di Giovanni Iozzoli *
Antonello Petrillo (a cura di), Il silenzio della polvere. Capitale, verità e morte in una storia meridionale di amianto, Mimesis/Cartografie sociali, Milano, 2015, 238 pagine, € 18,00
La storia che è al centro del saggio Il silenzio della polvere è tragicamente esemplare – una storia di operai e territori avvelenati da lavorazioni assassine. Le cronache e la letteratura sociologica di questo paese, sono piene di storie così. Il maledetto amianto poi, ha seminato e continua a seminare morte ovunque. Ma nella vicenda Isochimica, narrata nel libro curato da Antonello Petrillo, c’è qualcosa che “eccede” il già visto, un quid di violenza, una matrice di cinismo e crudezza, che colpisce al cuore il lettore. E questa matrice è il contesto di “colonialismo interno”, entro cui la vicenda si sviluppa. Un territorio e le giovani vite che lo animano, mandate scientemente al macello perché considerate “minori” e “immediatamente disponibili”, al consumo capitalistico.
Usando tutte le armi della sociologia critica – l’inchiesta operaia, la conricerca – Petrillo riesce a condurre un’indagine che si legge come un romanzo. Una storia di amianto diventa lo snodo di molti piani di indagine e riflessione che si sovrappongono: il rapporto Nord/Sud, il rapporto tra nuda vita e valorizzazione capitalistica, la terribile potenza dei blocchi sociali di consenso che si creano intorno al governo emergenziale dei territori. Il contesto in cui tutto nasce e matura è l’Irpinia terremotata e affamata di lavoro dell’inizio anni ’80. Quale posto migliore per installarci la più mortifera delle lavorazioni – la rimozione dell’amianto dall’intero parco ferroviario italiano? Avellino si presta all’opera. Molte giovani braccia disoccupate, bassissimo livello di coscienza sindacale e civile, una cappa soffocante di conformismo e clientela. Una specie di terzo mondo domestico. Sarà lì che le FS dirotteranno, negli anni, centinaia di carrozze e locomotori da ripulire dalle pannellature di amianto; le maestranze sindacalizzate delle FS non hanno voluto saperne, di quel tipo di lavoro – e comunque imporrebbero costi di sicurezza e smaltimento elevati; da quel rifiuto si avvia l’esternalizzazione di appalti e rischi, che nei 30 anni successivi diventerà la norma. Centinaia di carrozze e locomotori saranno dirottati negli anni verso la minuscola stazione di Avellino, dove un oscuro imprenditore cresciuto nel sottobosco degli appalti ferroviari, l’ing. Graziano, otterrà l’incarico di ripulire dall’amianto i treni italiani, senza alcuna credenziale, senza nemmeno le autorizzazioni formali delle istituzioni locali.
Molte le pagine dure e crude di quella che solo formalmente è un’inchiesta socio-etnografica. La scena del reclutamento, ad esempio, è atroce: in un pomeriggio di ottobre, dentro un piazzale affollato di disoccupati, il padrone arriva in Mercedes e chiede solo ai giovanissimi di fare un passo avanti; saranno assunti immediatamente – sono loro i privilegiati, in un’assurda selezione generazionale, che fa affidamento sui tempi lunghi di incubazione del ciclo dell’asbestosi. Da allora comincia il lavoro. Decine di giovani, figli dei quartieri periferici o dei campi baraccati, senza alcuna coscienza di rischi e diritti, cominceranno la battaglia a mani nude contro quintali da amianto da rimuovere: in jeans, maglietta e spatola, senza dispositivi, senza protezione, dentro vagoni bui in cui le fibre ti ricoprono di una mortifera coltre bianca. La polvere maledetta la porteranno a casa, dalle loro famiglie, nel loro quartiere. Per un primo periodo, la scoibentazione si svolge addirittura sui binari della stazione, a due passi dai pendolari e dagli studenti che l’affollano nelle ore di punta.
Intorno, un’intera città farà finta di non vedere, di non capire. Il miraggio del lavoro a tutti i costi, il clientelismo di massa, la compravendita degli attori sociali e dei controllori istituzionali – ogni tessera del mosaico si incastra alla perfezione, compresa l’abilità del padrone, che sa agire ricatto sociale, corruzione e paternalismo con maestria. L’ing. Graziano diventerà anche il padrone dell’Avellino calcio; un connubio mefitico (calcio, business, consenso) che per gli avvelenati si tradurrà in qualche abbonamento-omaggio; per i sindacati tacita connivenza; per i politici attiva collaborazione. Tutti hanno da guadagnarci. Gli stessi operai, non sappiamo con che grado di incoscienza, preferiscono ignorare il rischio tremendo che incombe sul loro futuro. Soprattutto per i più giovani, l’idea di una busta paga è troppo attrattiva per quei tempi e quei territori. È lo stesso meccanismo devastante per il quale, proprio in quegli anni, si intensifica il ruolo della Campania come sversatoio dei rifiuti del nord industriale: epopea in qualche modo parallela, medesima dinamica propriamente coloniale, gestita col presidio di un gruppo di comando esteso e pervasivo.
Quando alcuni giovani operai (ma sono già passati alcuni anni di avvelenamento) acquisiscono informazioni sul pericolo mortale in cui svolgono le loro prestazioni ed iniziano ad agitarsi, si scoprono soli ed impotenti. La città li isola, li stigmatizza, addirittura: stanno violando le regole del gioco, stanno mordendo la mano generosa che gli da tutti i mesi da mangiare (e tiene in piedi un largo sistema corruttivo a cui nessuno intende rinunciare). La vicenda Isochimica ci cala prepotentemente dentro gli anni frenetici del dopo terremoto irpino: un cataclisma che improvvisamente precipita dentro una “cattiva modernizzazione” uomini, donne, territori, comunità e istituzioni. Il laboratorio irpino diventerà il primo grande cantiere in cui l’emergenza diventa dispositivo di governo. Ed è utile riflettere sul presente, sugli elementi di continuità tra quel blocco di potere e la realtà attuale, tra la sua pervasiva capacità di legare insieme interessi grandi e piccoli, legalità e criminalità, stato e mercato: un blocco di potere formidabile che governerà un mostruoso impasto di eroina, munnezza, calcestruzzo e consenso sociale, ridisegnando in un decennio la storia del nostro mezzogiorno. L’ing. Graziano, con l’amianto interrato sotto al cortile della fabbrica (e in chissà quanti altri siti abusivi) sta dentro quell’idea di modernità che prevalse allora, prepotente. E anche i morti di oggi, gli ammalati innocenti, le bonifiche mai avviate, stanno in questa specie di foto scattata al passato e al presente del nostro mezzogiorno.
“Il lavoro era faticoso, ma nelle pause si scherzava, eravamo tutti giovani, si parlava di fidanzate, del matrimonio che grazie a questo lavoro sembrava possibile. Seduti sui gradini delle carrozze dei treni, piene di polvere d’amianto, mangiavamo il nostro panino, un caffè, poi si tornava a grattare”
Petrillo e il suo collettivo di lavoro (l’Unità di Ricerca Topografie Sociali) vivono e condividono l’esperienza di una comunità ferita e delusa, in cui chi lottò al momento giusto fu isolato e minoritario, e le voci di oggi restano flebili e inascoltate. Più che alla lettura di un’inchiesta sociologica, il lettore è invitato a calarsi dentro la vita e la sofferenza, guidato dagli “speleologi” dell’Urit, che scandagliano tutto, territorio, media, comunità, esistenze dissestate. La malattia dei contaminati come grande metafora della malattia del nostro sud.
Due parole vanno spese sul curatore, docente presso l’Università Suor Orsola Benincasa, che si occupa da anni “dei dispositivi entro cui si articola materialmente la governamentalità tardo liberale di popoli e territori”, già autore di un testo fondamentale (Biopolitica di un rifiuto) sull’epopea della munnezza in Campania. Quella di Antonello Petrillo è un’anomala figura di intellettuale che ha scelto di non vendere il suo valore scientifico e le sue consolidate relazioni internazionali al miglior offerente, bensì offrirle ai movimenti della resistenza e dell’indignazione. Trovare gente così a Ballarò è difficile; incontrarli nelle piazze delle mille emergenze italiane, a schierarsi, studiare e condividere, è invece assai frequente.
Un libro da leggere, non per specialisti. Con alcuni frammenti struggenti. Come quella foto di gruppo scattata in una pausa caffè, dentro un vagone pieno d’amianto, con cinque o sei giovanotti sorridenti che scherzano, in posa. È il 1983. La didascalia non racconta niente del loro destino.
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* [Giovanni Iozzoli ha trattato, in forma di romanzo, nel suo I terremotati, Manifestolibri (2009) – recensito da Carmilla – l’immediato dopo-terremoto irpino, narrando delle comunità lacerate, dei rapporti sociali saltati, di una terra alla prese con quella malamodernizzazione forzata del Mezzogiorno che ha tragicamente ridisegnato, in peggio, territori e vite di cui i media non parlano] (ght)