di Luca Baiada
Ci sono riusciti. Dalla facciata del municipio di San Miniato sono state rimosse le lapidi sulla strage del 1944, e da un’amministrazione comunale di centrosinistra. S’era sentito che tirava aria cattiva già a luglio 2014, per il settantesimo, quando un dibattito in una festa locale era stato annunciato e all’ultimo momento revocato. I più tenaci custodi della memoria, a San Miniato e nel Valdarno, avevano fatto intendere che non sarebbero stati zitti; e allora niente discussione, meglio i brigidini e lo zucchero filato.
Poveri morti, il 22 luglio 1944 nel Duomo. Almeno 55, ma la cifra vera non s’è mai saputa. I feriti furono portati lontano, andarono a morire chissà dove, e la guerra è così, più forte coi più deboli, e anche più distratta. Alcuni erano bambini, tutti erano italiani. Il fronte era vicinissimo, un mare di sfollati aveva raggiunto l’entroterra, soprattutto da Pisa e Livorno, bombardate e senza difese. Mussolini aveva promesso di fermare gli Alleati sul bagnasciuga, e infatti a luglio 1944 erano già a Roma e oltre. Forse voleva dire battigia, ma che importano le parole.
Già, le parole. A ricordare il massacro c’erano due pietre, sulla facciata del municipio sanminiatese, una messa nel 1954 e l’altra nel 2008: una per la responsabilità tedesca della strage, l’altra per quella americana. Ma attenzione. La contesa è in maschera, perché accusare i tedeschi significa parlare anche del comportamento del vescovo, Ugo Giubbi: durante il fascismo così compromesso col regime da fare clamore anche all’estero; dopo la Liberazione così screditato da avere difficoltà a presentarsi in pubblico; da vivo c’era gente che gli sputava addosso, e da morto solo l’intervento dei carabinieri impedì un falò di festa. Soprattutto, quel giorno di luglio 1944 il vescovo fu presente in chiesa, nella sua cattedrale, fino a poco prima della strage, avvenuta alle dieci di mattina; poi sparì e tornò in chiesa solo alle cinque di pomeriggio.
Accusare gli americani, invece, significa accusare i partigiani, con un crescendo di gravità, a partire dagli anni Cinquanta: all’inizio si disse che era stata l’artiglieria alleata, poi che i partigiani erano venuti a saperlo, ma avevano taciuto. Poi si è detto che l’avevano sempre saputo, che lo sapevano quel giorno stesso, perché collaboravano con gli Usa. E poi, furbescamente, di recente si è suggerito che gli stessi partigiani dirigessero il tiro, trasmettendo apposta le coordinate della chiesa, e che volessero la strage. Ecco un caso di contesa memoriale di lungo periodo, in cui il fronte antipopolare ha avuto l’astuzia di instillare il veleno un po’ alla volta. Adesso che le due lapidi sono state rimosse, si ha buon gioco a far passare il ricordo della responsabilità tedesca come una pausa, un periodo di scarabocchi sui muri, che tramonta quando nel XXI Secolo si profila l’egemonia della Germania in Europa, e all’impegno della memoria si preferisce un’illusoria tabula rasa, una regressione all’età dell’innocenza. Insomma, bambini, dal 1954 al 2015 sulla facciata del municipio, a San Miniato, c’era scritto qualcosa. Sì, signora maestra, ma cosa? Quel qualcosa di qualcuno contro qualcun altro… boh. Ma in fondo via, sono tutti uguali, si vive in un mondo difficile, e meno male che ci sono il vescovo e l’impero.
La decisione del Comune ha un sapore più amaro se si legge il comunicato dell’8 aprile 2015: «I tempi sono maturi – ahi ahi – […] è stata fatta opportuna chiarezza, – e da chi? – non ci sembrava opportuno che rimanessero affisse ad un edificio istituzionale per eccellenza – giusto, meglio scriverci “divieto di affissione” – Avere accertato come siano andati realmente i fatti, è il riscatto che i familiari di queste 55 vittime hanno avuto dalla giustizia – nessun colpevole condannato, nessuna vittima risarcita: quale riscatto? – […] Togliere le lapidi per ricollocarle in un posto più idoneo, come il futuro Museo della memoria, […] potrebbero acquisire un senso maggiore per chiunque le legge, se collocate in un luogo idoneo». Il succo di tutto questo sembra un rovescismo storico: le lapidi sono state tolte, ma si finge che siano state valorizzate, perché forse andranno in un museo memoriale. Il museo non esiste ancora, e perciò qualcuno dice che intanto potrebbero stare in un chiostro nel centro della cittadina. Una bella lampada sotto il moggio, amen.
Certo, c’è una vocazione turistica della zona: alla clientela tedesca piacciono il vino, il cacio e i tartufi, ma non la memoria delle stragi del Valdarno, che sia San Miniato, o il Padule di Fucecchio, o Piavola di Buti, o Artimino, o uno qualsiasi dei massacri con cui i nazifascisti hanno lasciato i segni del loro passaggio. Sono suscettibili, certi tedeschi: se vengono a sapere che San Miniato un tempo si chiamava San Miniato al Tedesco, magari possono chiedere il ripristino del nome. Intanto non saranno disturbati da muri impertinenti e troppo vistosi. Piero Calamandrei, in un discorso tenuto in Versilia nel 1954:
«Oggi, su queste riviere tornano a migliaia i turisti tedeschi, e sulle spiagge e su per i monti dove passano in gita gli escursionisti, voi riconoscete in questi visitatori, dall’apparenza così cordiale, l’idioma inconfondibile di coloro che dieci anni fa, su queste stesse strade, vestiti da guastatori, davano ordini di devastazione e di sterminio».
Dopo due indagini americane nel 1944, un’inchiesta del Comune dopo la guerra e un’altra sempre del Comune nel 2004, e un procedimento penale (ma archiviato nel 2002 senza imputati e senza dibattimento), nel 2015 arriva la soluzione peggiore: via le lapidi, e buone vacanze alla memoria, proprio per i settant’anni della Liberazione in Italia.
Invece è da ricordare, la scritta dettata da Luigi Russo nel 1954, per il decennale: la responsabilità è della Germania, è stato un «gelido eccidio», con ferocia «attilesca». E ci sono toni battaglieri: «Lo straniero di ogni parte sia sempre tenuto lontano delle belle contrade rifiutando ogni lusinga o d’aiuto o d’impero». Ma la censura comincia subito: siamo nei rigidi anni Cinquanta, alla Germania è concesso il riarmo, la Nato è fresca di conio. Gli italiani devono essere fascisti rancorosi e manipolabili, oppure agnostici, o meglio immemori. Nessuna altra opzione. Così il prefetto di Pisa toglie la parola «attilesca» e tutta la frase sulle belle contrade. La scritta è purgata, ma almeno c’è. Passa mezzo secolo, e nel 2008 arriva l’altra lapide, un pentimento: sono stati gli americani, e poi via, «è la guerra». Ecco ancora la colpa che va a bilanciare il dolo, con la responsabilità che si spalma su tutti, ed ecumenicamente tutto assolve.
Da tempo, ormai, si discuteva su cosa fare, perché le due lapidi si contraddicevano. Toglierle entrambe è la soluzione peggiore: un muro ignavo, che agli ignoranti non dice nulla, e a chi sa come andarono le cose ripete una verità imbarazzante: la seconda lapide era un passo subdolo per togliere la prima, come un filo stretto a un bubbone per aspettare che secchi e caschi giù: sette anni di attesa, ma ha funzionato. Era dagli anni Cinquanta, da quella ferocia attilesca e da quel monito a difendere le belle contrade e a rifiutare le lusinghe, era da quelle parole indigeribili per i nemici del popolo italiano, che aspettavano di tirare giù la lapide di Luigi Russo: le hanno aggrappato l’altra pietra, come si mette un peso ai piedi di un impiccato.
Sarebbe contento, adesso, il prefetto di Pisa del 1954: non solo quelle parole sono state cancellate, ma tutto. Sarebbe contento, quell’Enrico Giannoni che nel 1954 sostenne la tesi della responsabilità americana: parere autorevole, un canonico. Sarebbero contenti, i benpensanti che nel 1982 si scandalizzarono per il film La notte di San Lorenzo, dei fratelli Taviani: pellicola benevola, che mostra il vescovo in chiesa al momento della strage, mentre nel 1944 se n’era andato, lui, lasciando ai fedeli immaginette di carta.
Senza persone, senso e storia non ci sono belle contrade, solo fondali dello svago e del consumo.