di Fabrizio Lorusso
Marilù Oliva, Lo zoo, Elliot, 2015, € 15, pp. 190.
Lo zoo di Marilù è un boschetto di fantasie umane e disumane, le sue e le nostre, di tutti. Perché i personaggi che compongono il bestiario più stravagante e inquietante del mondo, in qualche modo, anzi in tanti modi diversi, potremmo essere proprio noi, con le nostre paure e perversioni, con le dinamiche di potere e gli sconquassamenti dei valori che sfasciano le nostre certezze e frammentano le nostre identità, già duramente messe alla prova e al bando da decenni di relativismo e perdita di senso. In un salentino profondo e surreale avviene la trasformazione forzata e (quasi) definitiva di alcuni esseri umani in fenomeni da baraccone, mitologiche procreazioni di Clotilde, una nobildonna di plastica, ossessionata dall’invecchiamento e ritoccata all’inverosimile per mantenere in età senile almeno qualche barlume dell’antica bellezza. Visioni.
Davvero vorrei provare a passare la notte in una delle gabbie di questo zoo: che freak o personaggio sarei? Cosa spingerebbe un’ingrata, annoiata e imbruttita Contessa, ex vedette e stella della TV sulla via del tramonto, a rapirmi e ad espormi come attrazione nel suo circo? Potrei io abbellire la tenuta di Pescolusa, paradiso verde e privato, oltre che scenario principale di questo teatrale e paradossale noir, in cui sono rinchiuse creature come l’Uomo Scimmia, la Donna Anfora, la Sirena haitiana, il Ciclope, una vecchia Strega, una specie di Angelo etereo ed El Pequeño, nano astuto e adulatore prelevato dall’estremo Occidente? Tutti portiamo maschere, ruoli, personalità. L’autrice, sapiente tessitrice di immaginari e racconti, esplora alcuni casi limite, mettendoci in guardia e facendoci riflettere sulla diversità e sull’autoritarismo, sull’essenza umana e le sue contraddizioni.
Loro malgrado questi figuri diventano l’Attrazione. Hanno perso la libertà, rubata loro a tradimento, e presto prendono coscienza della loro condizione. Dunque alcuni desiderano ribellarsi, scappare. Ma senza unione come fare? La forza viene meno. Le celle li separano e li isolano dal resto, e così la fuga s’allontana, come evanescente utopia di liberazione. Ma non tutto è perduto. Da una parte c’è chi fa il servo dei padroni per ingraziarseli, c’è chi degenera e cede alle più infime pulsioni, ma dall’altra c’è chi s’organizza e chi riesce a risvegliare empatie, affetti e solidarietà. Il tempo scorre a modo suo nella visione-lettura de Lo Zoo, ma si ferma del tutto per gli involontari protagonisti della messa in scena. I nostri hanno visto sfigurare la loro identità, rimodellata in base ai sogni e ai deliri della loro nuova padrona e del suo ultimo marito, di vent’anni più giovane e altrettanto bramoso di riconoscimenti e successo. Vivono come miserabili, maltrattati e sorvegliati dal custode-carceriere Quinn Palmer, sintesi visionaria ma realistica di tutto il peggio dell’italiano grezzo, medio e mediocre, in gabbie nascoste dietro un recinto di siepi con soli due accessi: uno dal mare e uno che arriva dal castello della Contessa. La speranza d’evasione è doppia.
Di passaggio a Pescolusa sceglierei per me una cella attigua a quella della Donna Anfora, l’intelligentissima Martina, ragazza senza gambe e senza braccia che è stata trasformata in un vaso fiorito, coi capelli tinti di verde a riprodurre il fogliame, dalla fantasia perversa della Contessa e del suo consorte, Cristoforo Tommaseo, chirurgo plastico frustrato e perennemente in cerca di gloria. Oppure chissà, cercherei di liberare la Sirena, giovane haitiana a cui il folle medico ha cucito le gambe facendone un tutt’uno per creare una sfortunata coda. E, come se non bastasse, l’ha anche sottoposta a una terapia sbiancante per farle impallidire la pelle. C’è chi pianifica di fare di peggio, molto peggio. L’orrore è tutto da scoprire, ma Oliva riesce a farlo con sottile ironia, senza straripamenti. Martina, l’Anfora o “vaso floreale umano”, ha una sorprendente capacità d’innamorare, pizzica gli appetiti sessuali dell’Uomo Scimmia, il più peloso della Terra, e sa spiegare lucidamente la realtà, anche se ne ha vista poca, dato che vive relegata in casa per la sua difficile condizione e il suo universo è la virtualità del world wide web. Il suo Rafael, carceriere buono, l’apprezza così com’è, dimezzata e completa nel contempo.
E lei non può non chiedersi come faccia Rafael a tenere un piede in due scarpe, quella dell’umanità e quella della disumanità: “Perché lui è complice, inutile farci attorno tanti giri di parole: la sua corresponsabilità lo rende collaborazionista dell’obbrobrio che la Contessa e il suo partner hanno creato. Essere complici ma non artefici non salva dall’assoluzione, anzi, di questo Martina, ormai ridotta a donna-vaso, non ha dubbio alcuno: la complicità rende chi la pratica un attore ancora più spregevole dell’ideatore del misfatto, urla nel silenzio del suo pensiero, per quella parte passiva ma abietta che è insita nel suo favoreggiare”. Sodali, aguzzini, giustizieri e integri sono ruoli le cui etiche s’invertono e si rimischiano nella crisi dei valori dello stato di natura.
“Gli piace il mare bagnato dal temporale. Valuta di andare sulla spiaggia e sedersi sotto l’ombrellone dei padroni, a rimirare le onde quando accolgono l’acqua pura, loro che sono zuppa di fiumi e pesci e memoria di naviganti. La sera del party, col viso rivolto alle mani della notte sulle acque, la Donna Anfora gli aveva capovolto l’immagine fugace della vita marina, rimandandola dall’alga unicellulare alla ripetizione sempiterna del mare come sistema. E lui si era specchiato dentro al pozzo azzurro di lei, dopo che si era rivelata”. E chi altri potrebbe apprezzarla così, oltre a Rafael?
Forse qualcuno degli ospiti compiaciuti e bizzarri della Contessa, tra cui un Sindaco-boss mafioso e il suo figlio eroinomane, una futile e conturbante aspirante conduttrice TV e un sadico dottore che rivaleggia con Tommaseo. Mentre loro si godono un periodo di riposo ed emozioni nella tenuta e scoprono lo zoo, una delle principali attrazioni scompare e aleggiano sospetti e diffidenze. S’indaga, si scoprono le carte e vengono fuori gli scheletri nell’armadio di ciascun attore di questa tragicommedia costellata di colpi di scena e sferzate di humour nero. Fino alla fine.
Il romanzo è un mosaico, ogni capitolo un frammento che prende il nome da un personaggio all’interno di uno spaccato immaginifico spaventoso e accattivante allo stesso tempo. Lo stile e la scrittura fluiscono eleganti, la scelta delle parole è meticolosa, azzeccata e opportuna. Niente è fuori posto nel bizzarro giardino zoologico di Marilù, le prigionie s’incastrano, e liberano noi dai paraocchi. Il senso delle cose pare uscirne sovvertito, l’estraniamento e il dubbio emergono e la risoluzione delle tensioni non è mai banale. L’afa estiva pervade le sudate pagine dello zoo e il sipario cala sui suoi personaggi lasciandoci felicemente smarriti. Dopo la trilogia sanguinosa, noir e latinamente danzereccia della Guerrera (Tú la pagarás, Fuego e Mala Suerte), Oliva approfondisce la riflessione e l’esplorazione psicologica, letteraria e sociale sulle pulsioni umane e i bassifondi dell’anima, già cominciata con la narrazione delle vicende di tre diaboliche vecchine contenuta nel suo precedente romanzo, Le Sultane.
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