di Alessandra Daniele
In qualsiasi talk show, chiunque stia parlando – un presidente, un premio Nobel, il superstite ad una strage – qualunque sia l’argomento in discussione – una guerra, una crisi economica, una riforma costituzionale – c’è sempre un momento, di solito ogni dodici minuti, nel quale il conduttore o la conduttrice lo interrompe in modo categorico ed irrevocabile, dicendo “devo mandare la pubblicità”.
A volte la chiama addirittura “il tassativo”.
Di solito l’ospite non protesta più di tanto, al massimo chiede che al rientro in studio gli venga consentito di finire il suo ragionamento, cosa che non succede quasi mai.
E parte la pubblicità.
Più o meno gli stessi spot su tutti i canali, più o meno con lo stesso messaggio implicito: siate belli, siate giovani, siate efficienti, sposatevi, fate bambini, tanti bambini.
Crescete e moltiplicatevi.
Comprate una macchina e una casa più grande.
Il familismo non è soltanto il principale strumento usato per vendere prodotti, il familismo è il principale prodotto che viene venduto, perché da esso deriva tutto il resto, è la pietra d’angolo di tutto il sistema.
Per questo i ruoli di genere negli spot restano pietrificati. Gli uomini inventano ed esplorano, le donne smacchiano e dimagriscono.
Scrivono lettere alle ascelle. Si pisciano addosso in ascensore. E se mai inventano qualcosa, è un assorbente. Anche le “avventurose” gemelle dell’olio d’oliva si lanciano col paracadute, ma sempre in cucina vanno a finire.
Nella pubblicità il familismo è legge divina. Le rare eccezioni durano poco, e vengono subito rettificate. Al single con la cucina piena di pacchi di pasta è stata affibbiata una famiglia numerosa e una moglie che cucini al suo posto. La tizia che aveva osato rifiutare al compagno infantiloide un figlio come scusa per comprare una macchina nuova è stata messa incinta di due gemelli.
La gravidanza è l’unica pancia che risparmia alle donne l’inesorabile prova costume. Mentre gli uomini “dominano la strada” sul loro nuovo SUV scolpito dal vento.
Negli spot, le automobili non vengono mai banalmente costruite. Sorgono da superfici di metallo liquido, si condensano da luccicanti vortici di frammenti, si materializzano magicamente al sollevarsi d’un vaporoso drappo da prestigiatore.
Nell’immaginario pubblicitario gli operai non esistono.
Gli unici lavoratori visibili negli spot sono realistici come gli elfi di Babbo Natale. Commessi che sgusciano di casa alle tre di notte per andare a riordinare gli scaffali, romantici contadini che accarezzano i pomodori e limonano i limoni, cuochi che parlano con le galline.
L’ambientazione è sempre onirica, patinata e retrò.
Evidentemente nessuno di loro lavora per denaro. Lo fanno per passione.
Per amore.
Finito il break pubblicitario, si torna in studio a parlare di guerra, di crisi economica, di riforma costituzionale.
E tutto sembra solo rumore di fondo, chiacchiera da bar senza importanza.
Perché lo è.