di Gioacchino Toni
Marco Petroni, St. Pauli siamo noi. Pirati, punk e autonomi allo stadio e nelle strade di Amburgo, Derive e Approdi, Roma, 2015, 221 pagine, € 17,00
Il saggio narra storie di resistenze, ribellioni, solidarietà, rivolte, contraddizioni e pratiche dell’obiettivo a ridosso del porto di Amburgo, sullo sfondo delle trasformazioni e delle conflittualità tedesche. Dopo aver attraversato le grandi lotte dei portuali di fine Ottocento, l’ascesa al potere e la dittatura del nazismo, la tragedia della guerra, le speculazioni edilizie e la ristrutturazione produttiva, il declino ed il degrado della zona in mano alla malavita, la rinascita del quartiere, racconta Petroni, si deve, ad inizio anni ’80, ad una nuova composizione sociale e politica: “A St. Pauli, all’ombra del porto di Amburgo, simbolo secolare delle lotte del proletariato tedesco, autonomi, militanti politici, antifascisti, ecologisti, punk e tifosi di calcio attraverso una stagione di lotte, a tratti durissime, seppero dar vita a un nuovo modello sociale rivoluzionario”.
“Da sempre, l’area dove oggi si estende St. Pauli è stata la casa per gli ultimi della società, per quelli che svolgevano lavori duri, per gli indesiderati, per coloro che venivano cacciati dalla città (…) Prostitute, forestieri, senzatetto, appestati, contrabbandieri e rivoluzionari non erano graditi al rigido mondo anseatico di Amburgo, ma a St. Pauli, dove il potere ha sempre messo alla prova lo spirito di resistenza della sua popolazione, erano di casa”. Le vicende narrate da Petroni partono dalla grande trasformazione della zona del porto della città di Amburgo avvenuta nella seconda metà dell’Ottocento che determina una netta separazione della città su base classista. All’interno degli strati più poveri della popolazione, inoltre, l’azione politica socialdemocratica, focalizzandosi sulle sole componenti operaie più qualificate, abbandona a se stessa quell’ampia area di lavoratori occasionali e/o dequalificati che in tante città rappresenta una componente non certo irrilevante. In molti casi, sono proprio questi lavoratori appartenenti a quella feccia disdegnata dalle organizzazioni operaie tradizionali, a porsi alla testa delle mobilitazioni, come avviene nel grande sciopero del 1896, che vede in azione, ad Amburgo, per un paio di mesi, ben 15000 portuali. La colpevole miopia socialdemocratica, tuttavia, rappresenta forse il suo difetto minore, visto il ruolo avuto da tale organizzazione politica, poco dopo, nella repressione delle istanze rivoluzionare spartachiste.
Riprendendo gli studi di Sergio Bologna, l’autore ricostruisce alcuni momenti di resistenza proletaria all’avanzata nazista nella battaglia per il controllo delle osterie di Amburgo, che rappresentano uno spazio di cultura politica operaia. La radicalità dello scontro è testimoniata dai numeri: nel solo 1931 restano a terra un’ottantina di nazisti ed un centinaio di comunisti. L’andata al potere di Hitler determina un violentissimo livello di repressione nei confronti degli oppositori; nel solo luglio del 1933, nella città di Amburgo, vengono arrestati 2400 comunisti. Nonostante tutto, nel 1941-42 sono in piedi cellule di resistenza in una trentina di grandi fabbriche amburghesi, soprattutto nei quartieri navali di St. Pauli ed Altona.
La situazione di Amburgo alla fine del Secondo conflitto mondiale è tragicamente sintetizzabile da alcuni dati: i bombardamenti della Raf radono al suolo il 75% della superficie edificata e l’80% del porto, il numero di morti ammonta a 35000 esseri umani. Nel giro di un decennio il sistema produttivo tedesco riesce a rimettersi in piedi e ad ammodernarsi tanto che Amburgo diviene l’emblema della capacità di ripresa teutonica. Nel dopoguerra la zona a luci rosse di St. Pauli diviene una sorta di calamita turistica per i tedeschi delle zone limitrofe e per i militari britannici stanziati nel nord della Germania. Nei primi decenni del dopoguerra una parte importante dell’economia di St. Pauli gravita attorno al commercio del sesso a cui si aggiungono, ben presto, lo spaccio di droga ed il traffico di armi. Con gli anni ’80, diviene sempre più evidente come le cose stiano cambiando nelle grandi città industriali e, nello specifico, nella zona del porto di Amburgo. Speculazioni edilizie, disoccupazione determinata dai processi di modernizzazione delle attività portuali e della cantieristica, causano lo smembramento del tessuto sociale locale: “la conflittualità di quel proletariato che aveva animato a suon di rivolte, insurrezioni e resistenze la prima metà del secolo sembrava smarrita (…) negli anni Settanta regnavano incontrastate criminalità organizzata, prostituzione e droga (…) dilagavano il disagio, la disperazione e la povertà (…) La lunga caduta del quartiere verso gli inferi terminò con il flagello dell’aids”. La diffusione del virus finisce col determinare anche la crisi dell’economia gravitante attorno al sesso. Nei primi anni ’80 St. Pauli rappresenta uno dei luoghi più malfamati della Germania occidentale, abitato soprattutto da immigrati sulla soglia di povertà.
La rinascita politica e sociale del quartiere, nei primi anni ’80, secondo la ricostruzione proposta dall’autore, si sviluppa attorno a due luoghi ben precisi: la via del porto, la Hafenstrasse, e lo stadio Millerntor. Per comprendere la composizione dei giovani militanti che occupano i palazzi sulla Hafenstrasse, occorre ricostruire la provenienza di queste pratiche di illegalità politica. L’autore individua la genesi di tali comportamenti nella raffica di scioperi selvaggi che, nei primi anni ’70, attraversa le fabbriche tedesche. Tale ondata di mobilitazione sancisce la fine dell’epoca dell’etica del lavoro dell’operaio specializzato. “Dinanzi allo sviluppo delle macchine e della produzione, l’estraneità operaia si fece sovversione e trovò nella lotta al lavoro e nelle attività di sabotaggio la sue espressione. Opponendosi a qualsiasi forma di gerarchia nella fabbrica così come nel partito, i giovani operai risultarono incompatibili con qualsiasi ‘morale produttiva’ e maturarono una nuova ‘coscienza di classe’ che li portò a negare la loro stessa vita: volevano lottare per un nuovo modello di socialità e per soddisfare i propri bisogni. Era il ‘rifiuto del lavoro’”. Ben presto questo tipo di la conflittualità si è esteso fuori dai cancelli delle fabbriche investendo il territorio. Le lotte antinucleari rappresentano un ambito di mobilitazione importante per i movimenti tedeschi a cui si aggiunge la questione abitativa. È da questa tradizione di conflittualità diffusa, di ostilità nei confronti del lavoro e di pratica dell’obiettivo che derivano le pratiche dei giovani autonomen tedeschi che, nei primi anni ’80, insieme ad anarchici, punk, emarginati, immigrati e settori di lumpenproletariat occupano alcuni palazzi di fronte al porto lungo la Hafenstrasse. Ciò che avviene ad Amburgo non è certo un fatto isolato, i primi anni ’80 vedono in Germania un imponente ondata di occupazioni; solo a Berlino, tra il 1980 ed il 1981, si contano 160 edifici occupati.
Il libro ricostruisce dettagliatamente diverse ondate di resistenza attuata dal quartiere del porto in difesa delle occupazione dei palazzi in Hafenstrasse; ronde, scontri, barricate, cortei, mobilitazioni solidali. In tutti questi episodi l’autore non manca mai di evidenziare come alle capacità di tenere la piazza e di difendere lo spazio si associ sempre l’aspetto comunitario; la solidarietà risulta essere in tutte queste vicende una componente importante per la tenuta del quartiere. Solidarietà che nel corso degli anni oltrepassa i confini nazionali per assumere una dimensione europea. “Hafenstrasse resiste” riecheggia negli anni ’80 anche sulle riviste radicali e sui muri di tante città europee.
A cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 la situazione di St. Pauli conosce un nuovo momento turbolento determinato dall’offensiva della speculazione edilizia e dalle politiche locali. In questo periodo, nei pressi di Altona, dall’occupazione di un vecchio teatro in procinto di essere trasformato in attività commerciale, nasce l’esperienza di un nuovo spazio sociale denominato “Rote Flora”, destinato a smuovere le acque del quartiere. Ad inizio degli anni ’90 la situazione torna a farsi pesante anche nell’Hafenstrasse, la cui sopravvivenza è messa, ancora una volta, a rischio. Nuovamente si apre un periodo di confronto serrato con le autorità e le forze di polizia.
La Prima metà degli anni ’90 è caratterizzata soprattutto da rigurgiti neonazisti. I gruppi di estrema destra, forti anche del proselitismo fatto nelle curve degli stadi e tra i giovani disoccupati, soprattutto nell’ex Germania Est, danno luogo ad una drammatica serie di attacchi nei confronti dei rifugiati e di chi non è considerato degno di esser detto tedesco. L’episodio, tristemente, più famoso è sicuramente quello di Rostock, ove, nell’agosto del 1992, nel sobborgo di Lichtenhagen, centinaia di giovani neonazisti, attraverso il lancio di molotov, incendiano indisturbati uno stabile ove alloggiano rifugiati vietnamiti tra gli applausi della popolazione locale e lo sguardo benevolo delle forze di polizia. L’anno successivo si scopre dai verbali di un commissario di polizia l’esistenza di un accordo tra i neonazisti e la polizia ove si concorda un “non intervento” delle forze dell’ordine durante l’assalto. In tale contesto nascono diversi gruppi di antifascismo militante, come gli “Autonomen Antifa”, che si richiamano all’esperienza di autodifesa del periodo weimariano, e si struttura anche un coordinamento antifascista nazionale denominato l’Antifaschistische aktion/Bundeswite organisation (Aa/Bo).
L’altro polo attorno al quale si sviluppa la turbolenta comunità di St. Pauli è rappresentato dallo stadio Millerntor. Per comprendere la portata delle novità che caratterizzano la “particolare tifoseria” locale, Petroni ricostruisce a grandi tappe la trasformazione del calcio tedesco a partire dagli anni ’70, quando gli stadi in Germania non sono particolarmente colpiti da fenomeni violenti; la composizione operaia caratterizza i settori popolari degli impianti e, dal punto di vista identificativo, la componente più calda è identificabile dal gilet di jeans pieno di patch con i simboli della squadra tifata. Si tratta di una tifoseria priva di una vera e propria inclinazione politica pur non mancando di manifestare atteggiamenti machisti, omofobi e xenofobi. Il 1982 è l’anno della svolta per le curve tedesche: iniziano ad essere presenti in molti stadi gruppi di bonehead dichiaratamente di estrema destra, bandiere e saluti nazisti ed una massiccia dose di violenza. Quando è di scena la nazionale, soprattutto in trasferta all’estero, si creano temporanee alleanze tra gruppi di estrema destra pur appartenenti a tifoserie tradizionalmente nemiche. “La retorica dell’estrema destra, che mostrava un’immagine semplice della realtà con dei nemici ben chiari che andavano dall’immigrato al comunista, dall’ebreo all’omosessuale, aveva creato un contesto di violenza generalizzata e una miriade di partiti e gruppuscoli”. In diverse occasioni, a margine della partita, gruppi organizzati di tifosi neonazisti tentano di dare l’assalto a locali, centri ricreativi od abitazioni nemiche, come nei quartieri di Kreuzberg, a Berlino, o St. Pauli, ad Amburgo.
La storia della piccola ed anonima squadra di calcio del St. Pauli Fc, a partire dai primi anni ’80, inizia ad intrecciarsi con i movimenti che popolano il quartiere. Il testo evodenzia come la presenza di attivisti sulle gradinate non derivi da una pianificazione di intervento politico ma abbia un’origine spontanea; lo stadio Millerntor è al centro del quartiere ed inevitabilmente inizia ad essere frequentato anche dalla galassia alternativa che abita la zona. La tifoseria storica della squadra, tradizionalmente apolitica e composta da lavoratori portuali e da gruppi di Kutten, inizia ad essere affiancata, nel corso della stagione calcistica 1986/87, dalla presenza sulle gradinate di un centinaio di giovani alternativi ben individuabili dai capelli colorati abbinati al nero di felpe e giubbotti in pelle. Tale presenza inizia ad attrarre parecchi giovani anche per la convivialità e la dose massiccia d’umorismo che caratterizza i loro slogan derivati dal mondo politico e trasformati ironicamente ad uso calcistico: “Mai più fascismo! Mai più guerra! Mai più 3. Liga!”. La bandiera pirata, il Jolly Roger, diviene, ad un certo punto, l’icona simbolo dell’avvenuto legame tra squatter, punk e tifoseria del St. Pauli. Nel testo vengono ricostruite puntualmente le trasformazioni del mondo calcistico tedesco e come la particolare tifoseria del St. Pauli cerchi di dar vita a modalità differenti di vivere il calcio, tra socialità ed impegno politico. I tifosi locali non solo sono in prima linea nella costruzione di una rete di contrasto, sia culturale che militante, al dilagare del neonazismo, del razzismo, del sessismo e dell’omofobia nelle curve, ma non mancano di intervenire anche contro la trasformazione sempre più mercificata del calcio ed l’espulsione economica delle componenti più popolari dagli stadi (politica inaugurata dall’Inghilterra thatcheriana). Gli anni ’90 si sono caratterizzati per l’infiltrazione neonazista nelle curve, soprattutto nelle tifoserie di Rostock, Dresda, Lipsia ma anche nella tifoseria della più blasonata squadra di Amburgo (HSV – Hamburger Sports-Verein).
Dalla metà degli anni ’90, la componente più politicamente schierata della tifoseria del St. Pauli deve confrontarsi con un generale processo di commercializzazione giunto a toccare anche la piccola formazione amburghese. La società inizia a “mettere a profitto” l’etichetta di “squadra alternativa” giungendo, nel 2000, ad assorbire come logo, al fianco della porta di Amburgo, il Jolly Roger, ormai diventato simbolo della tifoseria. Il teschio con le tibie incrociate, introdotto sulle gradinate del Millerntor dai punk e dagli alternativi nei primi anni ’80, diviene un brand commerciale. Alcune componenti del tifo iniziano ad abbandonare la squadra decidendo di seguire una vicina formazione meno celebre, l’Altona 93, altri propendono per cercare di mantenere in vita il vecchio modo di concepire il calcio come fenomeno sociale opponendosi alla mercificazione. Nel 2011 va in scena la protesta “socialromantica”: all’interno dello stadio, all’entrata in campo delle squadre, l’intera tifoseria sventola bandiere rosse con teschi neri ed espone lo striscione: “Bring Back St. Pauli”. “Migliaia di tifosi hanno personalmente cucito e disegnato la propria bandiera con un teschio diverso da quello ufficiale che hanno chiamato Jolly Rouge” e, dopo la partita, danno vita all’immancabile corteo lungo le vie del quartiere, invitando al boicottaggio dei consumi all’interno dello stadio e delle aziende che sponsorizzano la società. Quella moltitudine di teschi neri su sfondo rosso rappresenta la riappropriazione dell’emblema da parte dei tifosi: si tratta di qualcosa che non appartiene a nessuno ma al tempo stesso a tutti, dunque non può essere messo in commercio.
Nella parte finale del libro, fanno capolino questioni legate alla stretta attualità. Nel 2013 si intrecciano nel quartiere ribelle alcune spinose vertenze. L’arrivo ad Amburgo, dall’Italia, di 350 profughi africani sbarcati nel 2011 a Lampedusa, porta alla costituzione, in loro difesa, del gruppo “Lampedusa in Hamburg” e viene rilanciata la campagna “Nessuno è illegale”. Il contenzioso riguarda la concessione del diritto di asilo collettivo e non individuale, come vorrebbero le autorità. “We are here to stay”, diventa la parola d’ordine che riecheggia ovunque nel quartiere ed, ovviamente, allo stadio. Altre questioni che toccano St. Pauli riguardano la minaccia di sgombero del palazzo Esso-Häuser che ospita circa un centinaio di famiglie e dello spazio Rote Flora.
Il testo di Petroni ha il merito di ricostruire un lungo percorso di lotte sociali e di conflittualità di fronte al porto di Amburgo. Sicuramente lo fa da una prospettiva parziale, resta il fatto che le storie narrate da questo testo difficilmente potranno essere cancellate definitivamente e senza colpo ferire. È la storia di St. Pauli a suggerirlo.