di Franco Pezzini
Qualche settimana fa il vecchio amico Cino spediva copia di un mazzetto di foto in bianco e nero: vi appaiono un gruppo di ragazzi in Val Soana nel Canavese, una casa di montagna (un triangolone con un piccolo patio, sedie, chitarre) e qualche scorcio della zona. Foto – mi dice – risalenti al ‘79, e che forse un tempo avevo visto, considerato che figuro tra i soggetti; e che ora, ad aprirne i file, mi strozzano qualcosa in gola.
Quando un personaggio di pubblica notorietà scompare, è sempre forte il rischio e magari la tentazione protagonistica dell’ “Io lo conoscevo bene”. E d’altra parte quanto più una vita è stata ricca, quanti più fronti ha incalzato, tante più voci possono testimoniarne senza pretendere di esaurire (o lottizzare) il ritratto: una precisazione e un’urgenza di understatement che, sia pure dopo una confidenza di quarant’anni, mi paiono necessarie nel parlare di Luca. La cui morte all’inizio di luglio ha fatto moltiplicare articoli sui giornali e sul web a memoria della sua statura di giornalista, scrittore e militante di un sociale su cui non ha mai smesso di ragionare con rigore e libertà: e rinvio per esempio, senza pretese di completezza, a quanto scritto da Lorenzo Fazio, Goffredo Fofi, Carlo Greppi, Nicole Janigro e Claudio Mercandino. Ma per quanti di noi hanno goduto la fortuna di un’amicizia con lui (anche se poi per lunghi periodi non riuscivamo a vederci) era chiaro come il Luca Rastello “pubblico” sorgesse dall’eccezionale latitudine di interessi e curiosità nutrite fin da ragazzo, e che conoscevamo bene. Da un senso di giustizia e un rigore intellettuale accompagnati a un’esplosiva fantasia; da un senso della bellezza, una gioia di condivisione anche conviviale – mangiare e bene insieme, mentre detestava la mondanità delle feste; e da tutta quella passione per la vita che ha contribuito a fargli tenere testa per dieci anni a un tumore spaventoso, al di là di qualunque previsione medica.
“Invano negheremmo che fin d’ora sentiamo quella stretta al cuore, quella dolce inquietudine, quel sacro timore che precede i momenti estremi. Ben presto ci mancheranno nella tavolozza i colori e nell’animo la luce per apporre i più alti accenti, sottolineare i più luminosi e ormai trascendentali contorni di questo quadro.
Che è mai quest’epoca geniale e quando fu?
Qui siamo costretti a divenire per un istante totalmente esoterici, come il signor Bosco di Milano, e a ridurre la voce a un penetrante bisbiglio. Dobbiamo punteggiare i nostri argomenti con sorrisi ambigui e, come una presa di sale, frantumare sulla punta delle dita la delicata materia delle cose imponderabili. Non è colpa nostra se a volte avremo l’aspetto di quei venditori di tessuti invisibili che mostrano con gesti ricercati la loro merce fasulla”.
Bruno Schulz, Il libro, in: Le botteghe colori cannella, Einaudi 1970, pagg. 98-99.
Nell’esistenza di ciascuno di noi si possono forse distinguere un’età del mito in cui forgiamo le nostre categorie e parole-chiave – le scoperte presentano qualcosa di magico e irripetibile, le giornate hanno lunghezza mitologica tanto da ricordarle a distanza d’anni – e un’età della storia che vede il tempo farsi breve e i giorni incalzare d’incombenze: e chi abbia la fortuna di condividere la prima, non solo (banalmente) cresce insieme, ma può meticciare idee e fantasie con un’intensità in prosieguo sconosciuta. Una persona come Luca – di cui rifiuto di dipingere un santino, perché gli voglio bene anche proprio nei suoi umanissimi limiti e difetti – e che in qualche misura ha davvero cambiato la vita di chiunque venisse a contatto con lui, tanto più ha segnato noi in quella nostra età del mito: fino a individuare nell’incontro con lui (lo dico senza sbavature retoriche, e anzi nella messa a fuoco più lucida di questi due mesi dalla morte) uno dei momenti-chiave della nostra esistenza. Con il pudore del caso, e tra la messe dei ricordi mi limito qui a qualche spigolatura, forse utile ad arricchire la conoscenza del Luca “pubblico”.
La nostra amicizia risale al ’76, tra le aule del liceo classico D’Azeglio di Torino. Siamo in quinta ginnasio, e la terribile insegnante di lettere ritiene di contenere il pericoloso sovversivo dell’MLS (Movimento lavoratori per il socialismo, lì pochi esponenti in una variegatissima galassia di sinistra) piazzandogli accanto un allievo tranquillo, appunto il sottoscritto. La simpatia nei confronti del compagno di banco tanto diverso da me, che frequenta uno strano mondo, il martedì (giorno di lezione più pesante) sparisce a dormire in aula delegati ed è un vulcano di sogni, mi garantisce un abbassamento del voto di condotta e un anno magnifico di risate e fantasie condivise (mi trasmette anche la rosolia, convinto trattarsi del postumi cutanei di panini alle acciughe – e passo malato tutte le vacanze di Pasqua); anche se poi l’insegnante ritiene di fargli un favore rimandandolo a settembre e, nonostante sia preparato, bocciandolo in quella sede. Ma nella classe dove va a finire – e con cui condividiamo parecchio anche fuori scuola – Luca incontra una ragazzina con le stelline negli occhi, la futura moglie Monica, avviando un sodalizio d’affetti e intellettuale di tutta la vita, persino oltre i limiti della separazione degli ultimissimi anni.
Come proprio Monica racconta, i compagni assistono basiti alle performance di questo vivacissimo alieno che legge Urania sotto il banco e, chiamato dall’insegnante (per fortuna più mite della precedente) a tradurre qualche passo di greco, sa improvvisare efficace e spedito. L’arrivo al triennio e al ben diverso clima di soddisfazione che ciò comporta, con un gruppo di professori grandissimi sul piano intellettuale come umano, in classi dove il clima è vivace, e in una scuola in cui anche fuori orario può sempre incontrarsi qualche gruppo riunito a discutere di politica o di letteratura, segna il fiorire anche di Luca. La fascinazione (poi divenuta continuo ritorno) nei confronti dei classici e del mito/parola importante, che in futuro offriranno respiro alla sua stessa opera, trovano in quel clima la loro radice.
Certo, sono anche gli anni di piombo, con tutto ciò di tormentato e drammatico che l’epoca comporta: e di un po’ tutto il quadro di quell’adolescenza e delle ricadute (personali e sociali) in prospettiva, attraverso pagine terribili o buffe, strazianti o avventurose, Luca stesso restituirà un efficace affresco tanto tempo dopo nel grande romanzo di formazione Piove all’insù, Bollati Boringhieri 2006. A partire dal licenziamento della donna amata il narratore recupera i fili del proprio passato, di un rapporto con lavoro e libertà che corre tra i sogni degli anni Settanta e gli incubi del nuovo millennio. In un tessuto di dolorosa compattezza, rivede il rapporto coi genitori fino ai tumori che li colpiscono – al tempo della scrittura lui stesso lo sta incubando a sua insaputa – e alla morte; rivede l’impegno politico, l’amore e il sesso. E l’uscita del libro dopo una lunga gestazione, quando la chemioterapia gli ha già spelato il viso, farà trovare un’impressionante consonanza con le meditazioni lì espresse.
La versione finale di Piove all’insù ha comprensibilmente tagliato molto del materiale via via raccolto per la stesura e presente nelle prime bozze: ma proprio nella capillare opera di ricostruzione di un’epoca appare qualcosa d’interessante a proposito del modo di lavorare di Luca. Che non si limita a uno scavo nella memoria, ma interpella decine di testimoni, a volte attraverso complesse ricerche di conoscenti di un tempo (gente sparita, da recuperare nei modi più sghembi) che lo aiutino a ricostruire il quadro: ed ecco il giornalista. Ma offrendo il tutto – ecco il romanziere – entro una struttura narrativa forte, con un linguaggio visionario e vertiginoso di echi. Certo Luca distingue con nettezza professionale i due ruoli (sul tema occorrerà tornare a proposito del suo incandescente I buoni); ma, sulla base di tale chiarezza fondamentale, con la libertà del romanzo può attingere a tutte le potenzialità della cronaca. Un rigore di verità che non si consuma mai nella provocazione facile (tengo a dirlo, proprio dopo le polemiche sul suo testo più discusso), ma cerca il nocciolo critico iniziando da ambiguità ed errori di chi parla, anzi dello stesso narratore. Qualcosa che suggerisce l’importanza di rileggere le sue opere a coglierne come in progressive ondate le implicazioni: non certo esoteriche visto che il tenore è limpidissimo, ma tanto fertili di spunti.
Chi sia poi interessato a studiare sul piano filologico il lessico da lui utilizzato in Piove all’insù avrà qualche sorpresa, ravvisando per esempio una serie di echi dalle antiche fonti alchimistiche. Da lui studiate con lo sguardo dello studioso di filosofia, a coglierne gli echi di una chimica personale e sociale nel matraccio di un mondo in ebollizione.
Le caratteristiche magmatiche della sua scrittura echeggiano in effetti quelle della sua lettura: Luca è, fin dagli anni verdi, un lettore voracissimo ed eclettico. Sicuramente non per onanismi culturaloidi che non gli appartengono, ma per puro, gioioso e inesauribile piacere e curiosità. Terminato il liceo, per alcuni anni gli ex-compagni si trovano per esempio, una sera alla settimana, a leggere ciascuno per gli altri (spesso in base a una sfida tematica) l’assaggio di un libro: una condivisione non certo seriosa ma che muove fantasie, contamina i linguaggi e suscita discussioni. E le scelte/“scoperte” di Luca (vero animatore e fondatore dell’iniziativa), i suoi libri-base con passi che anche ora mi echeggiano dentro mentre scrivo, resteranno sullo sfondo delle sue opere.
Penso in particolare agli autori dell’est, a partire da un fronte boemo che l’affascina e di cui studia la lingua. A metà degli anni Ottanta, sull’onda di una passione nutrita di letture de Il buon soldato Švejk e di Ripellino, Luca parte da solo per un’immersione in Praga; e L’indice, su cui ha già pubblicato qualcosa, ospita in seguito il resoconto di una sua avventura in una bettola locale. La penna del vecchietto seduto al tavolo accanto ha smesso di funzionare: Luca gli presta la sua e riesce così a conoscere l’inavvicinabile Hrabal. Una decina d’anni più tardi, quando con un coordinamento di operatori umanitari parteciperà a una serie di pericolose azioni di salvataggio di nuclei familiari bosniaci dall’inferno della guerra nella ex-Iugoslavia, i profughi restano stupiti che la lingua italiana sia tanto somigliante alla loro: il fatto è che Luca li avvicina con il linguaggio più simile che conosca, appunto parlando in ceco.
Anche se, via via, studia altre lingue di quell’orizzonte. E dalle (varie) letterature si allarga da un lato alle dinamiche storiche e geopolitiche dell’est, fino a diventare un riconosciuto esperto di cose balcaniche; dall’altro a un dialogo diretto e concretissimo con i figli di quelle culture. Provvedendo alle necessità dei profughi e alla loro durevole ospitalità, sia attraverso l’azione nel coordinamento torinese che ha contribuito robustamente a tirar su (una realtà autonoma da opacità istituzionali, e sostenuta da una rete di amici), sia con la concreta messa a disposizione di tempo e beni, ospitandoli per anni nella casa di montagna. E affrontando perciò in zona sospetti, ostilità e veleni.
Per capire La guerra in casa, il suo primo libro edito da Einaudi nel 1998, occorre tenere presente tutto questo. Un libro – è stato osservato – dove Luca usa una struttura originalissima, alternando lucide schede storico-politiche sugli eventi della guerra nell’ex-Iugoslavia a testi tra cronaca e narrativa, racconti di profughi in Italia, brutte storie di missioni umanitarie, leggende e strumentalizzazioni del rapporto tra il Bel Paese e terre tanto vicine ma tanto drammaticamente distanti. Con l’urgenza per il narratore, idealmente proprio alla scuola degli autori dell’est, di mantenere alle parole il loro peso specifico al di là del logorio mercificato dell’utilizzo occidentale – all’epoca dell’uscita del libro, e tanto più nel teatrino dell’oggi. Sul tema dei profughi Luca tornerà ancora a distanza di anni con La frontiera addosso. Così si deportano i diritti umani, Laterza 2010.
Nel corso degli anni il giornalista Luca scriverà per varie testate – Diario, D-Donna (per cui compone memorabili reportage, che andrebbero riproposti) e Repubblica – oltre a dirigere Narcomafie e L’indice. Ma mi piace ricordare che a una prima rivista lavora – e anzi la fonda – già a metà degli anni Ottanta: proprio a partire dalle serate di lettura, e sulla base del fatto che nel nostro piccolissimo un po’ tutti produciamo (scrittura, disegni), emerge la sfida di un magazine – uso volutamente il termine in assonanza a magazzino – a nostro uso. Ha un titolo alchemico puramente augurale, L’Opera al Rosso; e in effetti dopo un paio di numeri, sempre grazie soprattutto a Luca, cambia natura riuscendo a entrare nel bel catalogo di riviste edite al tempo dalla genovese Marietti. Anche la struttura è in gran parte frutto della fantasia di Luca. All’interno di percorsi monografici, gli articoli saggistici, i racconti e la grafica sono collegati tramite un sistema di schede che fungono da connettivo: i redattori – cioè noi – garantiscono queste ultime e le traduzioni, mentre i materiali principali sono forniti da autori noti (da Pietro Barcellona a Luperini, da Adonis ad Abdelfattah Kilito, Etienne Balibar e molti altri), che si prestano gratis al sogno di un gruppo di giovani. Escono in realtà due soli numeri, veri e propri volumi (Gerarchie tassonomie classificazioni, 1990; Fra senso comune e consenso, 1992) e un terzo è pronto quando la Marietti decide di fare piazza pulita di gran parte delle proprie riviste, compresa ovviamente la nostra. Il modello principale di Luca era in realtà il vecchio, leggendario Carte segrete degli anni Sessanta: e solo poco prima di morire riuscirà ad acquistarne sul mercato antiquario alcuni numeri. Un doppione me lo regalerà in uno dei nostri ultimi incontri, e lo conservo con gelosia.
“[…] disse Švejk: – Quando sarà finita la guerra, vieni a farmi visita. Mi troverai ogni sera dalle sei in poi alla bettola ‘Al Calice’ a via Na Bojišti.
– Certo che verrò, – rispose Vodička, – ci sarà baldoria?
– Ogni giorno vi si scatena qualcosa, – promise Švejk, – e se ci fosse troppa calma, ci penseremo noi a far chiasso.
Si separarono e, quando furono ormai distanti di parecchi passi l’uno dall’altro, il vecchio zappatore Vodička gridò a Švejk: – Allora cerca davvero di metter su qualche spasso, quando verrò.
E Švejk a sua volta: – Vieni però sul serio, quando sarà finita questa guerra.
Poi si allontanarono e di nuovo si udì, dopo una lunga pausa, di dietro l’angolo della seconda fila di baracche, la voce di Vodička: – Švejk, Švejk, che birra hanno al ‘Calice’?
E come un’eco risonò la risposta di Švejk:
– Di Velké Popovice.
– Pensavo che avessero quella di Smíchov, – urlò da lontano lo zappatore Vodička.
– Ci sono anche donnine, gridò Švejk.
– Allora a dopo la guerra, alle sei di sera, – gridò Vodička dal basso.
– Meglio se vieni alle sei e mezzo, per il caso io dovessi tardare, – rispose Švejk.
Poi echeggiò ancora, ormai da grande distanza, Vodička: – Alle sei non puoi venire?
– Va bene, verrò alle sei, – fu la risposta del camerata che si allontanava […]”.
Jaroslav Hašek, Osudy dobrého vojaka Švejka za světové války (Il buon soldato Sc’vèik), Praha 1968, I-II, pagg. 355-356, cit. in Angelo Maria Ripellino, Praga magica, Einaudi 1973 e 1991, pag. 317.
Mentre studia filosofia (in realtà con molta calma, si laureerà tardi nell’indirizzo matematico) Luca lavora, scrive, collabora a iniziative di vario tipo; passa i sabati mattina con Monica e alcuni amici ad accudire e lavare vecchietti in un ospizio; poi nasce la primogenita Elena, arrivano le avventure bosniache – la seconda figlia Olga arriverà solo parecchi anni dopo.
Sul Luca “pubblico” si sa molto e procedo veloce. Nel ’98 esce il citato La guerra in casa, che gli attira le critiche dei devoti di Međugorje per la sua lettura politica dell’evento e delle relative ambiguità, e l’antipatia dell’associazione Beati i costruttori di pace per la ricostruzione (peraltro documentatissima) sulla morte di Moreno Locatelli in seguito a un’azione su un ponte di Sarajevo. Nel frattempo viaggia moltissimo come giornalista: conosce ormai a fondo il Caucaso e varie zone dell’Asia e dell’Africa, e visita anche siti infestati da contaminazioni di vario tipo, che forse contribuiranno a far riproporre nel suo corpo gli antichi mali dei genitori. Tra varie vicende di lavoro e personali – lavora in redazione a Repubblica a Milano, torna ogni notte a Torino dove nel frattempo è nata Olga – durante una vacanza perde i sensi. È l’emorragia legata a un tumore diramato già in vari organi. Viene operato da un genio della chirurgia e curato con dedizione e professionalità assoluta (se queste pagine hanno calore di memoria, tengo a rimarcarlo con gratitudine) da alcuni oncologi della pubblica sanità torinese. La sala di ricevimento del reparto dove è ricoverato è sempre piena di amici. Tanti anni dopo, nella sua lettera-testamento alle figlie Luca scriverà:
“[…] gli amici non posso nominarli tutti, sarebbe una lettura di ore, ricordo – ma se lo ricordano tutti – banalmente un motivo della mia lunga e sorprendente sopravvivenza, così come lo chiarì Dina Grisenti [la nostra professoressa di filosofia del liceo, e ormai cara amica]: «Non puoi morire: quando sei caduto, intorno a te si sono alzati così tanti e tanto fitti cerchi di lance che la morte farà fatica a passare». Io dico che erano anche cannoni, mica solo lance: grazie artiglieri!”.
D’altra parte combatte la malattia seguendo con scrupolo ogni minimo protocollo; dopo la rimozione dello stomaco riprende poco per volta a mangiare, e se non tornerà la forchetta di un tempo riacquisterà col tempo un buon controllo del corpo – al punto che, al di là di periodiche fasi critiche, tra successivi interventi e infiniti cicli di chemio si concede ancora lunghi viaggi.
Oltre naturalmente a poter scrivere, e paradossalmente questi saranno gli anni più fertili della sua produzione di libri. Varato nel 2006 Piove all’insù, pubblica nel 2009 Undici buone ragioni per una pausa, nuovamente per Bollati Boringhieri, dove torna sul tema della malattia e della morte ma divagando – spiega – in argomenti penultimi, e Io sono il mercato, Chiarelettere, sulle ambiguità della lotta a un narcotraffico che ha studiato per anni. Nel 2010 pubblica con Laterza il citato La frontiera addosso, partecipa alla raccolta di contro-narrazioni Dieci in paura sull’ossessione per la sicurezza edito da Epoché, e coordina come primo autore il lavoro di cinque giovani nel bel Dizionario per un lavoro da matti sul tema del disagio psichico per L’Ancora del Mediterraneo. Nel 2011 in Democrazia: cosa può fare uno scrittore?, per Codice, dialoga con Antonio Pascale.
Ma i temi più esplosivi sono quelli degli ultimi anni. Nel 2013, in una piccola piola (osteria, per i non torinesi) che conosce vicino a dove lavoro, mi racconta davanti a etile e salamini che sta per partire con Andrea De Benedetti e un sacchetto di caffè – una trovata un po’ buffonesca (come la definirà in un’intervista) per far viaggiare almeno una merce sulla poi certamente inutilizzata linea Lisbona-Kiev che giustificherebbe il TAV. Il risultato del viaggio sarà il loro straordinario Binario morto. Lisbona-Kiev. Alla scoperta del Corridoio 5 e dell’alta velocità che non c’è, ancora per Chiarelettere, dove con rigore giornalistico ed eleganza letteraria di narrazione si dimostra l’assoluta inconsistenza di ogni bubbola governativa/affaristica sul tema TAV. Non casualmente un simile siluro è stato ignorato con imbarazzato silenzio da amministrazioni, politici e fonti di regime, ma ci resta e sta a noi farne buon uso. E per esempio Binario morto sarà dichiaratamente – fin dai titoli di coda – uno dei riferimenti per Qui, il film sul TAV di Daniele Gaglianone.
Altrettanto silenzio sarebbe stato però impossibile su I buoni, ancora per Chiarelettere, 2014 (cfr. qui e qui), frutto di conoscenze molto dirette dell’autore sul mondo del Terzo Settore, su un certo “sociale” assurto a lobby di potere con delega a intoccabili eroi, e su abusi e brutture legati a una precisa trasformazione di modelli nel tempo (rinvio ai cenni molto chiari offerti da Luca in alcune interviste, per esempio qui). Un libro su cui ha lavorato anni per far capire (con il libero linguaggio del romanzo, e l’ascolto informato del cronista) l’entità dei problemi in gioco; e che ciononostante una lettura superficiale continua ancor oggi a banalizzare in giochino a chiave su questo o quel personaggio. Un libro, ancora, che già prima di uscire suscita reazioni scomposte, e che in seguito inanella una serie di critiche livorose. Certe cose nel sociale possono accadere – pontifica un esperto – ma non sta bene metterle in piazza, non sono faccende di cui parlare, pena l’indebolimento del fronte anti-Male; si può tracciare un quadro – brontola un altro – restando maggiormente nel generico e senza ispirarsi in modo tanto calzante a situazioni reali, o che paiano tali. Facile rispondere al primo che il mancar di rilevare fatti gravi si chiama omertà; e per costituire un reale alternativa a logiche di sfruttamento occorre non riproporle sotto altra forma. Come è agevole rispondere al secondo che la genericità finisce con l’essere una cortina fumogena, in cui deprecare il male con l’utilità dei discorsi da bar.
Luca sa bene che I buoni sarà attaccato da ogni parte (qui una sua risposta), e non è per pura prudenza che insiste trattarsi di un romanzo: non prende di mira un gruppo, non riguarda una esperienza, e il vilain don Silvano rifrange anzitutto lui stesso come narratore – tanto più che lui stesso, impegnandosi nel sociale, si è trovato talora ad avallare i rapporti di sfruttamento che lì stigmatizza. Ma per quanto Luca sia cosciente del vespaio che il libro suscita non può che restare colpito dal tipo di reazioni, di volta in volta pubbliche o invece coperte, come alcune repentine, timorose disdette di presentazioni… Ancora nei ricordi tributatigli a luglio non è mancato chi abbia preso con prudenza le distanze dal contenuto de I buoni.
Va detto che in contemporanea con il fiorire di polemiche sul libro Luca combatte un altro e più drammatico fronte, contro un nemico che sta dentro di lui. La malattia ha conosciuto una nuova impennata, è ormai chiaro che i margini di resistenza si stanno consumando. A dicembre, quando una sera andiamo a trovarlo nella casa-rifugio di pian Rastello – la frazione sopra Pont Canavese delle antiche foto di Cino – ci racconta che dall’amico oncologo Francesco Leone si è fatto spiegare tutto su quanto sta per accadergli. E intanto sta lavorando con accanimento a un nuovo romanzo.
Con i mesi successivi ecco gli ultimi viaggi, la scrittura che procede (più appassionata che frettolosa), il dilagare del male, le cure palliative. In un torrido sabato di luglio ho ancora la possibilità di una lunga chiacchierata con lui – prima da soli, poi ci raggiungono due amici che hanno partecipato ad alcune delle sue avventure in Bosnia. Luca racconta anzi un episodio buffo che li coinvolge tutti e tre. Devono portare in salvo una coppia di vecchietti, per fortuna hanno un minimo di tempo, e in una fattoria si fanno indicare dove sia la casa; ma da quelle parti l’ospitalità conosce ancora la sacertà del mondo antico, e così gli interpellati li fermano per un bicchiere. O meglio più d’uno, perché nel cortile è in funzione una “macchina allegra”, cioè un grosso furgone per distillare che somiglia (spiega Luca) alle macchine del Professor Balthazar di un cartone animato della nostra infanzia: ci rovesci dentro la frutta (mele, pere), c’è tutto un rimescolio, e come per incanto fiotta fuori l’alcoolico. Insomma, la gente della fattoria continua a offrire loro bicchieri e insieme piatti di accompagnamento, carni arrosto… Alla fine i tre escono dal portone facendo le bolle per il cibo e l’etile, montano come riescono sul mezzo e raggiungono i vecchietti. Questi sono poverissimi: e tuttavia hanno ammazzato l’unico animale e organizzato un vero e proprio banchetto di festa ai tre salvatori. Che si sentono esplodere ma è impossibile rifiutare, farebbero loro un torto terribile: insomma nuova cena e nuovo alcool, gli italiani escono ciondolando. A sera tarda raggiungono infine il posto dove dormire: ma lì gli ospitanti (ci sono persino dei soldati bosniaci, che hanno smontato per accoglierli) hanno preparato loro anche la cena – e dovranno mangiare pure quella… Un racconto che però la dice lunga su Luca: capace di rischiare la pelle per prendersi cura di esseri umani, ma di saperlo fare con l’allegria del bicchiere in mano e magari del piatto pieno.
Il pomeriggio incalza e penso di tornare a casa; sono tranquillo perché non lo lascio da solo, e tanto – mi dico – lo vedrò nei giorni successivi a Pont dove sta per trasferirsi. Ma ogni volta che mi alzo per andarmene riprendiamo a parlare e finisco col tornare a sedermi. Solo a posteriori mi verrà in mente come quella scena ricordi un passo struggente dello Švejk che proprio Luca mi ha fatto conoscere, dove il “buon soldato” e il commilitone Vodička si congedano uscendo di prigione però faticano a staccarsi, parlando dell’osteria dove si ritroveranno a guerra finita. Ma anche per Luca la guerra sta finendo: e due giorni dopo, alle quattro del mattino, il lunedì stesso in cui dovrebbe partire per Pont, perde coscienza. La riacquisterà forse per un attimo mentre muore, a fine giornata, circondato dalle persone care: l’attentissima compagna degli ultimi mesi, Serena, naturalmente Monica e la figlia Elena, amici di un po’ tutte le fasi della vita. L’ultimo romanzo resta interrotto, ed è ora oggetto di studio.
Nel corso degli anni l’attività di Luca, come giornalista ma anche come scrittore, ha visto un lungo e appassionato approccio alla parola. Raccontando le viscere di un’epoca ha lavorato a smascherare strutture linguistiche di sopraffazione (I buoni era per lui anzitutto un libro sul linguaggio) e a fornire parole atte a decrittare un non-detto che spesso è un non-dicibile; ha incalzato luoghi comuni per smontarli contro la volontà di agenzie potenti e una disinformazione organizzata; ha saputo penetrare con la parola entro ambiguità d’epoca di cui si sentiva lui stesso dolorosamente partecipe, ma insieme – visto che non era un moralista imbronciato – ha raccontato le dimensioni di bellezza per cui questo mondo merita d’essere curato. Un lavoro enorme: e solo col tempo, dissodando a poco a poco il materiale da lui offerto, ci renderemo conto di quanto le sue intuizioni siano preziose. E offrano concreti spunti per costruire.
Ciò sul Luca “pubblico”: quanto a quello “privato” cui in tanti vogliamo bene, è irriducibile a qualche pagina di ricordo.