di Fabrizio Lorusso
Filippo Violi, Cronache da un campo di battaglia, Imprimatur, 2015, € 15 (12,75 on line), pp. 236.
Qual è il nostro campo di battaglia quotidiano? L’ufficio, la casa, la strada, la pubblica amministrazione, la privata fabbrica, un romanzo, il nostro ruolo nel mondo. Che vestito indossiamo nella società? Il soggetto che ci è dato interpretare, assoggettato all’ideologia dominante e ai bisogni vitali, sempre più difficili da soddisfare. Catturiamo veramente quel che sta succedendo intorno a noi? Siamo granelli in balia dello sciabordio burocratico, oggetti ed effetti del mercato incontrollato, ingranaggi e carne da cannone del capitale globalizzato. Che poi è una massa magmatica i cui fumi finanziari s’espandono verso l’alto, ingigantiti, senza più relazione con la Terra, e ci annebbiano la vista, mentre il substrato reale e produttivo del sistema giace come carbone spento sul fondale della storia. Cronache da un campo di battaglia, romanzo realista e visionario dell’autore calabrese Filippo Violi, è un delirio cosciente e accattivante, così efficace da far rabbrividire.
Sembra finzione, ma non lo è, anzi a tratti il testo diventa un deciso strumento di controinformazione e giornalismo narrativo. Le parole scorrono sotto gli occhi, pungolano gli angoli reconditi della scatolona cranica e turbano le nostre poche certezze in modo febbrile e necessario: è la presa di coscienza che fa male, un risveglio per alcuni, una follia per altri ma pure uno stimolo a costruire alternative per una minoranza agguerrita e non rassegnata.
Le allucinazioni e le suggestioni di un ufficio e di una regione, la Calabria, intesa come specchio ed anticipazione delle dinamiche italiane e continentali, se non proprio di quelle mondiali, giorno dopo giorno interessano l’autore e i suoi pochi compagni di viaggio della resistenza, “la guerriglia”. I sopravvissuti alla lobotomizzazione burocratica, all’omologazione al ribasso dell’uomo.
“La guerriglia è quell’essere estraneo che interviene per rompere il guscio e minare i campi dove risiedono le solide certezze. E’ quel corpo autoimmune che mortifica la vile eloquenza che spesse volte si tramuta in tracotanza, sempre al servizio del governo. E’ il rompere i muri imbrattati di odio e vendetta, costruiti negli artifici ricorrenti del potere. In quelle stanze perpetue, in quei corridoi, in quelle strettoie lunghe e perpetue che sembrano piste da bowling, beatamente asfittiche e ammuffite da continue ombre di passo”.
Grazie alle riflessioni che i “guerriglieri”, compagni di sventure e di lotte contro ogni accezione degenere di burocrazia e privilegio, stendono su carta, può prendere forma un diario di bordo, un giornale che è cronaca e verità ansimante, perché clama a gran voce e si libera dalla carta per trasformarsi in una denuncia, in un veicolo di idee e in uno sfogo, preciso e utile, di pensieri rivoluzionari e paradossi. Fillì de Viol, detto Flix, subcomandante dell’esercito di liberazione burocratica è uno zapatista della punta dello stivale, dal Chiapas a Cirò Marina, e poi ci sono la precaria ed emancipata Franziska la Grec, alias “la volpe bionda”, Pascal le Cicales, detto il “Cica”. “La voglia fissa dei loro sguardi cattura i cervelli e li sbriciola facendoli diventare polvere da sparo”, sintetizza l’autore. Infine, da fuori, alla banda s’unisce spiritualmente e come mentore anche il saggio Generale Pixon, col suo avamposto dal fortino della torre di Sicilia (RC).
Le Cronache spaziano abilmente dal quotidiano navigare dei protagonisti nell’oceano delle corruttele e delle miserie umane, condensate nel “magna magna” di funzionari e di enti provinciali ormai catatonici e depennati, ai flussi globali di droghe, persone e denari e alle guerre mediorientali e nordafricane, così vicine geograficamente e nelle loro logiche intrinseche all’Italia profonda, barcollante e litigiosa rivelata dall’autore. Dal locale si passa al globale con disinvoltura, le vicende della vita sono un pretesto per allargare lo zoom e rivelarci realtà che crediamo lontane ma che ci riguardano, sempre, costantemente. E cosa sono tante città, persone, diritti e territori italiani se non campanili medievali e puntini nello spazio, sbalzati nella postmodernità 2.0 e fermi in balia della svendita coi primi saldi e dei marasmi neoliberisti?
L’approccio anche antropologico, oltre che narrativo e giornalistico, delle Cronache di Violi, prova a renderlo noto, con un linguaggio schietto e originale, al suo pubblico di lettori, alla comunità immaginata che, si spera, possa unire le sue forze per ridisegnare un futuro che, al momento, appare stagnante, becero, ignorante e incapace di biforcare il presente decadente verso cammini più umani e solidali. L’etnografia dolorosa, a tratti ironica e tragicomica, della burocrazia calabrese e italiana rappresenta un affresco dei nostri difetti come persone e società e, nonostante la vena critica e pessimista sulla realtà e sulla storia recente, il romanzo non manca di aprire scorci di resistenza e creativi immaginari che, costruiti mattoncino dopo mattoncino da un’avanguardia cosciente, possono senza dubbio sfidare lo status quo e fungere da esempio.
“Un romanzo surreale e iperrealista allo stesso tempo, un 1984 moderno i cui protagonisti sono costretti a operare come ingranaggi di una macchina burocratica che inghiotte e divora denaro pubblico. Una scrittura ironica e pungente, capace di illuminare tratti reali della nostra società”, recita la quarta di copertina.
Sullo sfondo dello sfascio italiano ed europeo com’è possibile restare a galla? Il gommone è già affondato? Da Atene a Crotone, dalla Cina ai palazzi romani, dalle placide e decrepite decrescite mediterranee all’austerity tedesca, basata sullo sfruttamento del lavoro, tutto indica che così è. Lo sprofondamento è lento, ma è cominciato due o tre decenni fa, dunque boccheggiamo. La sconfitta del lavoro sui profitti, spezzettati in assetti diffusi e incomprensibili, si riflette nel ricatto della precarietà, nella tendenza allo svilimento sociale collettivo e nell’abbassamento di aspettative e speranze, di salari ed emozioni.
Nel testo, a sorpresa, emergono spunti e informazioni per ritornare sulla storia della mafia e della ‘ndrangheta e sui loro legami con la politica, sulle vicende e i personaggi, sugli dei e i semidei, della politica italiana, sulla malasanità e lo smantellamento del welfare, già in fase avanzata nel Meridione, sul lavoro e la geopolitica italo-euro-galattica e sui movimenti, come la Pantera, che hanno segnato profondamente l’esperienza del Filippo Violi universitario fuori sede a Bologna. Nel frattempo, nel nuovo millennio, da dipendente pubblico, rende testimonianza e denuncia le operazioni militari di stormi di avvoltoi, consulenti, progettisti e aspiranti politici che sorvolano le casse statali, regionali e provinciali per disossare il malato semidecomposto:
“Se guardi le loro facce raramente troverai un sorriso, sembrano pieni di preoccupazioni e di paure, di dolore e sofferenza. Sanno nascondersi bene dietro l’apparente tristezza. Hanno la testa grande. Enorme. Piena. Di favole e certezze. Salvo poi metterla beatamente sotto terra come gli struzzi. E poi svolazzano come i pavoni nel grande circo della carriera individuale. Hanno i gomiti consumati a furia di spingere, hanno le piaghe ai piedi a furia di strisciare e se gli offri un cielo stellato da guardare ti chiedono: ‘Cos’è?’”.
L’intreccio di storia, antropologia, narrazione pura, cronaca, flusso di coscienza, diario di viaggio e giornalismo fa delle Cronache da un campo di battaglia un’opera ibrida, inquietante e acuta, attenta e fruibile: questa cronaca guerreggiata e studiata su più fronti non può far altro che instillare gocce e poi fiotti di comprensione e, con esse, barlumi di lotta, tattiche e strategie per compagni di viaggio e di battaglia.
Leggi QUI la sinossi e la intro del libro.