di Gioacchino Toni
Maddalena Mazzocut-Mis (a cura di), Dal gusto al disgusto. L’estetica del pasto, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015, 205 pagine, € 19,00
Il saggio curato da Maddalena Mazzocut-Mis indaga il rapporto fra gusto e disgusto a cavallo tra estetica ed alimentazione passando in rassegna diverse epoche storiche. Mentre i sensi come la vista e l’udito hanno goduto di una speciale considerazione nel pensiero occidentale in quanto considerati vie privilegiate di accesso alla conoscenza, il gusto è invece stato frequentemente relegato ad un livello decisamente inferiore. Platone, collegando il gusto al basso piacere dell’alimentazione, lo indica addirittura come nemico dell’attività intellettuale. È tra il Sei e Settecento che si ha una sorta di riabilitazione del gusto pur senza affrancarlo dalla carnalità sensoriale attivata dall’alimentazione.
Tenendo in considerazione l’incidenza delle trasformazioni sociali sulla dimensione culturale, i diversi contributi di Maddalena Mazzocut-Mis, Paola Vincenzi, Claudio Rozzoni e Serena Feloj, analizzano, a partire dalle premesse rinascimentali, i mutamenti del gusto in ambito culinario, in particolare nel corso del Sei e Settecento, passando in rassegna la trattatistica relativa alla scienza culinaria, le credenze mediche, la messa in scena dei banchetti e l’aspetto decorativo delle vivande nel passaggio “dal commestibile al godibile”. Una parte della trattazione è dedicata alla ricerca settecentesca di giungere ad una convincente definizione di “piacere” ed al binomio appagamento sessuale-soddisfacimento dello stomaco che rappresenta una costante del pensiero libertino dell’epoca.
Nel secolo dei Lumi, il gusto ha a che fare con la “capacità di discernerne la bellezza artistica e naturale”, pertanto esso si offre come strumento in grado di ampliare le possibilità di entrare in rapporto con le cose. In linea con i principi dell’Encyclopédie, l’individuo non può lasciarsi guidare dal gusto senza che quest’ultimo sia stato educato; occorre fornire al soggetto la capacità di gestire quanto potrebbe disturbarlo o corromperlo nel corpo e nell’intelletto. “L’amore disordinato della buona tavola va di pari passo con la degradazione dei costumi ed è considerato alla stregua dei vizi corruttori dell’animo umano”.
Particolare attenzione viene riservata alle trasformazioni del gusto in rapporto alla mobilità sociale della Francia settecentesca; l’ascesa borghese determina, ovviamente, anche a tavola, nuovi riti di socializzazione e nuove modalità di consumo del cibo dando luogo ad un tipo di alimentazione sempre più lontano dalla secentesca opulenza aristocratica. Dall’analisi dei testi di cucina dell’epoca si comprende, inoltre, come il nuovo gusto francese, affrancatosi degli interdetti religiosi del secolo precedente, sia rivolto ad una “fruizione degustativa regolata”, in linea con lo spirito illuminista.
Nel corso del XVIII secolo, il disgusto si configura come minaccia al piacere estetico derivata dalla sensazione fisica di nausea di fronte al cibo. L’indagine del rapporto tra estetica ed alimentazione introduce alla questione del disgusto. Nell’Encyclopédie il disgusto viene affrontato dal punto di vista medico, non tanto come degenerazione del gusto ma come malfunzionamento della degustazione che porta alla mancanza di appetito. Il Settecento non ammette una fruizione estetica del disgusto, essendo trattato come mera devianza patologica. “Il disgusto è una sensazione chiusa all’interno di una negatività che non porta mai verso un piacere. Non ha mai i tratti dell’ambivalenza e dell’illusorietà, e non entra nel circuito di ciò che può, a vario titolo, essere considerato artistico”. Nel secolo dei Lumi, sostiene la curatrice del saggio, il disgusto non deve essere confuso col brutto, non è il contrario del bello, “se l’irrappresentabile è al limite di una rappresentazione, l’orrore è ancora al di qua del confine, il disgusto è già al di là”. Mentre il sublime “respingendo attrae”, all’opposto il disgusto risulta repellente, allontana dalla fonte disgustosa. Il saggio si sofferma sulla svolta kantiana che esplicita il legame tra estetica e moralità e, successivamente, analizza la filosofia postkantiana ove il disgusto inizia ad essere inteso come “parte di una generale inclusione del brutto, del grottesco e del nauseante nell’estetica”.
Il contributo di Michele Bertolini si occupa invece dello spazio conquistato dal disgusto nel panorama artistico e cinematografico a partire dalla frattura fra arte e bellezza sancita dalle avanguardie del primo Novecento. L’autore decide di affrontare l’ambito artistico riprendendo la proposta marxiana di intendere il consumo come modalità di produzione: “L’idea dell’arte come merce da consumare e del consumo come forma di produzione, come trasformazione produttiva della realtà e non semplice digestione passiva, che progressivamente s’impone a partire dal ready-made di Duchamp, può costituire un efficace punto di partenza per un approccio generale all’arte del Novecento”. A partire da tale premessa Bertolini sostiene che il ready-made duchampiano può essere interpretato come una modalità di consumo produttivo che apre nuove strade all’arte contemporanea. Facendo riferimento soprattutto agli happening che strutturano banchetti a cui il pubblico è invitato a partecipare, Bertolini sostiene che “l’artista contemporaneo sembra rivolgersi al dispositivo formale della distribuzione, del consumo e della lavorazione del cibo come a un generatore di processi sociali e di scambi interpersonali locali che possono opporsi al sistema dell’economia ‘globale’ e al dominio invisibile e smaterializzato del mercato”. Mentre la produzione artistica relazionale negli anni ’60 e ’70 mirava ad un ampliamento dei limiti, ai giorni nostri, secondo l’autore, si tende maggiormente alla costruzione di modelli di socialità provvisori; è come se fosse caduta ogni possibilità di ambire a trasformazioni durature e via via sempre più allargate. Il contemporaneo sembra non riuscire ad andare oltre la creazione di forme di convivialità e socialità temporanee, accontentandosi di sperimentare e vivere momenti relazionali significativi ma effimeri.
Dalla preparazione e dal consumo conviviale dei cibi al loro utilizzo invasivo ed avariato, il passo è breve e, per tale via, si giunge facilmente all’introduzione del disgusto in ambito artistico. Secondo l’autore, nell’età contemporanea, il disgusto non deve essere considerato il contrario del buon gusto, ma come una consapevole e volontaria reazione nei suoi confronti. I tanti casi in cui l’arte ed il cinema costringono lo spettatore a confrontarsi con reazioni fisiologiche estreme possono essere interpretati come rigetto dell’estetica del buon gusto. Nell’ipotesi di Bertolini, il disgusto, così come l’informe, nel suo far saltare la distinzione tra interno ed esterno di corpi, tra uomo ed animale, si presenta come movimento di degradazione che può tradursi in espressione artistica quando sovverte “le possibilità interpretative di un’estetica giudicatrice, di un’estetica della forma e del buon gusto”. Il disgusto sovverte la distinzione tra interno ed esterno di corpi attraverso due processi opposti: dall’interno all’esterno e dall’esterno all’interno. Il primo caso evoca “forme di apertura del corpo”, il secondo replica in una forma nauseante il consumo del cibo. Il corpo viene smembrato e dato a vedere anche nei suoi anfratti più nascosti. L’estroflessione dell’interno del corpo e la violazione della sua integrità comportano un movimento in direzione dell’informe “che può essere interpretato come una paradossale apertura alle metamorfosi, alle infinite possibilità della forma”, come avviene nel film The Brood (Brood – La covata malefica) del 1979 di David Cronemberg, ove una donna dall’utero estroflesso genera esseri mostruosi. L’autore sottolinea come il cinema cronemberghiano della “bellezza interiore” e dalla “nuova carne” (derivata da ibridazioni fra specie ed organismi e fra corpo biologico e protesi tecnologiche) rimandi all’idea di disgusto proposta da Aurel Kolnai ad inizio Novecento, così riassunta da Bertolini: “un eccesso distruttivo e perverso di vita, irriducibile a qualsiasi forma stabile, che invade e attraversa perfino la morte sotto l’aspetto di una vita putrida, senza riuscire a morire”.
In ambito artistico la categoria del disgusto ha avuto negli ultimi decenni grande diffusione soprattutto tra i cosiddetti “giovani artisti britannici” che hanno esposto più volte cadaveri, deformità, elementi in decomposizione, ibridazioni tra organico ed inorganico ecc. Tali proposte artistiche non hanno a che fare con una “poetica del realismo estremo”, occorre piuttosto, sostiene l’autore, “scorgere nel cuore dello spettacolo estetico (la mostra, il mercato e il sistema dell’arte) l’imposizione violenta ai sensi di un disgusto che richiede la nostra adesione e che tuttavia non può essere contemplato o guardato come uno spettacolo”.
Dopo aver analizzato le differenze tanto a livello teorico, quanto a livello di pratiche artistiche, dei concetti di informe, abiezione ed osceno, determinanti diverse diramazioni del disgusto, Bertolini si interroga circa la possibilità di un’estetica del disgusto. “Il disgusto è un processo, un movimento funzionale al suo superamento, alla liberazione dal nauseante (come nel caso del vomito), a una riconquista della purezza perduta, o viceversa al riconoscimento del basso materiale, della dimensione naturale che ci appartiene?”. La produzione artistica novecentesca che ha proposto rappresentazioni del disgusto e del nauseante più estreme, sposta, senza cancellarlo, il limite nella raffigurazione del disgusto obbligando l’estetica contemporanea ad interrogarsi circa la variabilità e la mobilità della frontiera tra presentabile ed irrappresentabile.
“Il disgusto ‘artistico’ è quindi inserito all’interno di un processo di fruizione che non deve necessariamente addomesticarlo, neutralizzarlo o riscattarlo: esso può (…) fermarsi all’informe, senza cedere alla tentazione di un’arte dell’abiezione che finisce per feticizzare i proprio oggetti, le sostanze escrementizie (…) o i temi (…), e quindi per irrigidirsi in significati fissi, pietrificati, in una cornice semantica a priori, oppure giocare tra diverse categorie (…) spostando l’attenzione dall’oggetto, da ciò che genera disgusto, al rapporto totalizzante che l’opera impone al nostro corpo, ai nostri sensi, al di là o al di qua della rappresentazione”. Di fronte ad operazioni artistiche giocate sul disgusto si impone un deciso cambiamento alle modalità di fruizione, non può più trattarsi di un rapporto di tipo contemplativo, ma di un vero e proprio coinvolgimento totale che comporta “un abbandono al dolore e allo choc come unica possibilità di ricezione richiesta dall’opera d’arte, nella rinuncia a qualsiasi, pur minima, distanza di sicurezza”.