di Sandro Moiso
Atlante dei Classici Padani, Un progetto di Filippo Minelli (a cura di Francesco D’Abbraccio, Andrea Facchetti, Emanuele Galesi e Filippo Minelli), Krisis Publishing, Brescia 2015, pp. 720, € 60
Provate ad immaginare un non luogo della lunghezza di 400 chilometri e di circa 40.000 km quadrati di superficie, perché è di questo che si parla in questo testo.
Ci troviamo forse di fronte ad un testo inedito di James Ballard o a quello di qualche suo epigono? No. Paradossalmente questo non luogo esiste. Si tratta della Macroregione Padana o, meglio, della Pianura che si estende dai piedi delle Alpi piemontesi a Venezia.
Copre 1/8 dell’intero territorio nazionale e comprende più di un quarto della popolazione italiana.
Dal punto di vista della ricchezza accumulata e diffusa probabilmente di più ancora.
Un territorio sul quale si è letteralmente incrostato il capitale. Produttivo e non.
Un territorio esplorato, letteralmente ricartografato (basti pensare alle coordinate che accompagnano ognuna delle centinaia di fotografie, poco meno di un migliaio, che accompagnano il testo, costituendone il vero fulcro) e analizzato, nel corso di un lavoro durato anni, dai curatori dell’opera.
Filippo Minelli (fotografie) ed Emanuele Galesi (testi) con Francesco D’Abbraccio e Andrea Facchetti (progettazione grafica e layout) non solo hanno realizzato un atlante di un enorme non luogo, ma hanno forse contribuito alla realizzazione del primo manuale di psico-geografia ed archeologia economica di un territorio sul quale, negli anni novanta del secolo appena trascorso, si aveva una densità economica media che andava dai 3 milioni e 200 mila dollari per kmq ai 21 milioni e 200 mila dollari sempre per chilometro quadrato.
Un’accumulo di lavoro morto (secondo la definizione data da Marx dei mezzi di produzione), di capitale morto che è documentata non soltanto dai dati di carattere economico e produttivo, ma dalla trasformazione visibile e fotografabile del territorio. Un territorio privato di qualsiasi altra identità, alla faccia di chi ancora esalta e difende i valori padani, che non sia quella della produzione e della messa in mostra della ricchezza accumulata ( e magari poi persa o dissolta nel corso delle ultime crisi).
In realtà una non identità che ha cancellato qualsiasi altra identità o memoria (di classe o storica che fosse) che non sia quella della produzione o del consumo (di qualsiasi tipo di merce). Un panorama che rimanda immediatamente ad altri come quelli anonimi e tutti uguali, che corrono dalla Costa Azzurra alla suburra metropolitana di Londra, descritti nell’ ultima tetralogia di James Ballard 1 oppure alle anonime autostrade e ai giganteschi anelli di congiunzione e collegamento che circondano e penetrano Los Angeles, creandone la sola e unica identità. Unica metropoli al mondo immediatamente riconoscibile non per un qualche monumento, ma soltanto a partire dai nastri d’asfalto, spesso sovrapposti, che la percorrono, la delimitano e la vivificano.
La Macroregione dei classici padani, ci avverte quasi in apertura il testo, ha una capitale. Milano, ”collocata al centro della Macroregione Centrale” e due sottocapitali: “Torino, capoluogo della Macroregione Occidentale […] e Venezia, capoluogo della Macroregione Orientale […] A collegare i tre principali centri politici, amministrativi e in parte anche economici c’è l’Autostrada A4, detta Serenissima […] la Grande Madre della Macroregione.Sommando gli abitanti della capitale e delle sottocapitali si arriva a tre milioni e seicentomila persone: le restanti tredici milioni che occupano la macroregione vivono in comuni medi, medio piccoli, piccoli e piccolissimi, nell’estesa urbanizzazione dispersa e diffusa che la caratterizza” ( pag. 33)
Un autentico regno dell’investimento, della produzione e del cemento che sembra aver sottomesso alle proprie esigenze qualsiasi altro fattore umano o ambientale. Le fonti ISTAT citate nel testo affermano che: “Il prodotto interno della Macroregione è di 600 miliardi di euro all’anno. Due terzi dei centri più ricchi appartengono alla Macroregione Centrale e la maggior parte di questi non supera i 10.000 abitanti” (pp. 210 – 211). “Per tutte e tre (MacroCentrale, MacroOccidentale e MacroOrientale), vale, anche dopo anni di crisi, una caratteristica generale: non c’è settore economico su cui non sia piovuta una prosperità soffocante, dall’agricoltura al commercio, dall’artigianato alla finanza. Non c’è il petrolio: la corsa all’oro, nella Macroregione, è stata fatta sfruttando le risorse direttamente disponibili: spazio, tempo e lavoro, inteso come fatica […] è un organismo alimentato dalla piccola e media impresa “ (pag. 208)
Ecco, proprio questi si rivelano essere i classici padani del titolo: lavoro, investimenti, produzione. A qualsiasi costo, così come la mentalità di un’artista ammalato di grandezza e assetato di successo potrebbe trasfondere nelle sue opere. E qui le opere sono e devono essere sempre Grandi Opere: “La condizione necessaria per l’avvio di ogni nuova opera intrapresa infrastrutturale è la sua smisuratezza. Fuori misura dal punto di vista economico, fuori misura dal punto di vista degli impatti sulle aree attraversate, fuori misura dal punto di vista dei benefici. L’enormità, l’incalcolabilità, la monolitica fuoruscita da qualsiasi scala di valori: caratteristiche che garantiscono all’infrastruttura una vita progettuale sufficientemente lunga perché si possa, per sfinimento o per la pretesa impossibilità di tornare indietro, realizzare l’opera” (pag. 134)
Lo spazio è qualcosa da riempire. Tutta la mentalità prodotta dalla e nella Macroregione sembra essere ossessionata dall’horror vacui, dal timore che possano esistere spazi non ancora messi in produzione, non ancora occupati oppure spazi non adatti all’investimento e quindi da valorizzare al più presto. Che poi ad occuparli siano capannoni, case, cartelloni pubblicitari, centri commerciali, infrastrutture o semplici rotatorie non importa. A differenza degli a solo di tromba di Miles Davis o della scrittura di Italo Calvino, qui non bisogna togliere nulla ma riempire, investire, costruire.
“Non è mai stato compilato un censimento ufficiale, ma si stima che nella Macroregione Centrale le rotatorie costruite siano oltre 6.600: quasi 2.000 quelle lungo le strade provinciali, 4.650 quelle lungo le vie comunali” (pag. 156). Nell’intera Macroregione “si trovano circa otto milioni e mezzo di abitazioni, un terzo del totale dell’intero Paese, in cui risultano residenti mediamente 2,4 persone. Tra gli occupanti della Macro, il settanta per cento è proprietario di un alloggio: nella Piana e nella Pedemontania sono state piantate senza sosta bandierine in mattoni e calcestruzzo servite a diffondere identità basate sul possesso esclusivo e speculativo […] Ciò che resta invenduto o inutilizzato rappresenta mediamente un quarto del patrimonio edilizio esistente, con punte che superano il quaranta per cento in zone ultraedificate” (pp. 485 – 486)
“ La Macroregione senza cantieri non sarebbe Macro. Raccordi autostradali, innalzamento di tramezze, tubi delle fognature da sostituire, villette e palazzi a puntellare il paesaggio; è stata calcolata un’occupazione del suolo pari a otto metri quadri al secondo dagli anni Cinquanta ad oggi […] Il cantiere è segno di vitalità, secpmdo il vecchio adagio «quando la cazzuola fischia l’economia canta» e con lei intonano un Magnificat i coristi impegnati nei trasferimenti di denaro dal chiuso dei fondi bancari o dei doppifondi aziendali” (pag. 41)
Ma se la cementificazione allargata e selvaggia costituisce il tratto distintivo dell’intera area, accomunando villette a schiere, sexy shop, ville padronali integrate con l’azienda di famiglia e la piscina, mega-discoteche, locali per massaggi, parchi di divertimento e negozi per la compra-vendita dell’oro (tutti adeguatamente segnalati, fotografati ed ordinati nell’ambito dei diversi capitoli in cui il testo è suddiviso), sono le autentiche rovine post-industriali delle centinaia di capannoni abbandonati, dismessi oppure semplicemente mai utilizzati a rivelare il vuoto, l’inutilità e i danni psico-ambientali rilasciati dal sogno di un capitalismo che crea ricchezza per tutti, ma che tale non è.
“Incompiuta, abbandonata, mummificata. L’archeologia della Macropoli è un tour nel disastro aziendale, tra le rovine del presente, lungo le file dei cadaveri urbani in putrefazione, in un macabro allestimento che allo spettatore dice ricordati che sei già morto. La Piana appiattisce tutto e tutto attorno non ci sono più indizi per capire in quale tempo ci si trovi, ogni cosa è diluita nell’Età della Grande Crisi e ogni settore partecipa attivamente all’esibizione delle atrocità 2 […] Edifici mai arrivati al tetto o da cui il tetto è stato rimosso per pagare meno tasse sugli immobili, edifici lasciati al loro lento disfacimento […] 220.000 nella Macroregione Centrale, centomila nella Macroregione Occidentale, centomila nella Macroregione Orientale: il calcolo dei posti di lavoro persi dal 2008 prosegue assieme a quello delle aziende chiuse. Nel 2013, anno della massima devastazione, se ne conteggeranno due all’ora” (pag.348)
“ La megalopoli padana è una divoratrice di spazio e di storia formidabile, semina distruzioni, cancella memorie. La produzione è una condizione necessaria per consentire agli uomini di abitare e alla megalopoli che li ospita per alimentare la propria esistenza” recita la citazione posta in quarta di copertina. Ma oggi cosa resta di questo sogno di dominio? Cosa potrà sopravvivere di una megalopoli che ha cancellato ed annullato qualsiasi separazione tra città e campagna, tra passato e presente e tra le classi per sostituirla, quest’ultima, con l’ansia per il mutuo, le tasse e lo straniero? Un unico cuntinuum con cui ha incrostato non solo il territorio, ma anche la psiche dei residenti. Una autentica gigantesca rete di relazioni e rapporti alle cui maglie è difficile sfuggire.
Così come nella pittura del Romanticismo l’artista esprimeva le proprie passioni e il proprio paesaggio interiore di sentimenti attraverso la riproduzione di paesaggi spesso cupi e tempestosi, oggi è il paesaggio della Macroregione a penetrare i sentimenti e a creare le passioni dei suoi abitanti. L’egoismo, il razzismo, il mal celato fascismo leghista sono il prodotto di questo territorio, non della sua storia. Alle spalle della Lega non ci sono i Celti, c’è il cemento.
Come ho affermato all’inizio, ci troviamo davanti alla conferma di una intuizione lettrista: quella della psico-geografia ovvero della possibilità di interpretare mentalità che non solo definiscono un territorio, ma che ne sono a loro volta determinate. La radicalità dello sguardo fotografico di Filippo Minelli ci ritrasmette un’immagine priva di presenze umane, quasi a volerci suggerire che la personalità o la mentalità viene definita da ciò che l’occhio può cogliere. Mentre ciò che l’orecchio percepisce, in questo caso, non può essere altro che il rumore di fondo prodotto dalle officine e dalle autostrade. Entrambe sempre più silenziose.
Un‘opera unica, oserei forse dire monumentale. Una straordinaria mappatura del disagio esistenziale ed ambientale prodotto dal capitalismo e spacciato, ormai da troppo tempo, come benessere. Un’opera in cui la fotografia dell’esistente, cogliendo il rictus scambiato troppo spesso per sorriso, si trasforma in un vero e proprio atlante di anatomia patologica di una società ormai entrata nella fissità del rigor mortis. Il prezzo è elevato, ma occorre tener conto, oltre che delle sue caratteristiche e dimensioni, anche del fatto che potrebbe costituire un’ottima strenna natalizia per chiunque si senta respinto o nemico del modo di produzione oggi ancora dominante.
Brevi note sugli autori e curatori del testo:
Filippo Minelli (Brescia 1983) è un artista contemporaneo che analizza e ricerca tematiche in campi come l’architettura, la politica, la comunicazione e la geografia utilizzandole come base per la creazione di installazioni e performances documentate attraverso fotografia e video.
www.filippominelli.com
Emanuele Galesi (Brescia, 1980) è un giornalista, lavora al Giornale di Brescia dove si occupa di cronaca locale affrontando temi amministrativi, politici e ambientali.
Krisis Publishing (Francesco D’Abbraccio e Andrea Facchetti) è un progetto editoriale nato in seno all’attività di Unità di Crisi, collettivo di graphic designer e teorici della comunicazione già editori di Krisis Magazine. K | P investiga il ruolo dei linguaggi visivi nella contemporaneità.
www.krisispublishing.com
Cocaine Nights, Baldini Castoldi Dalai 1997; Super–Cannes, Feltrinelli 2000; Millenium People, Feltrinelli 2004; Regno a venire, Feltrinelli 2006 ↩
Ancora una volta la mente di chi legge non può fare a meno di correre a James Ballard e ai suoi romanzi La mostra delle atrocità, Rizzoli 1991 e Crash, Rizzoli 1990 ↩