di Mauro Baldrati
Qualche commentatore ha definito The Martian un film di fantascienza “leggero”. Ora, lo spettatore appassionato del genere SF, e del maestro Ridley Scott, già regista degli intramontabili Alien e Blad Runner (ma non solo, anche di film storici di prim’ordine come Il Gladiatore e I Duellanti) non può non avere un sobbalzo sulla sedia. Leggero? Ma scherziamo? Un film di fantascienza “tosto”, come ci ha abituato il maestro, non può essere tale. Perdio, vogliamo il mistero, l’avventura, e anche se forse non è più tempo di mostriciattoli, almeno la minaccia, la vibrazione pericolosa.
Ma non solo. Sopravvissuto sarebbe addirittura “comico”.
No, è troppo. A questo punto lo spettatore appassionato di SF non può non andare al cinema prevenuto, preoccupato e con un “grave sospetto”.
Poi, qualche commentatore si è lasciato andare a lodi sperticate e imbarazzanti al film proprio perché gode di questi requisiti, oltre al fatto che uno dei produttori sarebbe la NASA.
La NASA. Però, che figata. I negazionisti sostengono che avrebbe falsificato lo sbarco sulla luna, e hanno addirittura indicato il capannone dove è stato allestito il set.
Lo spettatore prevenuto quindi, dopo qualche esitazione, si è deciso ad assistere alla proiezione cercando, per quanto è possibile, di non farsi condizionare dal “grave pregiudizio” ormai acquisito, ma di “pensare positivo”.
Fosse facile.
Già dall’inizio, all’interno delle prevedibili, godevoli e straordinarie inquadrature di un immenso paesaggio composto da montagne rocciose e sabbia rossa, sferzato da un vento feroce e abbacinato da un sole che sbrana, con gli astronauti infilati in tute spaziali che sappiamo essere verosimigliantissime in quanto prodotte dalla consulenza della NASA, si sviluppano e si moltiplicano le solite battute di quel consolidato humor all’americana, che consiste nella matrice originale british cucinata nel rozzo pentolone della frontiera, coi vaccari denominati cow-boys che raccontavano e cantavano le loro avventure, quasi sempre inventate, di eroi solitari.
E di questo si tratta, appunto.
Una tempesta di sabbia particolarmente violenta obbliga l’equipaggio a ripartire alla svelta, pena la distruzione della nave spaziale, lasciando però disperso uno di loro, Mark, interpretato – va detto – da uno dei più bravi attori di Hollywood, Matt Damon. E’ sparito, trascinato via da un pannello sparato dal vento, ma i poveri colleghi, tutti uniti dal più puro senso di appartenenza sociale della mitopoietica americana, lo dichiarano morto, per giustificare la fuga precipitosa.
E qui, l’eroe solitario inizia la sua saga.
E la definizione di “leggero” risulta purtroppo adeguata. Per sopravvivere, Mark sfrutta le sue cognizioni scientifiche, botaniche innanzi tutto, riuscendo a terraformare una porzione di materiale sabbioso marziano all’interno della base. Poi si procede con una infinità di operazioni scientifiche per produrre l’acqua necessaria per innaffiare le patate e per creare energia, riutilizzando i materiali danneggiati della base.
Intanto sulla terra la NASA riesce a scoprire, per caso, che Mark è vivo e inizia lo studio di un complicato programma di recupero, che vedrà protagonista un’altra superattrice americana, Jessica Chastain, che abbiamo ammirato nel notevole Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow, oltre che nel contorto, pedante Interstellar di Cristopher Nolan.
Si può dire che il film è tutto qui.
Le inquadrature e gli effetti sono notevoli, ma come potrebbe essere diversamente quando dietro c’è uno specialista come Ridley Scott?
Ma ovviamente non bastano. Talvolta sembra di essere in una puntata di serie A di Star Trek, con quelle sequenze di “i microselettori sono sovraccarichi, rischiamo un’esplosione” col seguito di “riduci la frequenza delle unità 1 e 2, per alleggerire la fusione”, e poi un minaccioso “ma così rischiamo di fondere i processori quantici”, e lo spettatore, pur paziente e disposto a (quasi) tutto, socchiude gli occhi e sospira.
Mark riesce così a tirare avanti, tenendo un diario on-line infarcito delle solite battute comiche, va in giro col “Rover”, manda messaggi, e null’altro. La tensione narrativa, tutto sommato mediocre, riceve un po’ di energia durante il recupero, anche se il solito eroismo panamericano qua e là deborda e ci strappa più di un “e vabbé, dai”.
Insomma, bella fotografia, effetti ottimi anche se non originali, attori bravissimi, la firma di un regista al quale siamo disposti a perdonare molto (ma non tutto), per un film abbastanza fiacco, poco utile, nel quale proprio non riusciamo a capire dove stia la SF.