di Vittorio Catani
Davanti mi si piantò un tizio dalla faccia scabra e francamente antipatica.
— Lei è il signor Ludovico Poli — affermò.
Camminavo in città. Pensavo ai cavoli miei. Un giorno grigio d’un autunno inoltrato e deprimente.
— Sissignore — controaffermai. — E con questo?
— Lei deve venire immediatamente con me.
— Ma va’ a cagare.
Mi girai per andar via. Qualcosa mi tirò per il bavero dell’impermeabile.
— Guardi qui — disse il volto scabro antipatico.
Era un documento con un timbro, e a me non fregava nulla di quel pezzo di carta e quel rompiscatole mi rovinava una giornata già abortita sul nascere.
Non ricordavo bene come fossi arrivato lì dentro, e detesto sforzarmi per ricordare: ho sempre sostenuto che i dettagli annoiano. Ma ho il sospetto che mi avessero drogato, in qualche modo. Voglio dire, poco dopo – così mi parve – mi ritrovai in una costruzione che sembrava un labirinto di corridoi, scale, ascensori, torri e non so cos’altro. Quasi ogni porta aveva un arsenale di sistemi difensivi, dalle videocamere a strani fori che sembravano bocche da fuoco di una cannoniera. Non era possibile, quell’edificio non esisteva nella mia città. Non poteva esistere da nessuna parte. A guidarmi c’era lui: il disgustoso, intendo.
— Da questa parte.
Avrei voluto disobbedire, ma me n’era passata la voglia. E avevo fame.
Dopo un tempo “x” sbucammo sul millesimo corridoio e sbirciando da una finestra dedussi che dovevo trovarmi in un palazzo alto almeno cento piani. Anche questo non era possibile.
— Di qua!
A un certo punto – i dettagli sono sempre inutili – ero in una stanzetta. C’era un lettino bianco con una persona. Orizzontale, immobile. La porta si chiuse alle mie spalle. Non sapevo che fare.
Decisi di sedere, almeno mi sarei riposato dopo una camminataccia.
— Ciao, Ludo.
Sussultai. Guardai meglio la faccia sul cuscino. Era di un giovane magro dai folti capelli neri. Attorno alla testa aveva una specie di bandana argentata. Dell’insieme mi fregava meno di un tubo.
E ora dovevo anche andare in bagno.
— Ludo. Non mi riconosci?
Osservai meglio. Feci un salto indietro. Era trascorso qualche annetto.
— Vas!
— Esatto, io. Vasilij Vasilijevič Konevskij, in persona.
— Che cazzo ci fai tu, qua! E io?
— Calma, fratello. — Vas sembrava normale. Rassegnato anzi. Strano, per un tipo come lui. Aveva una luce diversa nello sguardo. — Se fai il bravo ti dico perché siamo qui — aggiunse tranquillo.
Perché siamo?!
— L’uomo — mi diceva Vas — non potrà mai diventare più intelligente di quanto non lo sia il più intelligente degli uomini.
Tacque. Pensavo avesse terminato. Stavo per commentare. Riprese:
— Nei circa 200 mila anni di esistenza dell’attuale specie umana il cervello ha raggiunto la grandezza e conformazione ottimale e quindi anche il massimo numero di neuroni possibile. Intorno ai 100 miliardi, con una fittissima rete reciproca di comunicazione. A quanti terabyte può corrispondere? Secondo alcuni, a un milione di miliardi di byte. Ti sembra una cifra folle? Per un cervello umano è un po’ deludente. Però la memoria umana è più complessa di uno hard disk. Percezione, elaborazione e tanto altro… Il paragone non è significativo. Una crescita ulteriore del cranio, puoi capirlo, comporterebbe gravi squilibri. Siamo condannati a una visione del mondo che ora incontra il suo limite. Dell’oltre ci è concesso sapere poco o nulla.
Non voglio dire se in quello sgabuzzino si stesse o no bene – i dettagli annoiano: lo affermo per l’ultima volta – tuttavia la presenza di Vasilij Vasilijevič mi, diciamo così, confortava.
D’altronde non ho famiglia e il mio scarso lavoro poteva sopportare qualche breve vacanza.
Lui era lì – me lo rivelò subito – per motivi top secret che però top secret prima o poi non sarebbero rimasti. Più poi che prima, capii subito.
— Sono in questo laboratorio da due mesi — disse — e quanto a sperimentazione ci avviamo a concludere. — Sfilò la bandana argentata e la sua capigliatura esuberante si sparse sul cuscino. — Vedi?
— Cosa dovrei vedere?
Scoppiò a ridere. — Qui, qui…
Nelle brevi giornate di quasi inverno Vas parlava, parlava. Mi spiegò ogni cosa (forse). Ammetto: mi stava conquistando. Un torrente in piena. Parlavamo e discutevamo anche di notte, fino all’alba.
Vas in effetti mi conosceva bene, sapeva dalla mia debolezza per certi argomenti e comunque io ho perseguito studi scientifici.
Le nostre ore divennero presto un flusso continuo di parole.
— Un numero di neuroni più elevato — diceva Vas — accentuerebbe la complessità della rete neuronale, rallentandone anche le reazioni. Né si sa come reagirebbe l’insieme del corpo. La nostra mente non può essere più di quanto già sia.
Parlava e giocherellava con il cilindretto appeso a un filo che pendeva dai suoi capelli. — Eccolo. L’equivalente cerebrale d’una penna. L’uovo di Colombo. La leva che solleverà il mondo.
I pensieri ribollivano. Ok, grandioso. Proprio a Vas. Era sempre stato un tipo un po’ fuori dal consueto. Esclamai: — Ma io che c’entro?
— Come tu dici: “i dettagli…” Insomma, la cosa funziona. Funziona bene, anzi ottimamente. Anzi troppo.
— I miei più sinceri complimenti.
— Adesso ho un cervello allargato, Ludo. Espanso. Senza rischi spero, perché l’apparato è graduabile, misurabile, ha tutto sotto controllo.
— L’ho immaginato. Ma perché? Tu eri già troppo intelligente.
— Spiritoso. Sono una cavia volontaria.
— Bene. I quattrini spiegano sempre tutto.
— Volontaria e gratuita. Cioè ho rifiutato il compenso. Per principio. Salvo l’assicurazione. L’innesto è sempre un rischio, ma ne vale la pena.
— Accidenti. E ancora non mi dici perché sono qui io. Vogliono, volete espandere anche il mio cervello? Non sono assolutamente disposto. Almeno mi concederete l’esclusiva dello scoop mediatico per te?
Cambiò discorso:
— Tu avresti bisogno di una penna grande almeno il triplo…
— Insomma, Vas, basta con battutine e indovinelli.
— Sono qui da due mesi di solitudine con un cervello che ora affonda in mille nuovi interrogativi. Ho chiesto, ho supplicato di avere un interlocutore, non interno a questa organizzazione e pertanto non “di parte”. Qui sono tutti teste di… Insomma, è peggio d’una caserma. Un amico “provato”, che ti conosce abbastanza e sa intenderti al volo e metterti a tuo agio, con il quale scambiare quattro chiacchiere distensive. Sto impazzendo! Alla fine hanno acconsentito. Scusami… Ho pensato a te. Resti qui pochi giorni, garantito.
Percepii ancora più stretta la piccola stanza in cui eravamo. Cominciavo a incazzarmi davvero. Dissi:
— Pochi giorni? Hai deciso tu per me! Che significa “pochi”? Non capisco e non voglio capire! Mi avete sequestrato! Voglio andarmene, chiama subito qualcuno altrimenti scateno un putiferio.
Vas mi guardava sorridendo. Disse:
— Scommetto che tu non farai nulla di tutto questo.
Effettivamente, in qualche modo le parole di Vas mi rendevano più docile, più disteso, meno aggressivo. E – confesso – adeguatamente incuriosito. Già a metà della prima notte, in pieno dialogo, pendevo dalle sue labbra, e spesso non capivo cosa dicesse anche se lui – mi assicurava – cercava di comunicare nel più semplificato dei linguaggi. Aggiungendo che alcuni concetti, sensazioni, io non le avrei mai comprese, perché non avrebbe potuto esprimerle. Se ne rammaricava. Non c’erano ancora parole attinenti nel vocabolario umano, la mente non espansa non era preparata a farle sue.
Non posso banalmente dire che sia stato tutto “come un sogno”. Al contrario ero in una realtà vivissima, forte, violenta. Me ne restano memorie concrete, incisioni sulla pelle.
— …è deducibile — diceva Vas alla fine di un complicato discorso — che i numeri non sono affatto infiniti. Insomma esiste un numero “x”, il “più grande di tutti”, per il quale non si può dire: “x+1”. Lo stesso cervello umano è per certi versi uno hard disk: il numero più grande può essere il massimo numero di quelli che esso riesce a contenere, quindi a “concepire”. Oppure, il numero più grande è dato dalla somma di tutte le microparticelle di materia e di energia che sono esistite, esistono ed esisteranno durante l’intera vita dell’universo. Ma quanto dura la vita dell’universo? Nessuno ha mai osservato il decadimento di un protone.
— E con questo?
— Significa che queste particelle sono molto stabili e devono vivere almeno dai 1017 ai 1035 anni, ovvero miliardi di miliardi di miliardi di anni. Che resta sempre un numero “finito”. Il resto non ha un significato razionale. Si parla del numero “googol” (1 seguito da 100 zeri) e poi del “googleplex” (10 elevato a googol) e infine del numero di Graham, la cui lunga serie di esponenti conduce a una cifra indicibile. Ma sono fantasticherie, i numeri sono un’invenzione e una convenzione, come la matematica. I più alti non saranno mai utilizzati, indagati, pensati: di fatto inesistenti. Con una battuta, potrei dirti che i matematici hanno pensato spesso ai numeri primi, ma hanno sempre ignorato il numeri “ultimi”. Altri sostengono che l’universo contenga fenomeni così sofisticati da necessitare d’un numero di elementi e reazioni talmente elevato che queste cifre “non reggono” e provocano errori nelle costanti universali. Il che porterebbe a catastrofi di dimensioni galattiche. Ecco, siamo a quel qualcosa che va “oltre”, che io non sono ancora in grado afferrare del tutto, né di restituirlo nel linguaggio corrente.
Era notte, nella cameretta la luce era spenta. Vas seguitava a parlare, io ascoltavo in silenzio. Non capivo a fondo, o meglio capivo ben poco. Mi pareva che Vas mescolasse argomenti che partivano da basi differenti ma non ero in grado di replicare. Di una cosa sono certo: il buio nella camera si accordava molto oniricamente con la “finitezza” dei numeri.
— Ma la finitezza dei numeri — spiegava — prefigura qualcosa di più importante: l’inesistenza dell’“infinito”. Secondo alcuni matematici, allorché si deve tirare in ballo questo “numero”, vuol dire che c’è qualche calcolo sbagliato. Mi chiedo come reagirebbe l’umanità, come muterebbe radicalmente la visione del mondo e della vita nell’apprendere che l’infinito, in tutte le sue accezioni, è una immensa, limitata bolla di sapone. Conosci Borges? Ha scritto: “L’idea di infinito corrompe tutte le altre”.
Non me ne stavo sempre lì, in cameretta. Con Vas o senza sarei impazzito anch’io. Apparentemente, per quanto vedevo, il personale della struttura – accidenti, non seppi mai come si chiamava quel megapalazzo ma suppongo appartenesse anch’esso a qualche “segreto di stato” – era formato da due soli individui. Il primo era un medico competente anche di informatica neuronale: un “informedico”. Basso, mingherlino, occhialuto, veniva due volte al giorno senza bussare e con una specie di gracidio mi ordinava di uscire immediatamente nel corridoio e chiudere la porta. Seppi solo che si chiamava Bohumil, ma certo era un falso nome. L’altro era un nero come la pece che portava il cibo e ripuliva la camera ad alta velocità senza mai dire parola o rispondere a domanda, se non con sogghigni dai denti bianchissimi. Costui era Mbaceka, verosimilmente altro nickname.
Vas preferiva non parlarmi dei controlli. Solo una volta si espresse: — Questo informedico è uno infostronzo.
Dapprima fui certissimo che sarei presto fuggito da quella prigione. Poi pensai inopportuno tentare sortite immediate, di sicuro ero strettamente controllato. Forse le briglie si sarebbero allentate in seguito, se mi fossi mostrato un tipo tranquillo. Questo mio progetto, già confuso, cominciò a sfarinarsi ulteriormente.
Non ero in un edificio comune. I palazzi normali non cambiano continuamente l’assetto del loro interno. Uscivo nel corridoio, e un quadro era appeso al muro sulla destra. Tre ore dopo lo vedevo a sinistra. Di mattina la porta (blindata) del corridoio era dietro l’angolo, il pomeriggio me la ritrovavo a tre metri, davanti. Inverosimile. O era in funzione una formidabile tecnologia dell’illusione, per scoraggiare quelli come me, o mi stavano drogando con cibo e bevande, o stavo rincoglionendo. Ne accennai a Vas.
— Anch’io — mi rispose — nei primi giorni uscii da questo sgabuzzino con il proposito di concedermi una modesta passeggiata, una ricognizione. Dopo pochi passi andai a sbattere contro una trave invisibile. Vedi? — Mostrò una piccola cicatrice sulla fronte. — Da quel momento ho desistito. Anche perché mi coinvolsi presto in questo esperimento. Ora non lo abbandonerei per nessun motivo. Tieni a mente: vagare nei corridoi è ad altissimo rischio.
Le giornate si sommavano ma io – non so Vas – non me ne accorgevo. Lui spesso si isolava, concentrandosi immobile per ore e rimuginando parole in mantra indecifrabili. Quella penna cerebrale era sufficiente a espandergli così tanto il pensiero e – deducevo – la coscienza. Mi aveva detto che il piccolo apparato era un misto di materiali biologici (neuroni da cellule staminali) e artificiali. In teoria accresceva la potenzialità cerebrale di 1/10. Che sembrava una frazione minima, invece era enorme. Ovviamente con le differenze tra mente umana e memoria di silicio, come già mi aveva detto. Mi esortava a domandare, aveva il bisogno impellente di comunicare, spiegare.
Ma dovevo accontentarmi di frammenti delle sue deduzioni, spesso non comprendevo neanche quelle, non capivo neppure l’argomento oggetto del suo dire. Lui se ne accorgeva e disperava di non poter fare meglio.
Perché aveva bisogno anche di risposte.
— Il mio impianto è solo un arnese, mi invia informazioni che io devo imparare a decifrare. Non è magico, non mi fa “capire”. All’inizio percepivo solo rumori, vedevo luci, provavo strane sensazioni agli arti. Segnali in arrivo dai quali ho dedotto pensieri: un linguaggio che sto appena incominciando a metabolizzare.
Giunsi a percepire Vas come un prigioniero di qualcosa più grande di lui – più grande di tutti noi – di cui però egli poteva cogliere tasselli, se non per completare, per delineare un mosaico. Presi a invidiare un po’ Vas. Lo immaginavo in piedi dinanzi allo sconfinato orizzonte d’una realtà superiore negatami, di cui potevano giungermi solo briciole. Una volta si mise improvvisamente a urlare:
— Bohumil, sei un coglione! Impiccati! Cavolo, spero che mi abbia sentito. Anche se non ho trovato cimici qui dentro, sono certissimo che tutto questo viene registrato 24 ore su 24 ma non ho un cazzo da nascondere io, bestie! — Notò il mio sguardo intimorito e aggiunse: — Ma che stai a guardare… Fregatene anche tu… tutto ciò di cui abbiamo parlato… loro lo conoscono già. In questi due mesi ho dovuto ripeterglielo cento volte ma non credo abbiano capito niente.
— Quando il mondo è così difficile da ascoltare — mi diceva — bisogna cercare di allenarsi a percepire i segnali in profondità. La coscienza umana è qualcosa di molto più vasto di quanto io credessi. È sufficiente salire la scala della consapevolezza d’un solo misero gradino, e si apre davanti un mondo da ricostruire da cima a fondo. Scoraggia, anche se dovrebbe entusiasmare. Poi si intuiscono ulteriori gradini…
Quella mattina uscii dalla stanza con un progetto ben chiaro: perlustrare attentamente il corridoio, o ciò che era. Pensai che, per non andare anche io a sbattere contro qualche trave invisibile, potevo comunque muovermi come un cieco: tastando con mani e con piedi. Mi sarebbe stato utile un bastone, ma ovviamente nella camera non c’era nulla che potesse divenire un’arma. Trovai una crocetta appendiabiti: meglio che niente.
Presi a muovermi. Quella mattina il corridoio sembrava coincidere con ciò che vedevo e tastavo: un lunghissimo corridoio, appunto. Con una porta a circa 100 metri. Inverosimile! Con massima facilità percorsi la distanza che mi separava dall’uscita.
La porta si rivelò aperta.
Ero incredulo. Ne approfittai.
Davanti mi si aprì la larga veduta di scale incrociate, estesi pianerottoli ed enormi finestre a tutta parete. Roba da capogiro: sembrava un disegno di Escher. Mi avvicinai a una vetrata e guardai giù. Altro che cento piani, qui pareva d’essere tra le nuvole. Un palazzo volante? Ridicolo. Ci avrei giurato: si era almeno a ottomila metri di altitudine. Eravamo sulla cima d’un monte? Confuso, presi a muovermi a casaccio. Cominciò a mancarmi l’aria. E intorno, alle pareti, non vedevo boccagli e bombolette di ossigeno. La vista si annebbiava. Persi l’equilibrio. Urlai qualcosa, un grido estremo di aiuto. Capii che stavo svenendo, forse morendo. Mi accasciai come un sacco di patate.
Qualcuno mi scuoteva. Aprii gli occhi. Dov’ero?
Vas. Era lui. — Ma che ti succede? Sono tre ore che te ne sei andato.
Mi osservai intorno e cercai di ricostruire. Ero svenuto a un metro dalla porta della cameretta.
Vas aveva preso a parlarmi di “coscienza espansa”. Qualcosa che superava i confini consueti per assurgere a una autoconsapevolezza difficilmente immaginabile.
Era un’alba che nella piccola stanza lasciava intravvedere fantasmi di volti e la voce di lui pareva sorgere dal nulla, un sussurro che anche esteticamente trovavo in perfetta armonia con un simile momento etereo. Forse erano alcuni degli istanti più interessanti della mia vita, nonostante tutto, pensai.
— La coscienza — mi stava dicendo — sembra avere un aspetto fragile, legata com’è alla cultura di un popolo e al livello sociale raggiunto. Influenzata da forze come le istituzioni, il sistema politico, la religione. Un insieme complesso e così delicato nei suoi equilibri…