di Alfio Neri
Dormivamo a Beit Sahur, il paese dei pastori del presepio. Sembra strano ma il bambino che nella notte di Natale spunta dalla grotta, un certo Gesù, pare sia di quelle parti. Pare che sia nato a Betlemme e che sua mamma, tale Maria, andasse prendere l’acqua a qualche centinaio di metri da lì.
Dormivamo un paio di chilometri più in basso, in una spartana guesthouse, nella zona in cui all’epoca i pastori del presepio pascolavano le pecore. Beit Sahur però non è proprio un presepio. La cittadina è a pochi chilometri da Gerusalemme, in quella parte di mondo che Israele ha concesso all’autorità nazionale palestinese.
Ero con un gruppo di amici e compagni che stavano monitorando un progetto di cooperazione. Con il loro aiuto è stato possibile vedere posti straordinari ma soprattutto è stato possibile prendere contatto con una realtà assolutamente sconvolgente. Dire che quella parte di mondo stia procedendo su un percorso di pacificazione è quasi insensato. Le cicatrici del passato sono assolutamente evidenti (i palestinesi hanno avuto 800.000 carcerati su 4.200.000 abitanti). Il paese è punteggiato da colonie israeliane costruite in gran parte ‘dopo’ gli accordi di pace. Tutto il territorio della West Bank (in Italia si dice Cisgiordania) è percorso da un migliaio di chilometri di muri alti nove metri, con torri di osservazione e circondati da filo spinato.
Dalla spartana locanda in cui dormivo, tutte le mattine vedevo la colonia israeliana di Har Homa. Si tratta di una cittadina creata dal nulla che incombe su Betlemme e sui paesi circostanti. Collocata su una collina requisita ai palestinesi con motivi pretestuosi, alla fine è stata urbanizzata con progetti di edilizia agevolata. Har Homa è circondata da un muro di nove metri, da una tripla fila di filo spinato, da torri d’osservazione. Attorno alle mura c’è da una strada militare che è attraversata solo da un mezzo blindato dell’esercito ogni trenta minuti circa. Ovviamente la città sulla collina non è abitata da palestinesi. L’edilizia agevolata israeliana sul territorio palestinese è diretta solo a chi professa la religione dello stato ebraico. Pare che i suoi abitanti si dividano in due grandi gruppi. Il primo è quello degli israeliani meno abbienti che si dirigono in aree con un migliore rapporto fra prezzo e metratura. Il secondo è quello degli ebrei della diaspora che sono stati convinti a emigrare grazie all’offerta di casa e lavoro. Si tratta di appartamenti e di decorose villettine con giardinetto, locazioni ideali per famiglie numerose. A questi nuovi coloni sono offerti sussidi di vario tipo, sostanziose detrazioni sulle bollette e anche la totale gratuità dell’istruzione. Tutto questo avviene su terreni pretestuosamente requisiti ai palestinesi.
Il processo di colonizzazione della Palestina va avanti con alterne vicende da vari decenni. Dagli anni Settanta in avanti le colonie israeliane (legali e illegali) si sono riempite di almeno mezzo milione di abitanti. La loro espansione ha l’evidente scopo di rompere l’unità territoriale palestinese. Per quanto possa essere banale, va anche detto che, questa imponente attività edilizia, pianificata dallo stato israeliano, per le leggi internazionali, è totalmente illegale.
La fenomenologia dell’immagine è abbastanza chiara. Har Homa è la città sulla collina in cui i puri vivono la propria vita di santità separati dalla vile massa dannata cui Dio ha riservato ciò che si meritano. In termini materialistici, quella è la città dei privilegiati che si staglia sull’orizzonte dei perdenti sfruttati. In tutto questo non c’è delirio narcisistico ma solo la traduzione urbanistica di una riflessione teologica. Chi sta in alto ha un rapporto di favore con Dio (o con la storia); chi sta in basso invece no. Che si tratti di teologia ebraica o teologia calvinista cambia poco. I puri sono dentro la città degli eletti a cantare le lodi al Signore. Gli altri sono fuori dalle mura a marcire nel proprio fato. Gli uni sono dentro Fort Apache, gli altri sono gli indiani da sterminare o, se gli va bene, sono i negri da schiavizzare.
Nel caso di Har Homa, i rigurgiti teologici e i telefilm western statunitensi si annodano al tentativo esplicito di ricostruire un ghetto. Per secoli, l’identità ebraica è cresciuta facendo affidamento su ambienti protetti, su mura che venivano chiuse la notte. Il ghetto sanciva la dipendenza da fattori politici esterni ma permetteva anche di conservare meglio la coesione del gruppo. Per quanto ferocemente divisi, gli ebrei del ghetto erano costretti all’unità dal muro che li divideva dal mondo esterno. Il mito antimoderno della separazione aveva bisogno di quel muro per favorire quei meccanismi paranoici che ci permettono di illuderci di avere un’identità certa.
Har Homa faceva a pugni con l’immagine che già avevo degli israeliani. In passato ne avevo conosciuti parecchi. Me li ricordo in Nuova Zelanda, una quindicina di anni fa. Si trattava di ex soldati che facevano enormi sforzi per riabituarsi a una vita civile. Erano dei personaggi molto curiosi che chiacchieravano e gesticolano animatamente. Si trattava di persone gradevoli e spiritose, spesso fuori di testa, qualche volta tossici. Tutte le mattine, guardando Har Homa, mi riusciva difficile legare quelle persone, che avevo conosciuto, con quella cosa fatta per opprimere i palestinesi. I muri di cinta, la violenza del progetto urbanistico e l’oggettivo disprezzo per gli accordi internazionali (presi dai precedenti governi israeliani) mostravano una storia molto più contorta. Di fronte a me avevo un’urbanizzazione fortificata, una città sulla collina abitata solo da ebrei, un abuso edilizio divenuto ghetto per persone di provenienza eterogenea che simulavano un’identità comune.
Quella cosa che vedevo tutte le mattine, la città sulla collina, aveva una doppia funzione. Da una parte serviva (e serve) per opprimere i palestinesi. La sua esistenza ha solo dato danni ai legittimi possessori delle terre. Costruita a ridosso delle case del villaggio, la sua stessa presenza non può che riattivare, ogni mattina, quei sentimenti di ostilità che contribuiscono a impedire la fine pacifica del conflitto. Dall’altra, quelle mura servono per tenerci dentro gli ebrei. Chi sta lì dentro, chi è stato attirato lì dentro da governi manipolatori e doppiogiochisti, deve illudersi di avere qualcosa da difendere; deve illudersi di essere lì dentro per un suo legittimo diritto; deve anche pensare che gli altri, quelli che stanno lì fuori, lo abbiano in odio. Har Homa è una graziosa prigione dorata per ebrei manipolati dai propri governi; è una città satellite statunitense difesa dai blindati; è un piccolo mondo paranoico in cui coltivare le proprie paure perché là fuori indiani senza volto vogliono il tuo scalpo.
Har Homa non è solo uno dei tanti modi per opprimere i palestinesi; Har Homa è anche una prigione per gli ebrei, un ghetto dorato da cui si esce in automobile. Le colonie legali e gli avamposti (illegali per la stessa legge israeliana e protetti lo stesso dall’esercito) non sono urbanizzazioni qualsiasi. Più che edifici sono delle prigioni mentali costruite per generare un nuovo tipo d’uomo, una figura inedita capace di lottare nelle situazioni più disperate. I sionisti volevano costruire un uomo che non avesse più nulla in comune con lo stereotipo dei ghetti orientali. In un qualche modo lo sforzo pare abbia avuto successo. Alla fine sembra stia venendo fuori un uomo simile a un graduato di truppa della fanteria coloniale; un paranoico capace di obbedire agli ordini peggiori; un essere terribile incapace di vedere l’orrore delle proprie azioni.
È necessario fermarsi subito, prima che sia troppo tardi. La posta in gioco è restare umani. A tutti i costi bisogna restare umani.
[Nell’immagine in alto: “La torre di Babele” di Pieter Bruegel, 1563.]