di Franco Pezzini
[Claudio Vergnani si può senz’altro considerare uno degli autori di horror più significativi del panorama italiano, e il pezzo che segue è apparso come Prefazione alla sua ultima fatica narrativa, Lovecraft’s Innsmouth: Il Romanzo, uscito in formato Kindle per Dunwich Edizioni pochi giorni fa. F.P.]
La scansione a tappeto da parte di biblioteche e istituti universitari di manoscritti e antiche opere a stampa, con relativa immissione sul web, ha messo a disposizione del grande pubblico letture straordinarie, testi prima avvicinabili solo di sfuggita tramite citazioni colte, e un corpo iconografico ben più ricco di quanto lettori anche avvertiti potessero immaginare. E un esempio affascinante riguarda la trattatistica teratologica – i libri sui mostri e le meraviglie che hanno (o avrebbero) spazio nella Natura – fiorita tra Cinque e Ottocento con vere delizie.
In quei repertori incontriamo ipertricotici e cinocefali, ciclopi e orecchioni, quattrocchi e gente con teste di gru; ma anche infinite altre figure tra la malformazione naturale (con quanto di tragico sottenda), lo smarrimento di fronte a specie ignote e, sempre, la fantasia più sfrenata. Dove un ruolo importante vantano i monstra che potremmo chiamare uomini acquatici, dai classici tritoni della mitologia antica alle sirene-pesci (diverse dalle sirene-uccello che incontra Ulisse, imparentate ai demoni meridiani) fino a figure più recenti e persino più curiose, come il monaco pesce e il vescovo pesce.
Soffermiamoci sugli ultimi due. Del monaco pesce, o monaco di mare, lungo i secoli sarebbero stati rinvenuti o avvistati esemplari in Scozia, Polonia, Danimarca: e le raffigurazioni insistono più o meno fantasiosamente su dettagli come la tonsura, le braccia pinniformi, una sorta di pianeta a squame e il saio che finisce nella coda. Donde periodici tentativi di razionalizzarlo in calamaro gigante, squalo angelo (chiamato del resto monkfish in inglese) o altre specie conosciute – tentativi che però ci lasciano un po’ delusi. Da quell’improbabile fisionomia ci saremmo attesi qualcosa di più specifico e originale, come cori muti nei chiostri di Vineta e Rungholt o delle altre Atlantidi boreali, o magari ammonizioni a discinte sirene. Ma il volto largo, glabro e carnoso che per esempio ne offre l’Aldrovandi – uno dei massimi mappatori di tale fantasmagorica fauna – nell’edizione 1642 della sua Monstrorum historia, sembra insieme evocare con un quid di malizia certe caricature fratesche della libellistica protestante. Ad arruolare nei fatti il monaco di mare (guarda caso frequentatore di quelle coste del nord) in tutta una chiesa del fantastico tra suore fantasma e monaci-demoni, preti fattucchieri, papi-refusi e papesse.
Persino più visionarie le immagini del vescovo pesce, o vescovo di mare; anche se caratteristiche come la presunta tiara, i barbigli, il manto e gli strani arti quasi antropomorfi permetterebbero senza eccessivi sforzi di vedervi l’immagine mitizzata di pesci cartilaginei (cioè squali, razze – non a caso, pesce vescovo è anche un raiforme – e chimere). Sarebbe a quel punto possibile risalire, gratta gratta, a ipotetiche basi reali degli stessi racconti tramandati, come quello sul vescovo pesce catturato e offerto al re di Polonia. Rilasciato in seguito a sua esplicita richiesta a un gruppo di rappresentanti dell’episcopato (figurativamente suoi colleghi), il Nostro si sarebbe allontanato in mare dopo aver impartito agli astanti un benevolo segno di croce – una storia appunto compatibile con qualche spiegazione più banale e un po’ di fantasia. Un altro vescovo pesce meno fortunato, pescato presso la costa tedesca, avrebbe invece rifiutato di toccar cibo (quale?) morendo in capo a tre giorni: la storia pare risalga al 1531, ma del resto anche l’altra dovrebbe ambientarsi nel XVI secolo, e insomma è forte la tentazione di vedere proiettate anche qui, dietro brandelli di eventi reali, le tensioni religiose dei paesi dell’area. Mischiate ovviamente al tanfo di pesce e all’idea spiacevole di umanoidi lucidi e branchiati che gemono afoni di poter tornare in mare – dove il gusto dell’orrido e quello del grottesco si fondono inestricabilmente in mirabilia da taverna.
Certo, la somiglianza di tali creature repertoriate in tanti testi teratologici con le famose Jenny Haniver – le false sirene o basilischi ricavati da manipolazioni di resti essiccati di pesci cartilaginei, eventualmente arricchiti con scampoli di altri animali – è almeno sospetta: tanto più considerando l’appartenenza a un medesimo orizzonte di terre nordiche (Haniver come “d’Anversa”) e di ibridazioni linguistiche nei porti (Jenny anglizzerebbe un jeune). Ovvio che se una sera ci abbordasse una simile Jenny, tra pontili fradici e sordide bettole di qualche approdo boreale od oceanico, fuggiremmo inorriditi come certi personaggi di Lovecraft. “Non avrei mai dovuto cedere all’idea di recarmi in viaggio in quella cittadina”, eccetera.
Già, Lovecraft.
Che il Solitario (non lo era affatto, ma continuiamo a chiamarlo così per convenzione) di Providence avesse un problema con le creature marine è noto, e in fondo per noi lettori una fortuna; ma d’altra parte per il suo acquario fantastico ha a disposizione una ricca messe di spunti ispiratori. Laddove il Grande Cthulhu si apparenta almeno virtualmente alle arcaiche Scille mediterranee brulicanti di zampe, certo al Kraken nordico (in particolare attraverso la lirica di Tennyson, 1830) e magari a taluni invasori tentacolati da altri tipi di abisso – gli alieni di Wells – anche le creature ittioantropomorfe del suo ciclo raccolgono echi variegatissimi dalle acque profonde del mito. A partire ovviamente da quel Dagon pescato dalla Bibbia come dio di varie popolazioni semitiche (dgn/Dagnu?, Dagana, Daguna) e poi dei Filistei, e in problematica connessione con le immagini di uomo-pesce reperite qui e là in voci enciclopediche sull’arte antica mediorientale: una figura che al materialista Lovecraft richiama i brividi di blasfemia dei suoi avi puritani nei confronti delle divinità pagane dell’Antico Testamento.
Ma Dagon ricapitola una sconfinata schiera di merman da ogni luogo della terra, evocati a Lovecraft attraverso le sue voraci, onnivore letture: i mesopotamici Enki/Ea e Oannes, gli arcaici dei-mostri marini dell’Egeo fino ai garbati epigoni Tritone e Glauco, la dea-sirena siriaca Atargatis/Derceto con tutti i banchi dei suoi pesci sacri, le equivoche creature dell’acqua del mondo medioevale d’Occidente e le loro controparti orientali… fino appunto ai citati ittioecclesiastici. E oltre, anche se le riscritture romantiche (si pensi a La Sirenetta di Hans Christian Andersen, 1837) recuperano lo spunto in chiave fin troppo delicata: ben vengano dunque i brividi – genuini, se vogliamo un po’ patologici – restituiti dal vecchio HPL ai figli di una dimensione altra come il mare. Certo, morendo troppo giovane nel 1937 non riuscirà a vedere il Mostro della laguna nera (1954): ma con tutta l’ingenuità della sceneggiatura avrebbe trovato i suoi amplessi con la ragazza di turno forieri di suggestioni almeno disturbanti.
D’altra parte è ovvio che il peso di queste suggestioni non si spiega soltanto con il fortunato recupero di uno spunto da bestiario fantastico, o con l’idiosincrasia ai prodotti da pescheria: Cthulhu, Dagon & Co. emergono da acque ben più profonde e attraverso un assai più variegato tessuto di echi. C’è il fiato di un orrore cosmico, il trovarsi insignificanti rispetto a dimensioni insostenibilmente altre, e che solo con distorsione antropocentrica possono apparire maligne; c’è il tema-fobia dell’ibridazione, con tutte le sue implicazioni anche spiacevoli (penso a certi conati razzisti delle pagine di Lovecraft – in questo senso molto più radicato nel suo tempo di quanto spesso si voglia vederlo); c’è la percezione di una dimensione abissale che sta anzitutto dentro di noi, erutta dall’onirico come da profondità sub-oceaniche e parla con un linguaggio simbolico e magico; c’è un complesso di malesseri sia personali, anche per la tormentatissima storia familiare toccatagli, sia collettivi di una specifica società americana e di un più vasto orizzonte culturale del Novecento.
Da un lato insomma la suggestione degli uomini-pesce, con quanto di visionario e mitico essa comporti, e dall’altro il rapporto con un senso di allarme e di disagio insieme personalissimo e plurale. Quel capolavoro che è The shadow over Innsmouth, 1936, di questi due poli è uno straordinario precipitato e insieme una cartina al tornasole.
Con un’operazione sicuramente coraggiosa, sulle tracce di HPL torna ora a Innsmouth Claudio Vergnani – o meglio i suoi personaggi Claudio e Vergy, lo strano tandem che in pochi anni gli ha guadagnato un ricco seguito di lettori. Claudio introspettivo, reduce da un tentato suicidio e in faticosa ripresa, voce narrante; Vergy vitalistico e irascibile, intemperante per scelta (cibo, alcool, sesso, turpiloquio) e tuttavia dotato di ruvida saggezza, sempre capace a cavarsi d’impiccio grazie a doti da eroe folklorico, ma anche all’ironia e a un carico dolente di esperienza: due personaggi pronti all’azione, all’uso delle armi, al non tirarsi indietro anche sul piano sessuale, insomma piuttosto distanti dai classici protagonisti di Lovecraft. E infatti – diciamolo chiaro – tributando al Solitario un appassionato omaggio, il romanzo Lovecraft’s Innsmouth mantiene però una sostanziale, voluta autonomia.
Claudio Vergnani è oggi senz’altro uno dei nomi di riferimento dell’horror in Italia per la potenza visionaria delle sue storie, la fantasia e lo spessore delle letture che si avvertono in filigrana, la capacità di reinterpretare in termini originali maschere orrifiche indefinitamente riciclate. Anche a tacere degli altri suoi romanzi, la trilogia vampiresca dove Claudio e Vergy per sbarcare il lunario diventano ammazzamostri a pagamento, in un’Italia tra depressione e siparietti alla Che tempo che fa, ha tutti i numeri per essere considerata un ciclo di riferimento a livello internazionale.
Di estremo interesse dunque il ritorno dei due personaggi in questa nuova avventura (almeno virtualmente) teratologica. Li ritroviamo infatti come perplesse guardie del corpo di un professore – tal Franco Brandellini – in visita presso una specie di Disneyland lovecraftiana sulle coste del Massachusetts: una Innsmouth farlocca dove i turisti assistono a finti rituali e vagano sghembe comparse camuffate da uomini pesce. Possibile che sotto il velo della mascherata ci sia qualcosa di vero? O anche questo rientra nel gioco di specchi e di nebbia di una situazione continuamente cangiante, dove le certezze sembrano slittare come i piedi sull’umidore della costa? Poi ovviamente, come sempre nei romanzi di Vergnani, c’è una vivace dose di azione… ma di più sulla trama non è possibile spoilerare.
Lovecraft’s Innsmouth, la cui prima parte era già apparsa in ebook come racconto autonomo (febbraio 2015) ha anzitutto il merito di conciliare in modo intelligente la fedeltà al clima lovecraftiano (la ricostruzione filologica di Innsmouth, delle sue case sordide, delle notti ciondolanti di figure deformi) con una robusta libertà di impianto e di spirito generale. Vergnani non vuole scimmiottare HPL, non è interessato a “continuare” la storia di The shadow over Innsmouth ma piuttosto a omaggiare quel precedente rileggendone liberamente gli spunti fondamentali. Col risultato di una storia scatenata e divertente, piena di trovate e con improvvisi picchi di tensione.
D’altro canto è intrigante vedere come l’autore lavori sui due fronti sopra evidenziati. Da un lato troviamo il tema dell’uomo-pesce (vero o falso che sia), con tutto l’orrido e il grottesco che comporta – c’è persino un succedaneo del vescovo pesce di cui sopra, che si beccherà il soprannome Testa di Minareto e avrà un ruolo di qualche peso. Dall’altro c’è però un disagio d’epoca che resta sullo sfondo, accompagna i due protagonisti e cova sotto lo spurio villaggio turistico: l’insorgere dei mostri, lo sappiamo, è sempre maschera di qualcosa di malsano che alligna tra le nostre radici personali e sociali. Qualcosa che oggi parla di marginalità, lavoro avvilito, menzogne istituzionali, risacca depressiva…
Ma qui chi scrive deve fermarsi. Per pudore: avendo appreso da dichiarazioni dell’autore di rappresentare il modello del citato Brandellini. E, con buona pace di Pirandello, non è bene che un personaggio si allarghi troppo.