di Gianpietro Miolato
L’aspetto di Fury che più mi ha infastidito è stata la gratuità con la quale mi ha preso in giro.
Poco prima di sedermi ho pensato che le premesse avrebbero ripagato onestamente il costo del biglietto (David Ayer alla regia; Brad Pitt come protagonista); poco dopo la conclusione della proiezione avrei voluto spaccare lo schermo.
Ma andiamo per gradi.
Il film è costruito su due filoni tematici precisi; il primo si ha nell’incontro/scontro tra allievo e maestro da cui nasce l’evoluzione del protagonista (Norman, inesperto di guerra, viene affiancato al veterano Don ‘Wardaddy’ Collier – Pitt -, che gli insegna ad affrontare le atrocità belliche e a comprendere l’importanza di servire il proprio paese); il secondo si ha nella mitizzazione delle gesta dei protagonisti (bloccati nel carrarmato Fury, Don e compagni accettano di immolarsi, rinfrancati dalla gloria che fisserà la loro scelta). Per dar vita ai filoni il regista Ayer divide il film in 4 macro-sequenze (il primo omicidio ai danni del soldato tedesco disarmato; l’incontro con le due tedesche; l’assalto al carrarmato Tiger; lo scontro finale col plotone di SS), di cui le prime tre sostanziano il rapporto allievo/maestro, mentre l’ultima dà ragione del secondo filone narrativo.
Per la prima ora e mezza tutto fila liscio, ma non appena viene messa in scena l’ultima macro-sequenza la pellicola verte bruscamente dal film di formazione al film di propaganda nella maniera più bieca e gratuita, e tutto si disvela per quello che era stato fin dall’inizio: una presa in giro.
Immolando il sacrificio del plotone ad azione fissata nell’eternità (concetto che ritorna come un mantra nei discorsi finali del “biblico”Shia LaBeouf), il film evidenzia come ogni personaggio non sia che una “figura-funzionale”. Don e compagni soddisfano esclusivamente un proselitismo pro-americano che diviene il significato ultimo da ricavare conclusa la visione. Nessun dubbio, nessuna esitazione; solo la consapevolezza “d’essere nel giusto”, e di poterlo diffondere ai posteri (Don si sacrifica ponendo le basi della mitizzazione; Norman la concretizza sopravvivendo). In un’ottica di incongruità filmica, persino gli antagonisti si assoggettano a tale schema derisorio: i tedeschi non risultano altro che marionette insensate sia tematicamente (o impiccano civili o mandano bambini alla morte) sia narrativamente (Norman sopravvive grazie a un deus ex machina offensivo), e l’unico ruolo che ricoprono è di evidenziare per contrasto l’etica statunitense («è il nostro dovere », ripete Brad Pitt prima di morire, come se chi avesse guardato il film non l’avesse ancora capito).
L’intero film svela quindi un impianto narrativo in cui solo il messaggio finale ha senso, a discapito dell’intelligenza dello spettatore e di quanto impostato nei primi ¾ della proiezione (non a caso il carrarmato Fury apre e chiude la pellicola in modo ciclico, impedendo l’accesso a una qualsiasi titubanza comportamentale o morale e, quindi, a ogni potenziale evoluzione caratteriale).
Rimane solo la sensazione di una derisione voluta e congegnata a tavolino.
Consiglio: riguardate Rambo 2; almeno sapete a cosa andate incontro.
Fury di David Ayer, USA 2014