di Fabio Ciabatti
“Non capite che il problema siete voi? Che in politica non conta avere ragione, ma avere successo?” Questa frase non è stata pronunciata da Frank Underwood in una puntata della fortunata serie televisiva House of Cards, ma da Pablo Iglesias, leader di Podemos, la formazione politica spagnola erede del movimento degli Indignados. La citazione è presa da un discorso – pronunciato in un’assemblea a Valladolid (vedi qui la sintesi) – in cui si fa uno sconcertante elogio di un realismo politico a dir poco spregiudicato.
A scanso di equivoci il ritorno di un orientamento realistico, dopo anni in cui la sinistra non istituzionale si è limitata a un approccio meramente etico o a un velleitarismo estremistico, può essere un fattore positivo. Soprattutto perché significa tornare a confrontarsi con il tema del potere e della sua conquista da parte di un partito che rappresenta una delle novità di maggior rilievo nel panorama politico europeo e che ha comprensibilmente suscitato molte speranze e simpatie. Ma il potere rimane una brutta bestia: troppo spesso chi crede di averlo conquistato ne rimane invece soggiogato. Per questo occorre chiedersi se l’estremo pragmatismo professato da Iglesias sia coerente con il radicalismo esibito dal suo partito.
Torniamo dunque al discorso che abbiamo citato in apertura e che continueremo ad analizzare in questo articolo. Con chi se la sta prendendo Iglesias? Lasciamogli ancora la parola: “Potete avere le migliori analisi, comprendere le chiavi di lettura dello sviluppo economico a partire dal sedicesimo secolo, capire che il materialismo storico è la via da seguire per capire i processi sociali. Ma a che cosa serve se poi ve ne andate in giro a urlare in faccia alla gente ‘siete proletari e nemmeno ve ne rendete conto’? Il nemico non farebbe altro che ridervi in faccia … Perché le persone, i lavoratori, continuano a preferire il nemico a voi”.
Tutto il discorso è impregnato da un tono di feroce sarcasmo in inquietante continuità con il clima culturale che ha pervaso gli ultimi trent’anni di neoliberismo teso a dileggiare e a distruggere sin nelle fondamenta ogni approccio classista alla politica e all’interpretazione delle dinamiche sociali. Certo, il bersaglio esplicito di Iglesias è il settarismo di ultrasinistra, ma, date certe caratteristiche di Podemos, sorge il legittimo dubbio che si tratti di un bersaglio di comodo per raggiungere trasversalmente un altro obiettivo: ridicolizzare chi fa un cattivo uso di un armamentario teorico-politico per delegittimare tout court l’armamentario stesso. Non sorprenderebbe visto quanto dice Iglesias a proposito delle prossime elezioni spagnole, cioè che “la battaglia si giocherà intorno alla questione centrale: continuità o cambiamento” (Pablo Iglesias, “Podemos,’la nostra strategia’”, Le Monde diplomatique/il manifesto, luglio 2015, p. 7).
Consideriamo una delle caratteristiche più controverse dal partito di Iglesias: l’affermazione del superamento della dicotomia destra-sinistra (sostituita da quella basso-alto che comunque fa leva su molti dei temi classici della stessa sinistra). Da una parte abbiamo a che fare con la condivisibile volontà di prendere le distanze dalla discreditata sinistra spagnola, soprattutto con riferimento al Partito socialista. Dall’altra, a mio avviso, quest’approccio può portare all’affermazione di una logica politicistica, legata a una mera contingenza che rifiuta di essere appesantita da zavorre identitarie o teoriche. Se l’unica cosa che conta è il successo, le occasioni che si presentano giorno dopo giorno vanno prese al volo, costi quel che costi. “Il nostro principale obiettivo… sono le elezioni generali di quest’autunno. Dunque, ogni decisione, ogni situazione deve essere analizzata alla luce di questo appuntamento elettorale” (ivi).
Purtroppo l’elogio del successo ci porta a dimenticare che ci può essere qualcosa di peggiore della sconfitta. Come scrive Alain Badiou “La lotta ci espone alla forma semplice del fallimento (l’assalto che non ha successo), mentre la vittoria ci espone alla sua più terribile forma: ci rendiamo conto che abbiamo vinto invano, che la nostra vittoria apre la strada alla ripetizione e alla restaurazione… Per una politica di emancipazione, il nemico che deve essere temuto maggiormente non è la repressione per mano dell’ordine stabilito. Esso è l’interiorizzazione del nichilismo e la crudeltà illimitata che può venire con la sua vuotezza” (Alain Badiou, L’hypothèse communiste, Lignes, 2009).
Esistono molteplici e illustri esempi nella storia del movimento operaio di volontaria condivisione della sconfitta: da Marx che, dopo aver frenato, appoggia pubblicamente la Comune di Parigi nonostante la consapevolezza della sua ineluttabile disfatta, al ben più tragico destino di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht che decidono di condividere la sorte segnata della rivolta spartachista.
Il punto è che si può decidere di condividere la sconfitta, anche fino alle più estreme conseguenze, qualora ci si senta parte di un corpo collettivo, di una comunità di destino, accettandone tutte le implicazioni. Il sentimento dell’appartenenza di classe può essere definito proprio in questi termini, anche se sarebbe inutile nascondersi che questo sentire negli ultimi trent’anni si è ridotto ai minimi termini nel mondo occidentale. Ma non perché siano venute meno le limitazioni che derivano dall’appartenere alle classi. Tutt’altro: la mobilità sociale in questi anni è diminuita fortemente. Quella che è venuta meno è la fiducia nella possibilità di modificare collettivamente il proprio destino. Tale speranza non può prescindere dalla capacità di metabolizzare collettivamente le sconfitte e di viverle come fallimenti momentanei, parziali, che possono dare il la a nuove battaglie per conseguire in prospettiva la vittoria. La sconfitta può essere infatti un momento rivelatore: al di là degli errori soggettivi, essa, come ci ricorda Slavoj Žižek, ci mette di fronte al sistema come totalità e ai limiti concreti che esso ci impone, agli oggettivi rapporti di forza.
La convinzione che le classi non esistano più ci separa dunque dal senso di condivisione di un destino. Ciò può condurre all’assolutizzazione della logica meramente politica e al mero elogio del successo. Non a caso Iglesias non fa mistero di ispirarsi a un pensatore come Ernesto Laclau, per il quale la razionalità politica sembra agire in una sorta di caos primordiale in quanto presuppone un sociale antagonistico caratterizzato da un’insopprimibile eterogeneità. In qualche modo per Laclau vale quanto sosteneva Margaret Thatcher: “la società non esiste”. Soltanto che mentre per la Lady di ferro esistevano solo gli individui e le famiglie, Laclau concepisce una molteplicità di gruppi che si costituiscono, si alleano e si contrappongono secondo logiche meramente politiche. Presupposta una pluralità di gruppi sociali con richieste tra di loro in conflitto, la costituzione di un popolo, l’atto politico in senso proprio secondo Laclau, avviene attraverso la costruzione di una catena di equivalenze tra le diverse domande insoddisfatte che, di fronte a un potere istituzionale ostile, costituisce una frontiera antagonistica dicotomica. L’elemento decisivo per l’unificazione delle domande è comunque l’emergenza di un significante vuoto, termine lacaniano con cui Laclau intende una domanda particolare che in maniera contingente assume il valore dell’universalità: possiamo parlare di un’idea forza sufficientemente ambigua da poter essere interpretata in modo compatibile con le differenti domande, ma capace di suscitare un investimento affettivo sufficientemente forte da supportare un’articolazione egemonica. La politica di classe di ascendenza marxiana altro non sarebbe quindi che una delle possibili costellazioni egemoniche affermatesi nell’ottocento e nel novecento. Di conseguenza non è in alcun modo necessario cercare di riprodurla o attualizzarla alle presenti condizioni storiche.
In sostanza per Laclau la società non può essere oggetto di totalizzazione (in questo senso anche per lui la società non esiste). Potremo dire anche che non è possibile rappresentare la società nel suo complesso come un sistema organico con le sue leggi di sviluppo, tali da definire a priori, per quanto astrattamente, interessi comuni di classe e potenziali alleanze. Laclau infatti sostiene che, in senso proprio, non si può parlare di capitalismo quale realtà oggettiva: di fatto “il ‘capitalismo’ è una costruzione del movimento anticapitalistico” (Ernesto Laclau, La ragione populistica, Laterza, p. 226).
Ha un che di paradossale affidarsi a un pensiero che nega l’oggettività del capitalismo quando questa s’impone trionfalmente, con poche eccezioni, come minimo da trent’anni; quando decenni di vittoriosa lotta di classe dall’alto della borghesia hanno peggiorato nettamente le condizioni di vita delle classi lavoratrici senza riuscire ancora a soddisfare la necessità di sfruttamento del lavoro da parte del capitale – perché questa è oggettivamente senza fine. Lo scoppio di una crisi capitalistica devastante nonostante il trionfo della borghesia ci ricorda ancora una volta che il sistema si scontra con le sue contraddizioni oggettive o, per dirla con Marx, che il limite del capitale è il capitale stesso.
Assumere fino in fondo questi dati significa comprendere che ogni ricerca del compromesso con il capitale si muove su un terreno quanto mai fragile e che, oggi più che mai, occorre prendere di petto la logica del sistema nel suo complesso. Un obiettivo da fare tremare i polsi, di fronte al quale spesso ci si rifugia in una sorta di rimozione che impedisce di vedere e tematizzare la realtà per quello che è. Ma ogni rimozione ha il suo prezzo: ciò cui si nega l’esistenza continua a sussistere indisturbato e viene assunto implicitamente come dato di fatto non trascendibile. A tal proposito Žižek afferma: “La politica post-moderna ha sicuramente il grande merito di ‘ripoliticizzare’ una serie di domini prima considerati ‘apolitici’ o ‘privati’; ma resta nondimeno il fatto che ciò, in realtà, non ripoliticizza il capitalismo, in quanto il concetto e la forma del ‘politico’, entro cui tali politiche operano, sono fondate sulla ‘depoliticizzazione’ dell’economia” (in Judith Buthler-Ernesto Laclau -Slavoy Žižek, Dialoghi sulla sinistra, Laterza, p. 99).
Dopo questo lungo giro teorico, torniamo al discorso di Iglesias citato in apertura. “Pensate che avrei qualche problema ideologico nei confronti di uno sciopero selvaggio di 48 o di 72 ore? Neanche per idea! Il problema è che organizzare uno sciopero non ha nulla a che fare con quanto grande sia il desiderio mio e vostro di farlo. Ha a che fare con la forza dei sindacati, e sia io che voi siamo insignificanti in materia… In questo paese ci sono solamente due sindacati che hanno la capacità di organizzare uno sciopero generale: la CCOO e la UGT [sindacati “confederali” spagnoli – ndr]. Mi piacciono? No. Ma così è come stanno le cose, e organizzare uno sciopero generale è molto difficile… La politica non è ciò che io o voi vogliamo che sia. È ciò che è, ed è terribile. Terribile. Ed è per questo motivo che dobbiamo parlare di unità popolare, ed essere umili”.
Il discorso di Iglesias è ancora una volta ambivalente. Da un parte abbiamo, di nuovo, a che fare con un sano realismo; dall’altra, il realismo rischia di trasformarsi in una rinuncia ad aggredire il fondamentale nodo dei rapporti tra capitale e lavoro. Se siamo ininfluenti su questo piano, come dice Iglesias, dislocare la prassi politica interamente sul piano dell'”unità popolare” (il popolo di Laclau) e, in ultima istanza, su quello della contesa elettorale, è la risposta giusta? Non è un caso che Podemos preferisce parlare della Casta piuttosto che del capitalismo. È vero che la versione podemista delle Casta ha una caratterizzazione politico-economica, mentre quella grillina ha una connotazione esclusivamente politica. Ma si tratta di un mero cambio di linguaggio ai fini dell’efficacia comunicativa? Oppure abbiamo a che fare con un sostanziale cambiamento concettuale che porta a rimuovere il problema dei problemi, ovvero il capitalismo?
“Qualcuno una volta ha detto che è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”, ci ricorda Fredric Jameson (New Left Review, n. 21, maggio-giugno 2003, p. 76). Lo stesso vale anche per una delle più radicali espressioni della politica contemporanea europea? A tale proposito, al di là di ciò che questo partito dice di sé, può essere utile guardare a quello che effettivamente fa, prendendo in considerazione le forme organizzative scelte, perché queste hanno un forte legame con gli obiettivi concretamente perseguiti. Anche da questo punto di vista Podemos ha una connotazione ambivalente. Da una parte il partito di Iglesias, “accoglie molto dei modelli politici dominanti: marketing, comunicazione, leaderismo, maggiore attenzione ai media che al radicamento territoriale, un uso quasi ‘aziendale’ della Rete che allarga le possibilità di partecipazione (a colpi di click) della base, rendendola però quasi del tutto ininfluente sulle decisioni del vertice” (Loris Caruso, “Più di Podemos vince il modello Barcellona”, il manifesto, 25.5.2015). Si tratta insomma di un modello costruito per vincere le elezioni, ma difficilmente adatto per realizzare, una volta al governo, cambiamenti veramente radicali. D’altra parte, lo stesso Podemos nelle elezioni amministrative che lo hanno visto vittorioso grazie alle coalizioni elettorali con i movimenti sociali, ha adottato una forma organizzativa che non rifiuta del tutto questi meccanismi presi a prestito dai modelli politici dominanti, “ma li integra con ciò che essi escludono: la mobilitazione, il conflitto, il radicalismo, la centralità del sociale, il coinvolgimento attivo e costante della base già militante e di quella potenziale” (ivi).
Personalmente dubito che i due modelli possano essere meramente giustapposti. L’oggettiva difficoltà di riprodurre sul piano nazionale quello che è riuscito a livello locale conferma la problematicità di questo meccanico accostamento. Molta strada si dovrà ancora fare per trovare delle soluzioni soddisfacenti a questo problema. Ma non partiamo da zero. Credo si possa dire che le sperimentazioni più avanzate sul terreno della sinergia tra forze politiche, sindacali e movimenti sociali si trovino nell’America Latina degli ultimi vent’anni. Sarà forse un caso che proprio lì si è cominciato parlare di Socialismo del XXI secolo iniziando a prefigurare, pur tra mille incertezze e difficoltà, la fine del capitalismo, piuttosto che la fine del mondo?