Vivian Abenshushan, Fate fuori il vostro capo: Licenziatevi!, trad. Francesca Bianchi, Eris Edizioni, Torino, 2015, pp. 304, € 18.00
Quanto è facile criticare con le parole il lavoro e quanto è difficile metterlo radicalmente in discussione nella pratica? Chi di voi, magari con famiglia da mantenere, si licenzierebbe dal proprio posto di lavoro per dedicare la sua vita a ciò che più le piace o gli piace. Pochi, pochissime, lascerebbero le certezze di uno stipendio mensile per l’incertezza di un reddito e la speranza di un po’ di felicità. «In qualche modo bisogna pur vivere» risponderebbero i più davanti a una simile provocazione. Ma è vivere passare otto ore al giorno della propria esistenza a fare cose che ci disgustano, che non ci interessano, che ci rendono indifferenti? Quando – se siamo fortunati – non ci intossicano, non ci deformano le carni o ci uccidono?
Siamo a un punto di non ritorno. Il lavoro come lo intendiamo oggi è un’autentica privazione delle libertà personali. L’arciusata espressione “tempo libero” dovrebbe farci riflettere. Il lavoro è il tempo dell’imposizione, della non scelta, della costrizione. Non sappiamo neppure più cosa sia il “tempo libero”. Forse è il tempo delle vacanze estive, della pausa pranzo, della cena, dell’accompagnare le figlie a scuola, del sonno e del sogno: la «lunga attesa del fine settimana eterno». Solo pochissime, i più fortunati, le eccezioni, possono permettersi di far coincidere il tempo del piacere con il tempo del lavoro.
Vivian Abenshushan, scrittrice ed editrice messicana, a 33 anni si licenzia da caporedattrice di una rivista e rinuncia alle prospettive di una possibile carriera accademica, fonda Tumbona Ediciones («una cooperativa senza capo, senza orari, senza ufficio e presumibilmente senza soldi») e inizia a dedicare gran parte del suo lavoro culturale alla sistematica messa in discussione di un’etica del lavoro sfruttatrice e ingannevole. Fate fuori il vostro capo: Licenziatevi! è il tentativo fieramente incompleto di scalpellare con le armi della cultura un immaginario in cui il lavoro occupa lo spazio della vita, determinando l’identità degli individui stessi. Un libro ibrido ed espanso – come il Laboratorio de Escritura Espandida da lei creato, multidisciplinare e transmediale –, sviluppatosi sul web e in continuo aggiornamento. Grazie a Sur+ e Eris questo progetto ha trovato nella carta stampata uno degli spazi di espressività per decolonizzare l’immaginario gerarchico e mortifero che permea il mondo del lavoro.
L’autrice definisce a più riprese quest’opera un controsaggio, ma se vi aspettate di imbattervi in un testo che usa gli strumenti accademici tradizionali per criticare la quotidianità del lavoro rimarrete delusi. Sia nella forma che nei contenuti questo libro aspira ad «unire ciò che è stato fallacemente diviso e allontanato e disgiungere ciò che è stato fallacemente avvicinato». Sosteneva questo bisogno anche Luther Blissett, a cui è dedicato un paragrafo del libro, riprendendo una frase di Bachtin. Lo stile narrativo, l’anarchia come organizzazione, l’eccentrismo nel senso letterale del termine che pervadono questo testo permettono al lettore di entrare nella narrazione in prima persona: non c’è una fruizione passiva o frontale dell’opera ma partecipata e inclusiva. Ci siamo dentro tutti al meccanismo, nessuno può chiamarsi fuori.
La rielaborazione di numerosissime citazioni (Basho, Baudelaire, Chuang-Tzu, Fourier, Russel, J. K. Jerome, Stevenson, Wilde, Unamuno, Marx, Larbaud, Woodcock, Yutang, Bukowski, Kerouac, Huizinga, Marcuse, Hakib Bey, Dada, Tiqqun, Villon, Diogene, Seneca, Epicuro, Lafargue, Adorno, Arlt, Cage, i fratelli Cohen, Debord, Vaneigem, Onfray, Barthes, Thoreau, Walser, l’Internazionale Situazionista, il Comitato Invisibile, San Precario, Russel, Cioran, Luther Blissett, Wu Ming e molti altri) si alterna al frammento o all’elogio della digressione. L’impaginazione tradizionale a tratti salta per lasciar spazio a una nota a margine che dura un intero sottocapitolo, in cui segni grafici a forma di bicicletta e mouse si alternano tra i frammenti; o all’apertura improvvisa di spazi nelle righe di testo, come a suggerirci di prendere tempo, riflettere tra una frase e l’altra, tra una parola e l’altra. Non siamo più giustificati – né noi, né il testo – a correre nella lettura e divorare freneticamente il nostro ozio, ma invitati a godere con la calma necessaria della nostra libera lettura.
Appassionate accuse all’orologio («Che cos’è l’orologio? Un modo per frazionare l’esistenza in frammenti delimitati e attività regolamentate. Un oggetto d’arredamento con funzioni poliziesche») e all’aspirina («L’aspirina inibisce i momenti di ozio e non solo crea dipendenza ma il suo uso è consigliabile come fare aerobica senza sottrarre ore all’ufficio») convivono poi, in feconda coabitazione, con critiche incisive al turbocapitalismo e alle logiche di mercato che fagocitano il mondo del lavoro e i suoi abitanti. Tra di loro c’è chi si ribella, ribaltando con creatività paradigmi consolidati e proponendo nuove forme di esistenza e convivenza. È così che un intero capitolo è dedicato a quella che può essere definita la Confraternita dei Fratelli della Costa dei giorni nostri, coloro che disobbediscono: hackers, agitatori, blissettiani, ostinati osteggiatori del copyright, freegans, devoti di San Precario e della Church of Life After Shopping, fedeli al Grande Lebowski e tanti altri. Tutta gente che lotta per un cambiamento radicale della realtà, che affondi le sue radici in un mutamento dell’immaginario e delle pratiche collettive. Le 8 ore lavorative al giorno, non sono solo un diritto calpestato, ma oggi non possono più essere considerate una conquista dei lavoratori e delle lavoratrici, dal momento che sono a tutti gli effetti ore defraudate alla vita e alle libertà personali degli individui.
Bukowski non aveva dubbi in questione: «Come diavolo può un uomo [o una donna] essere contento di farsi svegliare alle 6:30 di mattina da una sveglia, saltar giù dal letto, vestirsi, mangiare in fretta, cacare, pisciare, lavarsi i denti e pettinarsi, e combattere contro il traffico per arrivare in un posto in cui essenzialmente fai un sacco di soldi per qualcun altro e ti chiedono pure di essere grato per averne l’opportunità?».