di Marilù Oliva
Perché non ci sono state grandi artiste? Questo si domandava Linda Nochlin, in un saggio snello che vedeva la luce negli Stati Uniti di inizio anni Settanta con un titolo eloquente – Why have there been no great woman artists? – e oggi ripubblicato da Castelvecchi. La domanda che faceva «scuotere la testa agli uomini con aria di sufficienza e digrignare i denti alle donne per l’umiliazione» si snodava lungo un percorso decostruzionista che andava dal medioevo ai suoi giorni, atto a dimostrare che sì, le grandi artiste erano esistite eccome: peccato che le memorie avessero dedicato loro così poche attenzioni. Se la coscienza del mondo viene condizionata anche dal modo in cui si pongono le questioni cruciali, ecco: questo è un problema ancora attuale, seppur non grave come nel passato. Fermiamoci un attimo e riconsideriamolo, anche ponendoci alcune domande.
Quante artiste donne conosciamo?
Quante fotografe veramente celebri, registe, scultrici, architette, pittrici possiamo annoverare?
Qualcuna sì, certo. Ma in minoranza schiacciante rispetto ai colleghi. E più andiamo indietro coi tempi, peggio è: ad esempio, non esiste, nelle arti figurative, nessun equivalente di Michelangelo, Cézanne, Picasso, De Kooning o Warhol.
È vero che le rappresentanti dell’altra metà del cielo che osano l’incognita di una vita votata all’arte sono in minoranza, rispetto agli uomini – sia perché pare siano più restie a proporsi, sia perché faticano a recuperare la woolfiana room of one’s own, la stanza per sé –, certamente sono ancora meno quelle che hanno ottenuto meriti. Un esempio dalla Francia. A metà Ottocento, un terzo degli artisti erano donne, ovvero il 33,3%, tuttavia nessuna di esse passò al trampolino della storia e soltanto il 7% ricevette qualche commissione o incarico ufficiale non squalificante:
«Prive di incoraggiamenti, opportunità formative e riconoscimenti, la cosa davvero incredibile è che una certa seppur ristretta percentuale di donne cercasse comunque di lavorare in ambito artistico» (Nochlin, p. 56)
L’indagine dell’autrice statunitense è attuale anche perché le risposte si ripetono allora come oggi, se si pensa che le firme al femminile, nelle collezioni e nei musei, non compaiono nemmeno al 5%, tanto che viene da pensare all’adagio sarcastico: «le donne possono entrare nei musei solo nude».
C’è chi si arrocca dietro a risposte pregiudiziali come «Non ci sono state grandi maestre perché le donne sono incapaci di grandezza. Sono meno brave e stop: fatevene una ragione» e a costoro verrebbe da rispondere che va bene, prendiamo in considerazione anche questa possibilità. Ma ogni tesi va dimostrata sul piano argomentativo e nessuno ancora è stato in grado di farlo, in questo caso il mio consiglio è: lasciamo l’opinionismo spicciolo ad alcuni pessimi talk show televisivi. C’è anche chi non rinuncia ad un approfondimento serio, aggiungendo che la questione acquisirebbe una porzione di risposta solo a prescindere da una peculiarità sessuale dell’arte, come ci spiega la scrittrice Grazia Verasani, riferendosi alla narrativa:
«In questo paese, più che in altri, c’è la tendenza a credere che il libro di uno scrittore maschio darà meno fregature, sia cioè più interessante, o perlomeno che ci sia dentro una storia, una storia che esula dall’autobiografismo in senso stretto. Ma è solo un pregiudizio, perché i brutti libri, come i belli, non hanno sesso».
Il problema riguarda sia le categorizzazioni che la trasmissione della cultura. Restando nel tema della scrittura, vi chiedo: quante scrittrici del Novecento abbiamo studiato sui manuali, eccezion fatta per i Nobel Grazia Deledda ed Elsa Morante, e per Natalia Ginzburg? O al massimo Sibilla Aleramo e Matilde Serao. Lo dico anche da insegnante di scuole superiori che vaglia ogni anno le nuove proposte: sui testi scolastici non è mai soffiato reale vento di rinnovamento per quanto riguarda la proposta antologica, semmai una brezza timida, per alcuni editori e solo in riferimento al biennio – nonostante l’editoria di settore abbia fatto passi da gigante in altri contesti (digitale, ad esempio).
Chi di noi conosce Paola Masino, Marchesa Colombi, Maria Messina, Anna Maria Mozzoni, Ada Negri, Emma Perodi, Flavia Steno o la mantovana Annie Vivanti? Forse pochi eruditi o qualcuno che ci si è imbattuto per caso. Scrive Roberto Russo su Booksblog:
«A fronte di questa tradizione culturale ampia e affermata sotto ogni cielo, si nota che le donne scrittrici spesso sono relegate a un ruolo marginale»
E nei premi, nei dibattiti, in televisione? Le scrittrici sono contemplate, ma in minima parte rispetto alla loro effettiva presenza che non arriva nemmeno a un terzo (28%), come rilevato ormai qualche anno fa in questo articolo basato su dati ISTAT: è come se una porzione della loro percentuale non esistesse, come se – di trenta scrittrici su un totale di 100 scrittori (arrotondiamo a 70 maschi e 30 femmine) – almeno la metà fossero scomparse nel nulla. Evaporate.
Ora, un po’ di matematica.
Negli ultimi 20 anni, al Premio Strega hanno vinto 17 uomini e tre donne (Mazzucco, Maraini e Mazzantini): per la legge della proporzionalità, essendo le donne il 30% degli scrittori, in vent’anni avrebbero dovuto vincere il Premio Strega almeno 6 scrittrici. Di quanto i premi letterari tendano ad escludere il gentil sesso ne ha parlato di recente Federica Colantoni qui.
Io tempo fa ho analizzato su Libroguerriero solo i concorsi circoscritti al genere noir e poliziesco. Un’autrice romana, Laura Costantini, ha dedicato all’intera questione un bel saggio edito da Historica, dal titolo Scrivere? Non è un mestiere per donne, allegando alle sue preoccupazioni numerosi esempi. Anche perché la realtà dei fatti ci ricorda lo stato delle cose con la sua evidenza.
Per fare un esempio, mi ricollego ai volumi scolastici delle superiori.
Alle scrittrici sono dedicate pochissime pagine, spesso ghettizzate nella sezione “Scrittura al femminile”, come avviene nel manuale del triennio Tempi e immagini della letteratura, curato dal purtroppo scomparso professor Ezio Raimondi: nella parte letteraria compare soltanto la Ginzburg. Abbiamo anche Elsa Morante, Sibilla Aleramo, nomi significativi: però solo in un capitolo a parte, verso la fine, condensate in poche pagine (il libro annovera 1.100 pagine). Quest’attitudine a ignorare l’arte delle donne nel caso dei manuali è ancora più pericolosa, perché essi sono destinati a formare i futuri adulti. Come è possibile far crescere persone che abbiano il senso dell’uguaglianza di genere se perfino nei libri che loro studiano viene trascurata la produzione delle donne o relegata in secondo piano? Senza contare le autrici ancora viventi: è veramente difficile – accade nei manuali del biennio, ma di rado – imbattersi nel nome di una scrittrice italiana e addirittura non deceduta.
Dobbiamo introdurre le quote rosa anche nei premi letterari, nelle norme editoriali, nelle regole museali eccetera eccetera? La condizione di svantaggio non deve divenire posizione intellettuale, ma occasione importante per non accampare più scuse e sforzarsi almeno di fare qualche passo in avanti. Il discorso è lungo, ma al momento mi viene da rispondere: no, sarebbe una forzatura (anche se, qualora rese obbligatorie per alcuni organizzatori di eventi, le quote rosa non sarebbero nocive). Il problema è a monte, in un’epoca di revisionismo e negazionismo: le quote rosa dovrebbero essere introdotte nei nostri schemi mentali, a partire da un’educazione alla medesima considerazione, attenzione, rispetto. Dovrebbero essere acquisite naturalmente, in un cammino verso la parità che coinvolga madri, padri, istituzioni e scuole di pensiero.