di Simone Scaffidi L.
Jorge González, Cara Patagonia, 001 Edizioni, 2013, pp. 280, € 29,00
Di questo romanzo a fumetti, suggestiva commistione di finzione e storia della Patagonia, impressionismo e naturalismo, in Italia se n’è parlato troppo poco, come spesso accade alle opere dei grandi disegnatori e fumettisti internazionali. Uscito in Francia e Spagna nel 2011 è il secondo lavoro di Jorge González pubblicato in Italia (2013), preceduto da Fueye. Il suono del Tango (2009) – un racconto migrante e sottoproletario dove il pastello incontra il bandoneòn in un potente amplesso di colori e musica – e seguito dal più recente Ritorno in Kosovo (2014) scritto a quattro mani con il disegnatore Jakupi Gani.
La storia – alla cui sceneggiatura hanno partecipato Horacio Altuna, uno dei maestri del fumetto argentino, e gli scrittori Hernán González y Alejandro Aguado – si dipana lungo un secolo, geograficamente frammentata tra la Terra del Fuoco, la provincia di Chubut e Buenos Aires. Si apre con una battuta di caccia contro gli indigeni Yamana e Ona da parte dei mercenari al soldo dei proprietari terrieri inglesi, nell’anno 1888. Prosegue narrando la Patagania Ribelle degli anarchici e la feroce repressione degli estancieros e dello Stato argentino negli anni ’20; per toccare la dittatura militare degli anni ’70 e arrivare ai giorni nostri, all’indebita appropriazione da parte delle grandi multinazionali degli sconfinati territori della Patagonia. Un viaggio dunque dal bene comune e condiviso delle risorse naturali alla proprietà privata dei ruscelli, degli animali e delle montagne.
– Vuoi portarti un fucile?
– Laggiù non si scherza. È terra di Benetton.
Nell’opera di González la Patagonia, terra di confine per antonomasia, è un mondo senza limiti e contorni finiti, come la natura, il vento che soffia e la storia taciuta delle popolazioni indigene che abitano queste lande estreme. Della volontà di sconfinare lo stereotipo ne è testimone il tratto che sfuma, rievocando le grandi tele di Turner – guardare per credere pagina 32 tra le altre – e la potenza espressiva del colore che a contatto con l’acqua sgorga insistenti sinestesie. Ciò che è visivo quando passa dalle mani di González riesce a trasformarsi in sensazione uditiva o tattile, assenza di rumore o esplosione di movimento. L’autore sembra voler abbatere il muro che separa le arti e i sensi per dissolvere nei contrasti di luce e colore un confine che è il prodotto di un’umanità vorace nell’affermare le barriere dell’identità e della proprietà.
– …Questi indios non vogliono capire che nessuno tocca le mie pecore.
La violenza della natura viene diluita, ma non per questo smorzata, con la violenza dei colonizzatori, dello Stato e delle multinazionali, raggiungendo lo scopo di ridurre la purezza e l’immagine mitica dell’una e dell’altra esperienza. I disegni, grazie al meccanismo sinestetico a cui si è accennato, rievocano le parole di due dei più grandi narratori e esploratori della Patagonia, coloro che forse meglio di tutti riuscirono a raccontare la radicalità e le contraddizioni politiche e naturali di questa terra: il cileno Francisco Coloane e l’argentino Osvaldo Bayer, anche se a loro non piacerebbe vedere il proprio nome attraccato a una nazionalità.
Quella di González è una storia che, come gli iceberg che doppiano Capo Horn, s’immerge negli abissi della memoria e delle rimozioni per regalarci un’immagine dura e non monolitica della Patagonia. Dalle tavole emerge la complessità di una montagna nel mare, la cui vetta spianata dai venti è solo il preludio superficiale della somma di storie ben più profonde, colme di umanità e riscatto, violenza e sconfitta.