di Walter Catalano
1) J Mascis, Tied To A Star, 2014
Dopo l’ottimo Several Shades of Why del 2011, J Mascis, il chitarrista dei Dinosaur Jr., si rilancia felicemente sull’acustico (con assai minore integralità stavolta: d’altra parte che possiamo aspettarci dal gentleman che ha ordito per la Fender il modello ultra personalizzato della J Mascis Signature Jazzmaster ?). L’accigliato cinquantenne dalla lunga criniera argentata ripropone il suo geniale folk-rock in eterno equilibrio fra ballata melodica e riff chitarristico noise: una sorta di Neil Young che dopo un gargarismo di tequila sia precipitato dalla padella psichedelica nella brace post-punk. Si passa dalla fragile ed emotiva “Me Again”, alla ritmata e fragorosamente melodica “Every Morning” con un gradevolissimo assolino molto dinosauriano; dalla sinuosa “Heal the Star”, alla stupenda “Wide Awake” – la migliore del disco, impreziosita dal duetto con la bella Cat Power – per tornare poi ad un noise più deciso e tuttavia ancora gradevolmente melodico con “Stumble”; poi alla ballata struggente con “And Then”; alla strumentale virtuosistica e orientaleggiante “Drifter”, degna di un Jimmy Page pre-stonamento permanente; di nuovo alla ballata con “Trailing Off”, molto classica ma lacerata da assoli elettrici super distorti in cui riecheggiano ancora i Dinosaur Jr; si chiude in bellezza con la lunare “Come Down” e l’ossessiva “Better Plane”. Un altro grande disco che unisce la piacevolezza all’originalità, un tocco chitarristico ed una voce inconfondibili all’irresistibile simpatia di un serafico e imperturbabile signore occhialuto e sovrappeso che potremmo banalmente immaginare dietro il banco di un ufficio delle poste o di una friggitoria, per fortuna sua e nostra invece, sta dietro una sei corde e si trasforma in un leone, anzi in un dinosauro.
2) Current 93, I Am The Last Of All The Field That Fell, 2014
Quanti dischi ha realizzato David Tibet ? Ho perso il conto e quanto diversi l’uno dall’altro. Il periodo rumorista e satanista; quello crowleyano e gotico; quello classicheggiante spiritualista e cristiano-esoterico-gnostico; quello del folk apocalittico; le collaborazioni con Genesis P-Orridge, con i Throbbing Gristle, gli Psychic TV, i Nurse With Wounds, Douglas P. e i Death In June, Nick Cave, lo scrittore horror americano Thomas Ligotti: insomma il fior fiore dell’underground musicale e culturale anglofono. Il tormentato compositore albionico, che pure spesso rischia di risultare monolitico, depressivo e indigesto, ci ha lasciato nel cuore varie perle indimenticabili: la sublime ballata “A Gothic Love Song” (con quel finale che accappona la pelle: “And nonetheless I still write this gothic lovesong/A sign to myself/And the memory of my past/I still write this gothic lovesong/ A sign to myself/And the memory of my past/And a way to shut out your face”); la litania miltoniana “Lucifer Over London”; la diabolica ninna nanna in duetto con Nick Cave “All the Pretty Little Horses”; lo psicodramma neurotico e liberatorio di “Black Ships Ate the Sky” (con quei versi strazianti urlati al parossismo:”Who will deliver me from myself ? Who will deliver me from black ships in the sky ?”); la dolente elegia dell’annullamento supremo di “Sleep Has His House” (“Have pity for the dead/Sleep has his house/ Overwhelm me/Overwhelm me/ Forever/Forever/Sleep has his house…”); la dolcemente affranta “A Sad Sadness Song”; e molte, molte altre. Negli ultimi anni un eccessivo ermetismo e una musicalità sempre più solipsistica e autoreferenziale in cui uno Sprechgesang quasi schönberghiano sostituiva qualsiasi compiacimento melodico, aveva reso sempre più difficile e faticoso l’ascolto di questo pregevole outsider: finalmente l’uscita di questo disco risolve felicemente e senza compromessi di sorta l’impasse. Frutto di collaborazioni di altissimo livello il disco, pur impegnativo, colpisce profondamente fin dal primo ascolto per l’atmosfera e l’intensità oltre che per le presenze importanti: intanto il sound designer Jack Barnett, frontman della band londinese dei These New Puritans; poi gli svolazzi atonali di pianoforte di Reinier van Houdt dell’Ives Ensemble; Jon Seagroatt al clarinetto basso e al flauto traverso e John Zorn al saxofono; le chitarre di Tony McPhee (che offrono perfino il détournement di un bottleneck) e le percussioni di Carl Stokes si confrontano in una specie di jam session che squaderna l’armonia impensabile di costellazioni diverse e apparentemente divergenti. Emergono, oltre la voce declamante di Tibet, quella di Bobbie Watson – la controparte femminile di Roger Wootton in una delle band storiche dell’avant-folk degli anni ’70: i grandissimi Comus – quella controtenorile di Antony che intona un vero e proprio lied classico e il gradito ritorno di quella del vecchio amico Nick Cave. Titoli e testi come sempre sacrali e oscuri con citazioni latine da Sant’Agostino, parole ebraiche e aramaiche snocciolate qui e là (e sì, molto meno sacrale, anche un po’ di italiano, a un certo punto:” bellissimo, fichissimo turn of the tide”), e, forse, un sense of humor molto inglese e molto, molto sotterraneo. Disco bello senza dubbio, ma non per tutte le occasioni…
3) Panda Bear, Panda Bear Meets The Grim Reaper, 2015
Titolo macabro (l’Orsetto Panda incontra il Triste Mietitore) per un disco solare e colorato che rimanda a Brian Wilson, ai Beach Boys e alla grande tradizione della psichedelia degli anni ’60. Panda Bear, alias Noah Lennox, musicista di Baltimora trapiantato in Portogallo, produce un patchwork digitale a base di loops strumentali, rumori d’ambiente, cut-up sonori che spaziano dai The Soul Searchers, allo Schiaccianoci di Čajkovskij, a Debussy, dissezionati e rimontati, sovrapposti alla sua esile e mantrica voce, all’insegna dello psych-pop elettronico e della neo-psichedelia. Dopo“Tomboy”(2011), “Young Prayer”(2004) e soprattutto “Person Pitch”(2007), il suo lavoro più riuscito, e la parabola free-folk degli Animal Collective, sembra che il ciclo della purezza neo-hippie, delle armonie vocali adamantine su un tappeto di beat stratificato dalla dolcezza caramellosa, sia ormai concluso e approdato ad una consapevolezza più matura che ha perso però per strada un po’ dell’originaria gioia, ingenua e infantile, ma non della genialità melodica: il pezzo più bello del disco infatti è Tropic of Cancer, delicato arpeggio su cui si erge la rarefatta e commovente melodia in ricordo del padre del musicista, scomparso improvvisamente per un cancro. I bambini crescono.