di Cassandra Velicogna
Serena Vitale Il defunto odiava i pettegolezzi, Adephi, Milano, 2015 pagine 284, 19,00 €
10 del mattino del 14 aprile 1930 : il “sipario” si alza in medias res. L’attrice Veronika “Nora” Polonskaja, allora amante e amica di Majakovskij, entra nella stanza del poeta nella kommunalka condivisa con Lili e Osip Brik in vicolo Gendrikov, ne esce correndo pochi attimi dopo, sotto lo sguardo attento della signora Skobeleva, “coinquilina” osservatrice figlia del suo tempo. Vladimir Vladimirovic Majakovskij si è sparato all’età di 37 anni “tre centimetri sotto il capezzolo sinistro” macchiando di rosso la buffa camicia gialla che aveva indossato per l’occasione. Non vi sono dubbi: Majakovskij ha tirato il griletto autonomamente, ma cosa l’ha spinto a questo gesto?
Lo sparo è il cuore del libro e attorno ad esso il tempo e le argomentazioni si aprono come cerchi concentrici. Appaiono sulla scena uno a uno tutti i “personaggi” della vita del poeta, chiamati a “deporre” dall’autrice come fosse l’epilogo di un libro di Agatha Christie. Dapprima le testimonianze quasi scontate: “depone” Jasnin, marito non geloso della Polonskaja, lui non c’entra e comunque sostiene che i due non avessero rapporti carnali. Un marito pronto a testimoniare il coninvolgimento marginale della moglie nella relazione con il poeta. Dunque la Polonskaja non amava Vladimir Vladimirovic?
Le dichiarazioni dell’attrice, la cui unica vera passione era il MChAT, al quale tra le altre cose rappresentava il famoso Uccellino Azzurro di Maeterlinck messo in scena da Stanislavskij, sono altalenanti. Da un lato teneva buono il poeta con la promessa di lasciare il marito, dall’altro, come anche la fidata Lili Brik, era stufa dei suoi atteggiamenti impulsivi e infantili.
La vita del poeta, che aveva già pubblicato i suoi versi più famosi e si barcamenava tra nuovi progetti e testi teatrali di poco successo – Banja, appena rappresentato, era stato un sonoro fiasco –, cercava con questa infatuazione di scacciare il ricordo di Tat’jana Jakovleva, sua precedente fiamma, che gli aveva preferito le sfilate di Coco Chanel e qualche piccola parte cinematografica. Aveva preferito Parigi a Mosca. Certo il rapporto con la provocatrice, geniale e sempre libera Lili Brik, che si definiva “sua moglie” proseguiva, in quel brillante ménage a trois con Osip Brik, insolito per l’epoca, anche nell’ambiente degli intellettuali moscoviti.
Dunque una storia d’amore andata male? Il biglietto che Majakovskij lascia “al compagno governo” cita la madre, le sorelle, Lili Brik e Veronika Polonskaja chiedendo per loro “una vita tollerabile, grazie”, ma questa è solo la pista superficiale di questo giallo particolare. Non è facile addentrarsi nel milieu degli artisti della Russia di quegli anni. Tante cose sono state taciute, riscritte, censurate o mostrate solo nella versione ufficializzata. Certo è che all’interno di ogni circolo di amicizie artistiche si annidavano, come facendone parte a buon diritto, gli agenti dell’Ogpu ex Cekha. Un convitato di pietra mica da poco a vegliare sui versi, i progetti e le performances del poeta. Laddove i detrattori l’ avrebbero voluto sempre più rivoluzionario e lo consideravano oramai un poeta finito, Majakovskij rilanciava con metafore e versi dedicati a un pubblico sovietico “adulto”, che avrebbe potuto capire l’ironia del paradosso. Per esempio Cimice: la storia fantastica dell’ex iscritto al Partito che viene scongelato nel 1979 dopo quarant’anni di sonno e insieme a lui si scongela una cimice da letto. Il proprietario dello zoo ritiene di dover conservare in vita la cimice nutrendola con sangue umano e l’uomo scongelato si offre come naturale volontario. Dalla gabbia dello zoo, l’uomo scongelato, pasto della cimice scongelata, viene inviatato a tenere un breve discorso: «Cittadini, fratelli, amici, Cari! Quanti siete! Anche a voi vi hanno scongelato? Perché soltanto io resto in gabbia? Cari! Abbiate compassione, che tortura!». Un’ironia tanto sottile da far storcere il naso: “e dov’è la lotta di classe?, dove la rivoluzione?, dove lo sforzo industriale delle masse comuniste?”.
Majakovskij, amato da una stretta cerchia e spesso obbligato a difendersi dagli stessi studenti, viveva costantemente sotto le pressioni dei critici come Arbuzov o Agranov e spesso il concetto di critico si sovrapponeva al concetto di agente dell’OGPU. Non che li temesse, quel pezzo d’uomo che era Valdimir Vladimirovic Majakovskij. Più che altro non riusciva proprio a comprendere il perché di quell’inganno collettivo. L’inganno che non prevedeva se non come segreto inconfessabile una sfera privata. E qui entra in campo un concetto centrale e assolutamente fondamentale: il byt. Per l’Enciclopedia Sovietica il byt era la sfera di vita sociale non produttiva in cui rientrava la soddisfazione di bisogni materiali nel campo del cibo, dell’abbigliamento, dell’assistenza medica e dell’acquisizione di beni spirituali e culturali. Insomma una sfera che definiremmo privata, dell’individuo. Ma nel grande organismo rivoluzionario non vi può essere individuo né, tantomeno un cantore dell’individuo, figuriamoci poi un poeta tanto borghese da suicidarsi per amore!
Ecco dunque che Serena Vitale apre al dubbio, insinua e sostiene, argomenta e definisce. Un suicidio sì, ma indotto. Indotto da chi gli mise in mano la pistola: il compagno Agranov dell’OGPU, benedetto forse da Polonskaja, che forse a quello stesso organo di controllo non era così estranea. Ecco quindi spiegate tante cose. Per esempio perché ad essa non toccarono le sorti della Brik, raschiettata via certosinamente dalle famose foto con Majakovskij.
Non sono gli unici misteri legati al suicidio del grande poeta, Serena Vitale ne tira fuori infiniti dal cilindro, complice il tempo passato, gli archivi desecretati e alcune interviste a un esperto di balistica…
Servirebbe un’intera recensione solo per definire la forma de Il defunto odiava i pettegolezzi: un po’ saggio, un po’ giallo, ma ben oltre entrambi. La fiction più avvincente non informa così dettagliatamente sul suicidio di Majakovskij e la non-fiction delle migliori può certamente fornire con dovizia i particolari, ma non raggiungerà facilmente il ritmo e la suspence di questo libro, che Adelphi ha deciso di illustrare per l’occasione. Il linguaggio e la descrizione di fatti, oggetti e personaggi sono curati nei minimi particolari, ma questo non fa che aumentare il fascino del congegno narrativo. Un libro davvero inedito e originale, che probabilmente non ha pari nemmeno in Russia.
La morte dell’autore de La nuvola in calzoni ebbe anche degli effetti e non solo delle cause: in primis la famosa telefonata di Stalin a Bulgakov, impensierito per le migliori menti della sua Unione Sovietica; in secundis l’apoteosi a “primo poeta” della Russia comunista di Majakovskij stesso, che con una pallottola in un cuore sensibile alla critica non poteva più approfondire quei versi privati e individuali che forse, insieme a un po’ di affetto sincero, l’avrebbero salvato.