di Gioacchino Toni
Giovanni Feliciani, Vivere al ritmo della radicalità nella storia, Bibliosofica, Roma 2015, pp. 482, € 20,00
Non è facile esporre in maniera sintetica quanto contenuto nel corposo ultimo testo scritto da Giovanni Feliciani. Si tratta di un’opera filosofica che rinuncia alla canonica mole di note, citazioni e puntuali riferimenti bibliografici, al fine di non appesantire una narrazione che così, liberata dai dettami della saggistica, conquista maggiore fluidità, dando luogo, per certi versi, ad una narrazione diaristica in cui le riflessioni personali si calano sulla, ed oltre la, realtà dei nostri giorni. Si potrebbe dire che “Vivere al ritmo della radicalità nella storia” è un autoritratto dell’autore, un ritratto della sua individualità, del suo pensiero rivendicato, orgogliosamente, come unico ma che non rinuncia alla ricerca di altre unicità. Un autoritratto in cui il fondale non è annullato dalla monocromia.
L’autore è mosso dalla necessità di scagliarsi contro l’omologazione imperante che nega all’individuo di esprimersi e di vivere in quanto tale. Nell’esprimere la radicalità del proprio pensiero, Feliciani ricorre raramente ad invettive roboanti, a queste preferisce un’argomentazione più pacata, si potrebbe dire linguisticamente educata, quanto determinata.
Nel corso della lettura del testo, dopo qualche decina di pagine, un’immagine, proveniente da ben altri lidi, si è imposta con forza davanti agli occhi: Sera sul viale Karl Johan (1892) di Edvard Munch. Nella celebre opera del pittore norvegese vediamo una sorta di passeggiata-processione dovuta, in onore del dio-convenzione, ove un serrato, quanto alienato, gruppo di esseri umani cammina nella medesima direzione. È probabilmente la passeggiata del giorno di festa, in cui ci si sente in dovere di mascherarsi come si conviene per l’occasione e procedere agghindati di tutto punto lungo il viale principale cittadino, senza farsi, né fare, troppe domande. È uno di quei momenti in cui si scava la buca per poi ricoprirla, con l’aggravante che in questo caso nessuno l’ha imposto. È la consuetudine a richiederlo. È il sonno del desiderio, prima ancora che della ragione, a permetterlo. Sul lato opposto della strada una figura solitaria cammina in direzione opposta alla massa alienata, solitaria come chi subisce l’emarginazione per la sua diversità ma, al tempo stesso, come chi intende, orgogliosamente, procedere in solitudine. Feliciani insiste spesso nel suo testo sulla necessità di “chiamarsi fuori”, di isolarsi, se necessario. Si tratta di un isolamento che confida nell’incontro con altri “isolati”, altri emarginati dalla massa che procede coi paraocchi. L’isolamento a cui è costretto ed in cui si rifugia deliberatamente e necessariamente l’essere umano pensante, consapevole, orgoglioso di un’identità piena ed emarginante, elogiato da Feliciani, trova davvero immagine nel dipinto norvegese.
L’autore, nel corso della trattazione, torna più volte su alcuni concetti, ripetendoli in maniera insistita. Anche in questo caso è possibile ricorre ad immagini capaci, per analogia, di sintetizzare la logica della ripetitività riscontrata nel monumentale saggio. Si tratta delle immagini delle esplosioni di Zabriskie Point (1970) di Michelangelo Antonioni. La celebre sequenza cinematografica mostra più volte l’esplosione, ripresa da punti di vista differenti. Allo stesso modo Feliciani ribadisce più e più volte alcuni concetti, la necessità di un cambiamento radicale, di far tabula rasa di una società falsa, ipocrita e soffocante l’individuo e, come la sequenza del film, ogni volta in cui, nel corso delle quasi cinquecento pagine, torna a ribadire tali necessità, le riafferma da un’angolazione leggermente diversa rispetto alle precedenti. Avrebbe potuto essere più sintetico ma perché limitare il flusso dei pensieri? Perché imporre la sintesi al flusso di parole che, prima di tutto, è dar voce, in forma scritta, ad un pensiero che non intende, e non può, sottostare a logiche di economia? Che almeno si lasci libero il pensiero di esprimersi in libertà sottraendolo dal tempo imposto dal quotidiano al fine di conquistare ed istituire un perpetuo tempo liberato dedicato allo sviluppo pieno dell’individuo.
L’autore non intende calarsi nel solco della filosofia accademica, a questa preferisce quella che definisce “filosofia povera”, priva dei mezzi, composta da temerari che si dedicano allo studio individuale al fine di migliorare se stessi, dunque l’esistente. L’opera di Feliciani è un inno all’individualismo in cui si sentono Nietzsche e, soprattutto, Stirner. Un atto di guerra nei confronti dello stato, del potere diffuso, delle forme di manipolazione, dell’illusionismo della politica e della religione.