di Danilo Arona
Chissà se Natale era poi un infame? Peraltro non ha molta importanza che noi lo sappiamo con certezza. Natale sparisce da subito per diventare un fantasma, ovvero un ricordo doloroso sempre presente. Nella mente e negli occhi del figlio di otto anni. È mafia, è lupara bianca. U’infami crepa senza ciatari, picchì sapi r’aviri tortu. E poi si atomizza. E’ la Città Incredibile, Palermo. Dove ti disperdi nel nulla solo perché qualcuno ha deciso che tu sei in infame e magari non lo sei. Magari sei solo stupido, o imprudente. O sfortunato.
Okay, facciamo ordine.
Ci troviamo nel territorio letterario di Giacomo Cacciatore, dove ogni parola e ogni frase sono boccate di ossigeno. Il suo romanzo (ultima stazione di un percorso che comprende lavori eccelsi – L’uomo di spalle, Figlio di vetro, Salina la sabbia che resta in team con Catalano e Palazzotto, La differenza – e l’antologia di storie brevi La città incredibile dedicata a Palermo) s’intitola Se tornasse Natale, da poco uscito per Baldini & Castoldi, e ci racconta dell’elaborazione di un’assenza, quella di un bambino, Bruno, il cui padre sparisce perché così ha da essere. Così hanno deciso gli invisibili burattinai.
È un romanzo sul tempo, sulla sua impermanenza e sulla sua mutagenesi – il volto che non vedi più e che si deforma ogni giorno che passa. Su questo specifico elemento, di Giacomo mi è rimasto impresso, indelebile, un frammento che recita: L’eco, il lamento del tempo truffato (non vi dico da dove viene, Giacomo lo sa ed è ciò che conta) e si tratta di parole che tornano subito alla mente durante la lettura delle prime pagine di Se tornasse Natale. Ora, parlare di questo libro senza – come si suol dire – spoilerare è arduo, ma ci provo.
Il tempo truffato, il tempo rubato, il tempo che il Male-Mafia-Mostro (la M che è una costante sin dal Mostro di Dusseldorf giungendo al REDRUM di Shining specchiato al contrario…) sottrae a Bruno il cui padre svanisce causa lupara bianca uscendo dall’auto per recarsi al mercato della Vucciria.
Lo sapete, siamo a Palermo. Quella location di mille romanzi e altrettanti, speculari storie vere che Giacomo ha raccontato in 17 tappe del suo succitato lavoro antologico del 2012, intitolato, appunto, La Città Incredibile e sottotitolato, appunto ancora, Racconti tra il vero e il probabile. Perché a Palermo si può partire dal vero, dal tangibile quotidiano, e arrivare sull’ingresso della Casa Usher (come ha raccontato Giacomo nel delizioso racconto Edgar è stato a Ballarò), fuor di metafora la visione e l’esperienza di questa città che riescono a oscillare tra poli lontanissimi per definizione ma contigui nella percezione. Se posso scantonare per qualche riga, proprio Giacomo – con Raffaella Catalano – mi ha iniziato, quanti anni fa non saprei più dire (comunque troppi), al tour notturno di Palermo, quando nel suo spazio-tempo la Città Incredibile si trasfigura e cambia pelle, addobbandosi di luce e di bellezze di giorno mimetizzate.
(E’ proprio incredibile, Palermo: in un posto meraviglioso che si chiama Kalesa, a un metro dal mare, ho parlato di Alessandria/ Bassavilla a circa 200 persone attente e motivate, il wine bar avrà avuto certo il suo peso ma il climax era già quello notturno…).
Tornando a Bruno e al suo tempo truffato, il nuovo libro di Giacomo potrebbe proporsi magari come il 18° racconto, espanso a romanzo, de La città Incredibile. O forse, ancor meglio, Se tornasse Natale contiene tutti gli altri precedenti, tagliando il traguardo delle estreme conseguenze socio-antropologiche dei 17 presupposti. Un libro su Palermo, sui palermitani e le palermitane che vedi e ti bevi come un film, tuffandoti all’interno della cornice schermica tanto i suoi personaggi vibrano di autenticità. Un libro, no, forse per quel che riguarda Giacomo, il libro.
La costruzione letteraria, maledettamente efficace, si avvale di una prosa asciutta, scarnificata e al contempo densa, nella quale ogni parola e ogni passaggio sono il frutto di un lavoro di fino cesello da parte di una mente concentrata sul traguardo, la Grande Bellezza delle parole che si sviluppano in sequenza ottimale. La chiusa di un capitolo, meravigliosa e visionaria: «Il resto della notte, per Bruno Lo Bianco, è pioggia che non arriva e correnti d’aria che scatenano fantasmi. Turbini che gonfiano lenzuola stese nel quartiere». O l’incipit del libro stesso, un flash che lampeggia come quintessenza del noir (datemi torto…): «E poi di punto in bianco la cabina diventa una bara di vetro. L’uomo che vi si scompone dentro, in una giacca spezzata di filamenti argentei, cerca un’ultima parola amorevole dall’altro capo della linea. Di una soltanto, o di qualcosa che le somigli. Non la riceve. Si sente mancare il respiro. Si aggrappa alla cornetta come se fosse un boccaglio d’ossigeno». Poche righe e questo libro non lo molli più. Come si potrebbe? Mi sento quasi Tippi Hedren prigioniera della cabina telefonica assediata dagli uccelli. Il vetro che si frantuma, la claustrofobia. Ti senti perduto e si tratta soltanto di poche righe.
Giacomo è poeta, sceneggiatore, ma anche teatrante. La dimostrazione, pratica, che il mestiere dello scrittore ne contiene altri. I suoi romanzi li vedi, lo abbiamo già scritto, come un film. I suoi personaggi li visualizzi con chirurgica, fotografica precisione. La sua voce risuona autorevole come la voce off in Barry Lindon In una potente sintesi, le parole vivono.
Laura Grimaldi, mai troppo rimpianta, sosteneva che il noir non è tanto un genere con i suoi stereotipi, codici e personaggi. Il noir, la letteratura per eccellenza dei nostri tempi in grado di raccontarci storture e deviazioni del mondo attorno, è l’Anima comune e condivisa da generi anche diversi. Anima che volteggia, si piega e sguscia come un serpente, partendo – come si diceva prima – da un tangibile quotidiano (la realtà, il crimine) per approdare verso le pagine finali al mondo dark carnival alla Bradbury, dove la Mafia diventa Magia, o viceversa, e Huck Finn si affaccia sul grande fiume, il Mississipi, che bagna i sogni del piccolo Bruno.
Il libro non ve l’ho raccontato. Scopritelo, gustatelo, perché è un capolavoro. Stupefacente spaccato di psicologia infantile e criminale. Di coscienze femminili e di maschere tragicomiche maschili. Che non può che concludersi sopra un palco (di un teatro all’aperto). Quasi ad ammonirci che La Città Incredibile ha in serbo nuove magie. E soprattutto repliche a richiesta. Perché lo spettacolo di Cacciatore continua.