare di Reykjavík.