di Livio Ciappetta
Madrid, consiglio dell’Inquisizione, luglio 1737.
La sessione pomeridiana venne introdotta, come di consueto, da Don Iñigo Quiroga, membro anziano del Consejo de Inquisición. Un uomo mite, benvoluto e rispettato da tutti gli altri membri, a cui veniva concesso l’onore di introdurre le assemblee, pur non esercitando invero alcuna autorità. Don Iñigo presentò al consiglio una causa pervenuta tra le carte della relazione annuale inviata a Madrid dal tribunale basco di Logroño. Si trattava del processo celebrato contro tale Manuel Aguirre, imprigionato e condannato per aver rubato in Chiesa un’ostia consacrata, usata poi per cercare di rendersi invisibile. Alla lettura del ristretto informativo del processo, non pochi membri del consiglio sorrisero mestamente. I tribunali periferici erano spesso amministrati da individui che, più che combattere le superstizioni, ne erano preda loro stessi, e già il lieve brusio di disapprovazione sembrava preannunciare una mozione di clemenza per liberare il malcapitato. Ma i mormorii e i sorrisi vennero bruscamente interrotti dallo sguardo torvo dell’Inquisitore generale, che riportò il silenzio. Ad un rapido cenno, uno dei membri presenti del consiglio di Castiglia, che presenziavano alle assemblee pur non avendo diritto di voto, si avvicinò all’inquisitore, mormorandogli qualcosa all’orecchio. «Che sia fatta immediata chiarezza sulla posizione del condannato», disse perentorio l’inquisitore generale. «Scrivete ai giudici di Logroño affinché proseguano nell’inchiesta che ha condotto alla condanna dell’Aguirre, per appurare se non vi siano ulteriori reati a suo carico». Benché sorpresi, nessuno dei membri del consiglio osò pronunciarsi a riguardo. Venne redatto il verbale dell’assemblea e fu immediatamente inviato un messo con i documenti destinati al primo inquisitore di Logroño.
Pochi giorni più tardi, una nuova urgente ambasciata giunse a Madrid, consegnata personalmente all’Inquisitore generale: l’Aguirre era riuscito a fuggire dalla prigione del tribunale.
Roma, palazzo del Quirinale, 24 marzo 1737.
Alla presenza del Papa, si celebrava come ogni mercoledì pomeriggio la riunione della congregazione del Sant’Uffizio. Di fronte ad una pigra e sonnolenta assemblea si diede lettura dell’ordine del giorno; una sola causa era pervenuta all’attenzione della congregazione e riguardava la supplica di un uomo, tale Emanuele Aghirre, proveniente dalla città di Bilbao, che chiedeva di essere giudicato in appello dal Santo Padre, per scampare all’ingiusta condanna inquisitoriale in cui riteneva di essere incappato. Era infatti stato condannato dal tribunale della fede iberico per aver sottratto un’ostia consacrata con l’intento di compiere un sortilegio, ma dopo un anno di carcere era riuscito a fuggire, giungendo con non poche fatiche fino a Roma, dove intendeva discolparsi di fronte a sua Santità.
Alla lettura della supplica, il Papa aggrottò le sopracciglia. «Un conflitto giurisdizionale con gli spagnoli non è mai cosa semplice», borbottò, «tanto più se si tratta dell’Inquisizione, di cui sembrano esser più gelosi che della loro stessa moglie. Ma dite un po’, eccellentissimi cardinali, ho davvero io questo potere d’appello che mi si attribuisce? E chi lo ha stabilito? Perché se qui cominciamo a battibeccare sui brevi e le bolle dei miei predecessori la vedo dura…». Prese parola un cardinale anziano, il domenicano Enrico Maria Lucini, della provincia lombarda, già autore di un trattato sulla potestà pontificia e per questo benvoluto dal Papa, in quanto appunto gran ruffiano: «E’ certamente vostro diritto santità, e non c’è neppur bisogno di frugare tra la polvere dell’archivio segreto, perché abbiamo dei precedenti ben più recenti, di inizio secolo, pei quali si chiarì che l’appello al Papa è diritto inalienabile di ogni reo del Sant’Uffizio spagnolo, con buona pace dei sovrani. D’altronde, nel mio volume ho chiarito tutto con grande dovizia di particolari, e con l’autorità dei padri della Chiesa che…». «Lo conosciamo, lo conosciamo monsignore, per carità», lo tacciò il pontefice, talvolta infastidito dai modi fin troppo leziosi e celebrativi del suo protetto. «Ma anche se i padri della Chiesa mi danno ragione, quando si tratta di scontrarsi col Borbone non c’è trattato che tenga. Voi mi citate i precedenti di inizio secolo; me li ricordo anch’io, vi riferite a quella storia del confessore del Carlo II, quello che tutti dicevano avesse stregato il Re per fargli firmare testamento in favore del francese… e vi pare un paragone da fare? C’era un Re morente, e il successore era un giovanotto che per dieci anni e più è rimasto in bilico sul trono. Ora quel giovanotto è un monarca attempato con una solida corona in testa, che apre accademie di scienze e storia e belle arti e non ci chiede neanche mezzo parere. E per di più, voi stessi mi dite che l’ombra di questa nuova setta, i frammassoni o come si chiamano, che pensavamo essere poco più di una burla è invece cosa seria, e io dovrò emanare una bolla per impedire che dilaghino… e se in Spagna poi si oppongono? Se gli inquisitori spagnoli non danno seguito alla bolla perché noi bisticciamo col Filippo V per un’ostia, come la mettiamo?». Tra i presenti cadde un certo imbarazzo, perché come sempre si poneva il problema di capire se salvaguardare l’auctoritas spirituale o l’opportunità politica, ed era una questione che indispettiva moltissimo il Santo Padre. Dopo un minuto di silenzio, si alzò un uomo, seduto un po’ in disparte, e prese la parola: «Consentitemi santità». «E questo adesso chi è?», lo interruppe il Papa. «E’ l’avvocato dei rei del Sant’Uffizio », rispose pronto il cardinal Lucini, «monsignor Cesare Fiorelli, dell’ordine di San Domenico». «Ah si, bravo bravo. Ebbene, avvocato, che ci dite per sbrogliare questa matassa?». «Innanzitutto santità, permettetemi di dirvi che il furto dell’ostia non è cosa da prendere sottogamba. Ben due vostri predecessori si sono espressi in materia, alla fine del secolo scorso, e nei nostri possedimenti abbiamo rilasciato al braccio secolare almeno tre condannati». «Ma veramente?», bisbigliò il Papa rivolgendosi all’ignaro Lucini, che si strinse nelle spalle in segno di stupore. «Sì santità, l’affare è serio, se si tratta di eresia. Ma qui sta appunto la via d’uscita da questa faccenda». «Continuate monsignore», lo invitò il Papa, che si era fatto tutto d’un tratto più attento. «Se si tratta di eresia, e la nostra inchiesta dovesse confermare le accuse degli spagnoli, noi dobbiamo ribadire la condanna, anzi appesantirla, per dimostrare che la sacra soglia non è la via di fuga per i furbi che scappano dalla Spagna. Ma se invece non si tratta di eresia, ma di volgare superstizione, allora Santità la cosa è ancora più semplice. Ce lo insegna San Tommaso, che se il reo pecca per ignoranza e stoltezza il peccato si mitiga. Il problema, se posso permettermi Santità, è la intentio. Aveva o no il reo la intentio di commettere eresia?». «Per carità monsignore, non dateci lezioni di Teologia che non è proprio il caso. Facciamo così allora: interrogatelo voi il fuggiasco, e la prossima settimana, quando ci rivedremo, ci direte il vostro pensiero. Ma badate bene: intentio o non intentio, io grane col Borbone non ne voglio!».
Piazza d’armi di Castel Sant’Angelo, il giorno dopo.
Cesare Fiorelli attendeva il prigioniero nel cortile di Castel Sant’Angelo, dove era stato rinchiuso in attesa dell’appello. L’incarico affidatogli dal Santo Padre non era dei più semplici, e in cuor suo confidava che il presunto reo fosse un popolano ignorante e superstizioso, per consentirgli di perseguire la via che egli stesso aveva suggerito. Ma se così non fosse stato? Se dietro al furto della pisside sacra si nascondeva davvero la volontà di nuocere alla Chiesa? Il domenicano sapeva che spesso anche i pilastri teologici più solidi dovevano arrendersi alla ragion di Stato, per evitare conflitti ben maggiori, ma ciò ripugnava non solo al suo stato di ecclesiastico, ma alla sua stessa coscienza. Era cresciuto all’ombra delle sacre scritture, sotto la guida dei suoi grandi maestri di diritto ecclesiastico e di teologia morale. Nei padri della Chiesa egli aveva sempre trovato conforto, ispirazione, certezze, anche quando l’arbitrio della gerarchia ecclesiastica lo aveva fatto vacillare. Per questo aveva intrapreso una carriera difficile e inconsueta, fino ad approdare al ruolo per molti versi scomodo di avvocato dei rei del Sant’Uffizio. Egli era il garante della corretta interpretazione eresiologica dei reati e dell’applicazione giusta e severa della legge divina. Egli riteneva di essere, in qualche modo, il vero pilastro su cui si reggeva l’ordine giuridico del Sant’Uffizio Romano. Tutt’altro che un nemico dell’ortodossia dunque, ma un giusto e scrupoloso giudice della Fede, che investigava sin nel profondo della coscienza dei rei, per guidarli verso la redenzione o il castigo, o entrambi.
Assorto in queste sue riflessioni, non si avvide che alle sue spalle stava giungendo il prigioniero, accompagnato dai birri di Castello. Quando si voltò, non poté trattenere un moto di stupore nel vedere un uomo vestito di stracci, la barba e i capelli lunghi e sudici, e un’espressione assente, lontana, lo sguardo rivolto altrove. «Volete che conduciamo il prigioniero nella sala delle udienze monsignore?», fece una delle guardie. «Ma no, resteremo qui, faremo due passi. Voi restate nei paraggi». Le guardie si allontanarono di alcuni metri, appoggiandosi all’affusto di un cannone, e i due iniziarono a camminare lentamente, il Fiorelli due passi più avanti al prigioniero, che lo seguiva docile. «Voi capite la mia lingua o avete bisogno di un’interprete?». «Vi capisco monsignore, ho viaggiato molto, ero un mercante». «Un mercante mi dite. E di cosa? Di oggetti sacri che trafugavate nelle Chiese?». «No eminenza, io non ho mai rubato nulla. Vendevo panni e filati, col mio carro attraversavo le alpi, da Barcellona attraverso la frontiera pirenaica di Port Bou fino a Venezia. Percorrevo la distanza in tre mesi, nella bella stagione, sostando quasi ogni giorno nei paesi sulla strada, per vendere la mia merce. Mi rifornivo nei porti di Barcellona e di Venezia, ed ho sempre vissuto di questo, sin da quanto mio padre, morendo, mi affidò l’unica proprietà di famiglia, il carro e un piccolo capitale in stoffe e denaro, con cui intrapresi l’attività che mi ha dato da vivere per vent’anni». «Vent’anni mi dite? Ma quanti anni avete?». «Ne ho trentotto eminenza. Persi mia madre quando ero ancora in fasce, e mio padre a diciotto anni, quando grazie a Dio avevo già forze ed esperienza per vivere da solo». «Avete ricevuto un’istruzione?». «No eminenza. Mio padre mi insegnò a leggere e a contare, tutto il resto è ciò che si impara per sopravvivere». «Avete detto che acquistavate le vostre stoffe nei porti di Barcellona e Venezia. Acquistavate negli empori cittadini, immagino». «In verità no, eminenza. I mercantili riservano sempre una piccola parte del carico alla vendita diretta, per ottenere guadagni ulteriori. E per chi fa il mio mestiere è assai conveniente, si evitano i dazi doganali». «Trattavate voi direttamente dunque? Saprete molte lingue allora, a Barcellona e Venezia arrivano mercantili da tutto il mondo». «Capisco e parlo diverse lingue, eminenza, le ho imparate per i miei affari». «Le capite e siete in grado di leggerle anche?». «Si eminenza, le leggo». L’ombra di un sospetto iniziava a farsi strada nella testa del Fiorelli. Il mercante di stoffe sembrava possedere una qualche conoscenza inconsueta, e anche se non poteva dirsi a prima vista un erudito, sarebbe stato difficile sostenere che fosse uno sciocco ignorante.
«Ebbene, don Emanuele, parlatemi del furto dell’ostia. Siete stato condannato dal tribunale di Logroño per il reato di superstizione e per furtum pissidis, ma dite di volervi discolpare di fronte al Santo Padre. Come sono andate le cose? E siate sincero con me…». Emanuele Aghirre sembrava non aver udito; fissava a terra poco davanti a sé, il respiro lento, le labbra leggermente serrate. Poi d’improvviso, si scosse e cominciò: «L’ostia voi dite, eminenza? E per rendermi invisibile? Perché secondo i giudici l’avrei presa per questo, per scomparire…». Un ghigno breve e amaro comparve sulla bocca dell’Aghirre, ma subito riprese: «In verità eminenza, davvero non saprei che farmene di un’ostia…». «Un’ostia consacrata, Aghirre, badate bene, un’ostia consacrata!», lo corresse il Fiorelli. «Consacrata o no, eminenza, io non saprei che farmene. Non ho mai rubato nessun’ostia, questa è la verità». «E allora gli inquisitori avrebbero inventato tutto? E a che scopo? E come potete dimostrarlo? Badate bene Aghirre, non ci si presenta dinnanzi a Sua Santità senza poter offrire alcuna spiegazione. Sono stato incaricato di ascoltarvi per decidere se concedervi udienza o meno, ma se non avete nient’altro da aggiungere, allora sappiate che non mi resta che confermare la condanna del’Sant’Uffizio spagnola, anzi con la raccomandazione di inasprirla quanto possibile!». Fiorelli osservava attentamente il prigioniero, che era evidentemente preda di una lotta interiore, incerto se rivelare o meno le reali circostanze del suo arresto. Ma dopo alcuni attimi di esitazione, probabilmente vinto dalla paura del castigo, l’Aghirre si decise: «E sia eminenza. Sono ancora troppo giovane per morire nelle carceri inquisitoriali, perché sarebbe questa la fine che mi spetterebbe, ne sono certo. E allora vi dirò tutto». «Vi ascolto Aghirre» disse serio Fiorelli, le cui speranze di trovarsi di fronte ad un villano erano scemate del tutto. «Vi ho detto che ero un mercante, eminenza. Ed è la verità; per molti anni ho viaggiato per le alpi con le mie stoffe, fino ad una primavera di circa dieci anni fa. Mi trovavo a Venezia, pronto ad acquistare i nuovi carichi provenienti dall’Oriente; avevo in animo di partire alla prima giornata di bel tempo, con l’intenzione di giungere a Barcellona per i primi giorni d’Agosto. Ma la sera prima della partenza, il capitano del vascello da cui mi ero rifornito, che conoscevo ormai da alcuni anni, mi avvicinò e mi disse che se accettavo di consegnare per lui un piccolo carico, ci sarebbe stato un guadagno ulteriore. Vede eminenza, la mia vita non è mai stata troppo facile; viaggiare continuamente per mesi non è affatto un bel vivere, e durante l’inverno sono stato spesso costretto a vivere molto modestamente, quando i miei affari non erano andati come speravo. E quindi accettai senza riserve, domandando solo quanto era grosso il carico, pensando di nasconderlo tra le stoffe in fondo al carro. Mi fu consegnato un involto della dimensione di una piccola cassa, ma non molto pesante. Tuttavia, mi fu raccomandato di trattarlo con cautela, poiché nonostante apparisse solido al tatto, poteva rivelarsi molto fragile. Il capitano del vascello aggiunse che avrei dovuto consegnarlo al priore del convento degli agostiniani di Barcellona, che attendeva il pacco. L’indomani mi misi in viaggio di buon mattino. Non avevo ancora nascosto il pacco in fondo al carro, e contavo di farlo al primo paese in cui avrei fatto sosta, quando avrei tirato fuori tutta la mercanzia per venderla. Sapete eminenza, sono sempre stato molto curioso, e non appena fui lontano dalla città decisi di aprirlo, per osservarne il contenuto. Ebbene, gli oggetti racchiusi erano effettivamente assai fragili, sia nella consistenza che in ciò che contenevano». «Oggetti di valore? Preziosi? Oro?», domandò incuriosito e attento Fiorelli. «No eccellenza, niente di tutto ciò… libri, solo e soltanto libri, eccellenza». Fiorelli, di colpo scuro in volto, vacillò qualche istante all’inaspettata rivelazione. Le frontiere pirenaiche erano sempre state molto deboli di fronte al passaggio dei libri proibiti; il tribunale di Logroño, l’unica autorità basca che ancora rispondeva agli ordini di Madrid, aveva il compito di sorvegliare le vallate d’accesso alla Spagna, ma nonostante l’estesa rete di informatori e familiari del Sant’Uffizio, qualche varco c’era sempre. Il colloquio col prigioniero assumeva dunque tutt’altro valore, col rischio che egli stesso potesse divenire, volente o nolente, arbitro di una contesa giuridica internazionale di cui non ne aveva minimamente immaginato la portata. Che fare allora? Interrompere immediatamente il colloquio e informare il Santo Padre, lasciando che fosse lui a delegare i giudici più adatti, o continuare l’interrogatorio, appagando non solo la sua coscienza di giudice della fede, ma anche la sua insaziabile curiosità? Dopo qualche attimo di tentennamento, Fiorelli si decise: «Ebbene Aghirre, dovete rivelarmi tutto; è l’unico modo per voi, a questo punto, di evitare i roghi di Madrid!». «E sia eccellenza; d’altronde, sono venuto qui per questo, e so che quanto vi dirò non vi lascerà indifferente. Vi ho detto che il destinatario del primo carico era il priore del convento degli agostiniani. Ebbene, dopo la consegna, ricevetti un pagamento in denaro che davvero non mi aspettavo; il priore si raccomandò di mantenere il riserbo, e mi disse che se avessi accettato di proseguire con quell’incarico, ad ogni consegna avrei ricevuto altro denaro. In verità eccellenza, io sapevo che rischiavo di intraprendere una strada pericolosa, ma non credevo che l’Inquisizione avesse ancora così tanto potere. La possibilità di una vita meno stentata era ben superiore al timore, e dunque accettai senza riserve. Iniziò così il mio mercato clandestino di libri; i primi quattro viaggi sullo stesso itinerario, poi iniziarono ad affidarmi altre consegne, per le quali fui costretto più volte a deviare dal mio percorso solito. In effetti, dopo i primi viaggi, il guadagno era così buono e le deviazioni così frequenti che l’attività di mercante di stoffe cominciò a essere sempre meno importante. Certo, portavo sempre con me mercanzia sufficiente per potermi giustificare di fronte ad un qualsiasi controllo, ma le tappe di mercato si ridussero sempre di più, fino all’ultimo anno, dove praticamente non ricordo d’aver venduto neanche uno scampolo». «Quello che mi dite è sorprendente Aghirre, e ovviamente gravissimo. Ma chi erano i destinatari? E cosa consegnavate di preciso? Ve ne siete fatto un’idea o vi limitavate al trasporto?». «Eccellenza, voi credete che l’uomo meriti il regno dei cieli per grazia divina o per i suoi propri meriti?». «Tacete Aghirre. Questo non è argomento da trattarsi. Il Santo Padre ha proibito che si discuta di temi simili, e ha imposto il silenzio alle scuole teologiche di tutta Europa. Ma voi perché… che ne sapete di tutto ciò?». «Perché vede, eccellenza, io consegnavo i libri a un unico destinatario, sparso un po’ ovunque in Europa; l’ordine di Sant’Agostino. I libri di Baius, di Jansen, di Noris e di tutti i teologi agostiniani che hanno preso parola sulla controversia sulla grazia divina. E sapete meglio di me quanto sia aspra la polemica, e quanto essa abbia abbondantemente abbandonato il mero campo della teologia, per coinvolgere la politica, la diplomazia, insomma il potere negli stati europei in tutte le sue forme. E sapete altrettanto bene chi è il principale avversario degli agostiniani. La compagnia di Gesù…». Fiorelli era in preda all’angoscia. Si sedette, confuso e spaventato, guardando ora il cielo, ora Aghirre. Una lotta sanguinosa e senza esclusione di colpi dilaniava l’Europa e l’intero universo cattolico da decenni, coinvolgendo ordini religiosi, monarchi, segretari di stato, ministri, papi, vescovi, tribunali. La controversia sulla grazia divina, che un secolo prima aveva opposto i gesuiti all’ordine di San Domenico, aveva trovato un nuovo protagonista negli agostiniani. E quella lotta ora lo stava coinvolgendo, anzi lo aveva travolto. Ed egli era davvero troppo piccolo per poterla affrontare.
Scuro in volto, si rivolse di nuovo al prigioniero: «Dite la verità Aghirre, perché siete qui? Come siete arrivato? Chi vi ha fatto fuggire dalle carceri inquisitoriali?». «Eminenza, non è per mia volontà che sono qui. Diciamo che era l’unica possibilità che avevo di sopravvivere. Il priore del convento di Barcellona ha organizzato la mia fuga, a patto però che io avessi accettato di venire a Roma in appello al Santo Padre, che ha sempre rifiutato di ricevere una delegazione dell’ordine per evitare conflitto con la Spagna. Gli agostiniani spagnoli vogliono chiedere a sua Santità di intervenire contro la compagnia di Gesù, che da quasi quarant’anni è il vero arbitro della politica spagnola, grazie al ruolo di confessori del Re che hanno ricoperto ininterrottamente. Ogni vescovato influente, ogni membro dei collegi maggiori, ordini militari, tutto passa per l’approvazione del confessore del Re e della sua cerchia. Non hanno nemici, e i pochi che osano ancora sfidarli sono costretti a muoversi nell’ombra, come gli agostiniani appunto. Circola voce che la compagnia stia preparando un nuovo Indice dei libri proibiti, dove faranno precipitare l’intera teologia agostiniana. Eminenza, io di tutto questo ne so poco in realtà, le dico quello che mi è stato riferito e quel tanto che ho imparato leggendo qua e la nei libri che consegnavo. Avrei tranquillamente continuato il mio lavoro, se un informatore dell’Inquisizione non mi avesse scoperto. Per mia fortuna mi ero già liberato dell’ultimo carico, ma mi hanno arrestato con un pretesto qualunque, il furto dell’ostia appunto, per estorcermi una confessione. In carcere ho resistito per due volte alla tortura, perché sapevo che se avessi confessato non avrei avuto scampo. E ora sono qui, incaricato di una missione che non mi riguarda, ma che è l’unico modo per sopravvivere».
Fiorelli si rivolse alle guardie, facendo cenno di portar via il prigioniero. «Eminenza, mi sarà concesso appello di fronte a sua Santità? Eminenza, rispondete!». Fiorelli osservò il prigioniero che veniva portato via, provando una certa pena per la paura e lo sgomento che gli leggeva negli occhi, ma non rispose. Senza porre indugi, decise di recarsi immediatamente al palazzo apostolico, passando per il transetto del castello, per conferire immediatamente con sua Santità.
Giardini Vaticani, un’ora più tardi.
Il Papa stava passeggiando in giardino, intento a conferire con un architetto a cui aveva commissionato il rifacimento di alcune strade del centro cittadino, quando scorse dietro alle guardie svizzere l’avvocato dei rei, che lo osservava confidando evidentemente di essere ricevuto. Liquidato l’architetto, fece cenno alle guardie di far avvicinare il Fiorelli, che si prostrò a baciare l’anello. «Ebbene, caro Fiorelli, avete interrogato il basco? C’è da preoccuparsi?», chiese il pontefice con una smorfia. «Temo di si santità, l’affare è assai diverso e ben più complicato di quel che speravamo». «Che mi dite mai Fiorelli! E di che si tratta? Devo far arrestare l’ambasciatore spagnolo e prepararmi alla guerra?», esclamò il Papa, che dietro al sorriso forzato cominciava a temere il peggio. «Santità, forse non sarà necessario arrivare a tanto, ma il prigioniero non è affatto chi pensavamo, né il suo arresto è dipeso dal furto di un’ostia come ci era stato detto…». Fiorelli raccontò al Santo Padre il colloquio col prigioniero, omettendo ovviamente tutte le sue riflessioni in proposito. Il Papa cadde seduto su una panchina, sospirando e battendo forte con le mani sulle gambe. Dopo qualche istante di silenzio, fissò il Fiorelli con sguardo severo, e disse: «Ma voi vi rendete conto? A questo siamo arrivati! Ma gli agostiniani che pensano, che io non le sappia tutte queste cose? Lo sa cosa ha risposto il confessore del re all’ultima ambasciata che gli ha portato il nostro Nunzio a Madrid? Che doveva finirla di scocciarlo con le pretese romane, altrimenti un giorno o l’altro l’avrebbe fatto arrestare. E gli agostiniani si preoccupano della grazia, del libero arbitrio! I gesuiti sono un problema? E ce lo dovevano dire gli agostiniani? Ma quello che non capiscono è che io non posso farci niente, che i tempi non sono maturi, che la nostra influenza in Europa è sempre più debole… con chi mi alleo io se il Borbone mi fa guerra? Chi ci difenderà? Con i gesuiti prima o poi faremo i conti, forse non io, forse non chi verrà dopo di me, ma prima o poi li faremo… ma non è ancora tempo, non è ancora tempo…». «E allora, Santità? Come ci dobbiamo comportare con l’Aghirre? Che ne facciamo della sua richiesta d’udienza?». «Ma chi, il basco matto? Ma non l’avete detto forse anche voi che se un reo confesso è ignorante o, come in questo caso, completamente fuori di senno, non c’è reato d’eresia? Ignoranter, stulte et illusus peccavit! Costui è uomo sciocco, e mezzo scemo! Il mercante ha rubato un’ostia perché è uno stolto superstizioso, nient’altro. Raccomandate clemenza all’Inquisizione e mettetelo sulla prima nave per la Spagna!». «Ma, Santità…». «Ascoltate Fiorelli. Mi è stato detto di voi che siete un uomo pio e che la vostra coscienza è solida e profonda. E allora ditemi, in coscienza: potete voi permettere che per la dubbia testimonianza di un mercante qualunque si scateni una guerra? Non ne abbiamo già avute abbastanza? Badate bene Fiorelli: il tribunale della Fede che voi così scrupolosamente servite, deve difendere innanzitutto l’altare, prima ancora della dottrina. Vorreste esporre la nostra persona al rischio magari dell’incolumità stessa? Fatevene una ragione, Fiorelli. Per servire nostro Signore, dobbiamo avere la forza e la possibilità di farlo. Dando adito a questa confessione, non farete altro che far correre all’intera Chiesa gravi rischi. Non posso permettervelo, obbedite al vostro Santo Padre…». «E dunque Santità, il prigioniero…». «Sulla prima nave Fiorelli, la prima nave!».
Tre giorni dopo, Cesare Fiorelli accompagnò il convoglio che scortava il prigioniero fino a Civitavecchia, dove fu imbarcato su una galera pontificia che ogni settimana inviava la corrispondenza per il Nunzio di Madrid. Vide Emanuele Aghirre allontanarsi stancamente sul molo, tenuto ancora in ceppi. Fu tentato di rivolgergli la parola, per un ultimo ammonimento, o forse per un saluto, ma non lo fece; né il prigioniero si voltò.