di Walter Catalano
4) Leonard Cohen, Popular Problems, 2014
Dopo il capolavoro precedente, che ha entusiasmato urbi et orbi, ci aspettavamo forse troppo dal vecchio Lenny. E lui ci ha fatto il solito scherzetto: una produzione spartana, quasi povera: copertina bruttina assai, arrangiamenti sintetizzati in prevalenza al computer invece che affidati a musicisti veri (sarebbe di cattivo gusto, a questo punto, sparare la classica battuta sugli ebrei…), pezzi belli ma che – se solo ci farà la grazia di eseguirli dal vivo con una band degna di quella che lo ha accompagnato nelle sue ultime esecuzioni live – diventeranno, come già avvenuto per altri del passato, bellissimi: insomma le debolezze di tutte le sue produzioni relativamente più recenti, eccettuata Old Ideas. Peccato perché, con una cura maggiore, il disco avrebbe probabilmente, per il valore dei singoli brani, potuto eclissare addirittura il fortunato predecessore. Il sound opaco e poco dinamico si concede un uniforme tono funky a base di tastiere e percussioni elettroniche che poco giova all’emozione, così come troppo monocorde è il registro vocale del crooning esagerato, più da fine dicitore che da cantante, che scandisce la maggior parte dei pezzi (eccesso che già aveva dato il colpo di grazia al lavoro peggiore del cantautore di Montreal: Dear Heather).
Si comincia con “Slow” pezzo cofirmato come quasi tutti gli altri del disco, eccetto due (forse i migliori), con Patrick Leonard, arguta riflessione sulla vecchiaia (“Rallento la melodia/non mi è mai piaciuta veloce/Tu vuoi arrivare presto/Io voglio arrivare ultimo/Non perché sono vecchio/Non per la vita che ho vissuto/Mi è sempre piaciuta la lentezza/Lo diceva anche mia mamma/”); poi “Almost Like the Blues”, stessa atmosfera ma con un pizzico di cinismo in più (“Ho visto gente affamata/C’erano omicidi e stupri/I villaggi in fiamme/gente che cercava di scappare/Non potevo reggere il loro sguardo/Mi guardavo le scarpe/Sapore rancido e tragico/ Era quasi come il blues/Devo morire un po’/Fra ogni pensiero omicida/E se smetto di pensare/Devo morire ancora di più/Ci conto le torture e gli assassinii/E tutte le mie recensioni negative/La guerra, i bambini dispersi/Dio, è quasi come il blues/Lascio che il mio cuore si congeli/Per tenere a bada il marcio/Mio padre dice che sono l’eletto/Mia madre dice di no/Ho ascoltato i loro racconti/Di zingari ed ebrei/Erano belli ma noiosi/Quasi come il blues…”); Samson in New Orleans, con una criptica struttura allegorica tipica della poesia del canadese, proietta il personaggio biblico nell’attualità dell’alluvione che ha prostrato l’amata città statunitense patria del jazz: “…Hai detto che amavi i suoi segreti/e le sue libertà nascoste/”Era meglio dell’America”/E’ quello che ti ho sentito dire/Hai detto:”Com’è potuto accadere”/Hai detto:”Come può essere”/Tutti gli avanzi disonorati/ sparsi sul ponte della miseria./E noi che imploriamo pietà/dal fondo del pozzo:/le nostre preghiere erano così maledettamente indegne/ che il Figlio le ha rifiutate ?/Così radunate gli assassini/trovate tutti in città/portatemi presso quelle colonne/e fatemi radere al suolo il tempio/…” Subito dopo A Street, reminescenza dell’11/9/2001 scritta all’epoca ma portata a termine solo recentemente, con i suoi ultimi, significativi versi: “La festa è finita/ma sono caduto in piedi/me ne rimarrò in quest’angolo/dove un tempo c’era una strada/”. Seguono due love songs, pezzi più semplici, armonicamente e concettualmente, ma non per questo meno intensi, Did I Ever Love You e My Oh My: qui, specialmente nella prima, Leonard finalmente canta e non declama o parla o mugugna…
La successiva Nevermind (divenuta nel frattempo commento musicale dei titoli d’apertura della seconda stagione di True Detective) è interessante perché, per la prima volta, Cohen affronta qui apertamente il problema del conflitto israelo-palestinese: finora il cantautore ebreo aveva sempre preferito glissare ogni domanda sull’argomento sostenendo che si trattava di una questione troppo dolorosa per banalizzarla nei termini frivoli di un’intervista (in passato, nel 1974, durante la Guerra del Kippur, si era schierato con Israele suonando per le truppe nelle retrovie e scrivendo un verso – in seguito soppresso e mai eseguito dal vivo – in Lover,Lover,Lover in cui dice: ”Possa lo spirito di questa canzone/levarsi puro e libero/possa diventare per te uno scudo/uno scudo eretto contro i nemici/Amore, amore, amore, torna da me…” e più tardi nel 1984, in The Night Comes on, aveva aggiunto: “Combattevamo in Egitto/quando hanno firmato quel trattato/che stabiliva che nessun altro avrebbe dovuto morire/poi c’è stato un boato terribile/e mio padre è crollato/con un’orribile ferita nel fianco/Mi ha detto:”Cerca di tirare avanti/prendi i miei libri e il mio fucile/e ricorda, figliolo, come ci hanno ingannato”/Ma la notte procede/ sembra molto calma/Vorrei far finta che mio padre avesse torto/ma non voglio mentire/specialmente ai più giovani”): oggi finalmente si mette invece nei panni del nemico e duetta con una voce femminile che scandisce un lamentoso canto in arabo, vale la pena tradurre il testo per intero:
“La guerra è persa/ l’accordo firmato/non mi hanno preso/ho passato il confine/Non mi hanno preso/molti ci hanno provato/vivo fra loro/ ben camuffato/Ho dovuto lasciare/la mia vita alle spalle/ho scavato delle tombe/che non troverai mai/La storia è raccontata/con fatti e bugie/avevo un nome/ma non importa/Non importa/Non importa/La guerra è persa/l’accordo firmato/C’è una verità che vive/e una che muore/non so qual è/quindi non importa/La vostra vittoria/è stata così totale/che alcuni di voi/vogliono fare il conto/ delle nostre piccole vite/dei vestiti che portiamo/dei cucchiai e dei coltelli/I giochi fortunati/dei nostri soldati/le pietre che abbiamo tagliato/le canzoni che abbiamo composto/La nostra legge di pace/che comprende/ che un marito guidi/ e che una moglie comandi/ E tutte queste espressioni/ della Dolce Indifferenza/che qualcuno chiama amore/o dell’Alta Indifferenza/ che qualcuno chiama destino/ ma noi usiamo Nomi più intimi/Nomi così profondi/ Nomi così veri/ che sono sangue per me/ e cenere per te/ Non c’è bisogno/ che questo sopravviva/ c’è una verità che vive/ e una che muore/ Non importa/ Non importa/ Ho vissuto la vita/ che ho lasciato alle spalle/ Non potevo uccidere/ nel modo in cui uccidete voi/ Non potevo odiare/Ho provato e ho fallito/ Mi avete consegnato/o ci avete provato/Vi siete alleati con loro/ che disprezzate/ Ecco il vostro cuore/questo sciame di mosche/ecco la vostra bocca/ questa ciotola di bugie/Li servite bene/non mi sorprende/siete del loro ceppo/ siete del loro genere/ Non importa/ Non importa/ La storia è raccontata/ con fatti e bugie/ siete i padroni del mondo/ quindi non importa/ Non importa/ Non importa/ Ho vissuto la vita/ che ho lasciato alle spalle/ L’ho vissuta piena/ l’ho vissuta intera/ attraverso strati di tempo/ che non potete separare/ La mia donna è qui/ I miei figli anche/ le loro tombe sono al sicuro/ da fantasmi come voi/ In posti profondi/ con radici intrecciate/ vivo la vita/ che ho lasciato alle spalle/ Non mi hanno preso/ ho passato il confine/ vivo tra di voi/ ben camuffato”.
Dopo questo grande pezzo un altro capolavoro, Born in Chains, una canzone che Leonard si porta dietro da decenni e che finalmente ha trovato compimento, ennesimo rimando ai salmi biblici e alla metafora dell’Esodo in termini di alto misticismo :”Ero nato in catene/ ma sono stato condotto fuori dall’Egitto/ ero nato per la soma/ ma la soma è stata sollevata/ Signore non posso più/ serbare il segreto / Sia benedetto il Nome/ il Nome sia lodato/ Cercavo rifugio al confine/ del Potente Mare della Tristezza/ inseguito dai cavalieri/ di un crudele e oscuro regime/ ma le acque si sono separate/ e la mia anima è passata attraverso/ via dall’Egitto/ via dal sogno del Faraone/ Verbo dei Verbi/ Misura delle Misure/ Benedetto sia il Nome/ il Nome sia benedetto/ scritto sul mio cuore/ in lettere di fuoco/ so solo questo/ non riesco a leggere il resto/ Ero pigro con la mia anima/ quando ho sentito che potevi usarmi/ ho seguito strettamente/ ma la mia vita è rimasta la stessa/ poi mi hai mostrato/ dove eri stato ferito/ in ogni atomo spezzato è il Nome/ Ero solo sulla strada/ il Tuo Amore così confuso/ e tutti i miei maestri mi dicevano/ che la colpa era solo mia/ Ma nella stretta dell’Illusione dei Sensi/ una dolce incoscienza/ ha unificato il Nome/ Verbo dei Verbi/ Misura delle Misure/ Benedetto sia il Nome/ il Nome sia benedetto/ scritto sul mio cuore/ in lettere di fuoco/ so solo questo/ non riesco a leggere il resto/ Ho sentito che l’anima si schiude/ nelle stanze del suo desiderio/ e il liquore amaro si addolcisce/ nella coppa battuta/ma tutte le scale della notte sono cadute ormai/ e c’è solo oscurità ora a levare l’anelito in alto”. Dopo questo interludio ispirato e solenne, chiude il disco in bellezza e semplicità l’accorato country You Got Me Singing.
5) Leonard Cohen, Live In Dublin, 2014
Dopo i silenzi così lunghi a cui ci aveva abituato da sempre, il vecchio Canadese Errante si rifà ampiamente in una sorta di nuova, attardata gioventù, e quasi inflaziona gli spazi bruciando, a pochi mesi dall’uscita, il suo Popular Problems, con questo mastodontico CD/DVD che documenta la sua esibizione a Dublino del 12 settembre 2013. Troppi live in circolazione ? Che differenza c’è fra questo Live in Dublin e i precedenti Live in London e Songs From the Road ? La differenza è sottile ma c’è: il primo sceglieva i momenti migliori di una serata, il secondo i momenti migliori di un intero tour; questo invece riporta di seguito e senza tagli le tre ore continuative della performance in questione, dall’intro all’ultimo bis: chi non ha mai avuto la fortuna di assistere ad un concerto dell’ultimo Leonard Cohen così, si spara il DVD e si vive l’esperienza nella durata, senza selezioni di sorta.
Esperienza vivamente consigliata. I cavalli di battaglia ci sono tutti o quasi: da Dance me to the End of Love a Anthem, da Tower of Song a Take This Waltz, da Suzanne a So Long Marianne, da Chelsea Hotel #2 a Famous Blue Raincoat, da The Partisan a Hallelujah; chiude il concerto l’insolita cover di Save the Last Dance For Me (portata al successo da noi, nell’ italiano approssimativo dei Rokes, come Lascia l’ultimo ballo per me). In più tre bonus video extra concerto, con canzoni live tratte dal penultimo, pluripremiato disco Old Ideas: Show Me the Place, Anyhow, Different Sides, come sempre le esecuzioni sono molto superiori a quelle in studio ed esaltano al massimo le canzoni. Merita menzione completa l’eccezionale formazione di strumentisti: L.C., voce e chitarra acustica; Roscoe Back, basso a sei corde; Neil Larsen, tastiere e fisarmonica; Rafael Gayol, batteria e percussioni; Mitch Watkins, chitarre elettriche; Javier Màs, chitarra 12 corde, liuto, arciliuto, banduria; Alex Bublitchi, violino; Sharon Robinson, voce; Charlie Webb, voce, clarinetto, chitarra; Hattie Webb, voce, arpa celtica. Qualità sonora ottima; qualità video così, così; emozione forte, decisamente: di meglio c’è solo il concerto vero!