di Sandro Moiso

Boyd_Biciclette Joe Boyd, Le biciclette bianche. La mia musica e gli anni sessanta, Odoya 2014, pp. 300, € 14,00

Nonostante la distanza degli argomenti trattati, la lettura di queste memorie di uno dei più grandi produttori musicali degli anni sessanta, ma in attività ancora oggi, mi ha fatto lo stesso effetto del film di Peter Bogdanovich su John Ford.1 Forse perché, in entrambi, è presente lo stesso senso di nostalgia per una forma quasi artigianale di conduzione del lavoro, oggi quasi impossibile, che ha fatto grande il cinema (western) e la musica degli anni sessanta e settanta.

Se nel primo caso rimarrà per sempre mitica la narrazione di come John Ford si immergesse fino al petto nelle acque di un torrente per mostrare all’operatore quale fosse il punto migliore da cui filmare, in un unico piano sequenza, una scena di dialogo tra James Stewart e Richard Widmark in “Cavalcarono insieme”, le descrizioni contenute nel testo di Joe Boyd della ricerca dei punti esatti in cui posizionare microfoni e musicisti negli studi di registrazione pre-digitali non sono da meno. Tenuto anche conto dell’altissima qualità dei dischi e dei suoni che risultarono da quelle sedute di registrazione.

Ora la maggior parte degli studi hanno grandi sale di regia e i dispositivi esterni possono essere collegati direttamente alla console: le drum machine, le tastiere elettroniche, i sequencer eccetera…La maggior pare della musica registrata oggi viene creata dai musicisti – o dagli operatori – seduti di fianco al tecnico del suono: passa direttamente all’hard disk invece che risuonare nell’aria per essere captata dai microfoni, Di conseguenza , la sala studio si riduce a uno spazio modesto destinato ai cantanti o ai singoli musicisti. Oggi l’acustica ideale è una situazione morta: la registrazione digitale può apparentemente sintetizzare qualsiasi atmosfera, dal Madison Square Garden al vostro bagno […] Negli anni Sessanta i musicisti registravano ancora la maggior parte di un pezzo suonandolo insieme nella stessa stanza e nello stesso momento […] Le sezioni ritmiche respiravano con gli altri musicisti, accentuando o ritardando il tempo a seconda dello stato d’animo. L’acustica degli studi cambiava moltissimo, così come gli stili del tecnico del suono e della produzione. In teoria, i computer fanno in modo che i musicisti e i produttori scelgano da una gamma infinita di suoni vari, ma le moderne registrazioni digitali sono molto più monocromatiche e simili fra loro di quanto lo fossero le vecchie tracce analogiche” (pag. 209)

In questo caso però, stiamo ben attenti, non ci troviamo di fronte alla stantia polemica da audiofili sulle differnze tra suono analogico e suono digitale, ma a una ben più profonda riflessione su differenti modi di intendere lo show business e la musica in generale.
Joe Boyd è stato un grandissimo produttore, ma difficilmente i suoi musicisti e cantanti hanno immediatamente raggiunto il successo e il grande pubblico ai tempi dei loro primi dischi. Così Joe ha modo di lamentarsi in varie pagine di come gli sia spesso sfuggita l’occasione di mettere sotto contratto gruppi destinati vendere nell’immediato milioni di dischi. Dai Lovin’ Spoonful a Stevie Winwood, dai Cream ai Pink Floyd e canzoni quali Fire di Arthur Brown o A Whiter Shade Of Pale dei Procol Harum.

Eppure egli, più o meno inconsapevolmente, lavorava per il futuro; con un senso dell’avventura, della ricerca e del melange musicale che lo rendono quasi unico nella storia del blues, del rock, del jazz e del folk. Ha lavorato con vecchi bluesmen quali il Reverendo Gary Davis o Sleepy John Estes e ha prodotto, tra il 1966 e il 1971, i dischi, oggi leggendari, della Incredible String Band, dei Fairport Convention, di Chris McGregor, di John e Beverly Martin, di Vashti Bunyan, di Nico e di Nick Drake. Soltanto per citarne alcuni.

Ancor prima, giovane americano nato nel 1942, era giunto a Londra nel 1965, a caccia di emozioni, avventure, musica e, soprattutto, musicisti e dischi da produrre. Il primo risultato, però, si era concretizzato con l’apertura del mitico UFO club, il primo locale in cui si esibirono gruppi psichedelici come i Pink Floyd di Syd Barrett, i Soft Machine (ancora eterodiretti da Daevid Allen, Kevin Ayers e Robert Wyatt) e i Tomorrow (che comprendevano musicisti del calibro di Steve Howe, Keith West e John Alder “Twink”, tutti destinati a lasciare diversamente il segno nel rock inglese degli anni a venire), autentica prefigurazione di tutte le follie e sperimentazioni lisergiche che sarebbero seguite negli anni successivi, che con uno dei loro brani più famosi, My White Bicycle, finirono con l’ispirare il titolo del libro di Boyd.

Ma fu ancora un altro brano dello stesso gruppo a cogliere, in anticipo, lo spirito dei tempi: Revolution. Sì, perché, anche se il produttore americano dichiara sempre apertamente di aver fatto tutto per guadagnare soldi e fama, oltre che per amore della musica, i cambiamenti culturali, comportamentale sociali in atto in quegli anni non potevano lasciare insensibili i musicisti (che spesso ne costituivano il diretto prodotto) e i nuovi produttori, oltre che le case discografiche più intelligenti, sempre a caccia di novità da proporre sul mercato dei consumi giovanili.

Si creava in tal modo, e il testo lo spiega benissimo, una sorta di spirale virtuosa in cui le mode e i comportamenti ribelli dei baby boomers nati nel dopoguerra si rispecchiavano nei prodotti musicali incisi su vinile, che, a loro volta, finivano col diventare amplificatori e diffusori di quei comportamenti anche tra le fasce giovanili inizialmente meno coinvolte. Abiti eccentrici, droghe, ribellione e antiautoritarismo si mescolarono in una straordinaria ed esplosiva miscela da cui sarebbero conseguiti il ’68 e le proteste giovanili in tutto il mondo.

Joe Boyd fu al centro di tutto questo. “Qualsiasi causa, non importava quanto radicale fosse, era benvenuta e poteva far proseliti sul posto” (pag. 153) In una Londra che cercava di essere alternativa al grigiore esistenziale dell’establishment e delle famiglie piccolo borghesi o proletarie e che avrebbe finito col fare da modello ai giovani americani, già segnati dalla lotta contro la segregazione razziale e dalla guerra in Vietnam.

Talvolta poteva essere un film, ma che film, a fare la differenza. “nella primavera del 1965 volai da Londra a San Francisco per incontrare Bill Graham […] A un cinema vicino al Fillmore davano La battaglia di Algeri. Quando entrai, stavano scorrendo i titoli di testa: le scene della kasba erano buie […] Cercavo un posto a tentoni, ma continuavo a trovare persone. Una sensazione strana: mi aspettavo che in un pomeriggio di un giorno feriale un cinema d’essai fosse abbastanza vuoto […] Le vivide scene della guerriglia urbana mi fecero velocemente dimenticare dove fossi.
Quando il film terminò, le luci si accesero e mi mostrarono un cinema pieno. La mia era l’unica faccia bianca tra il pubblico. Gli uomini portavano baschi neri, le donne i dashiki e avevano tutti un quaderno per gli appunti
” (pag. 135).

Poco più di un anno dopo, nell’ottobre del 1966, proprio nella Bay Area sarebbe stato fondato il Black Panther Party. Ma il Free Jazz dei fratelli Ayler aveva già anticipato anche questo. Come a Parigi quando, dopo aver fornito una versione stravolta e destrutturata della Marsigliese, avevano scatenato una rissa colossale tra gli ascoltatori favorevoli e contrari alla loro reinterpretazione.

Non solo musica dunque nel libro in questione e non solo folk o rock.
In tutta la narrazione, a suo modo epica, aleggiano personaggi leggendari (Hendrix, Drake, Dylan, Seeger, Sandy Denny e Barrett), impresari delinquenziali, brutti ceffi, spacciatori di vario genere , skinhead, militanti neri, angry young men come Mick Farren e i suoi Deviants, etichette discografiche innovative (Elektra e Island), debiti, successi ed insuccessi e tantissimi personaggi ingiustamente e colpevolmente dimenticati.

Il vortice di denaro che girava intorno all’affare della musica “giovanile” sembrava anticipare le crisi finanziarie e gli squali della finanza che finiranno col dominare il capitalismo globale. Trasformando, nel tempo, anche il senso di tanta musica. “Sei anni dopo che Sgt. Pepper ebbe sconvolto il mondo della musica […] gli album di carole King e neil Young superarono di molto le vendite del capolavoro dei Beatles. Dieci anni dopo, le vendite di Thriller di Michael Jackson avrebbero reso insignificanti tutte quelle dei dischi dei Beatles messe insieme e lui avrebbe acquistato con gli spiccioli i diritti di pubblicazione del catalogo dei brani di Lennon e McCartney. Aprii la mia società di produzione in un periodo innocente di attese relativamente modeste“. (pag. 175)

Così, mentre lavorava per la Warner, Joe Boyd fu incuriosito dal fatto che John Calley, produttore del più grande disastro cinematografico, dal punto di vista economico, fino a quei tempi, fosse considerato un grande produttore.
Mi stavo documentando sugli aspetti finanziari del mondo del cinema. «Base Artica Zebra? Ma non ha perso più di ogni film nella storia del cinema?».
«Sìì! Quello!» Non capivo. Come si passa dal produrre un fiasco costosissimo a dirigere uno studio?
«Joe, Joe, Joe! Devi capire Hollywood! Qui non valgono tanto i soldi che fai, quanto i soldi che maneggi!
»” (pag. 249) Ovvero Lesson number 1 per comprendere tutto quello che sarebbe arrivato con le crisi finanziarie e gli stipendi dei top manager fino ai nostri giorni.

Spesso è la sconfitta a segnare la narrazione. Il rimpianto per ciò che il produttore non aveva saputo fare per salvare Nick Drake dall’autodistruzione e dal suicidio oppure gli Incredible String Band da se stessi e da Scientology. Ma è il ricordo di un sogno, di un grande magnifico sogno a trionfare alla fine. Un sogno per il quale è valsa la pena aver vissuto tutto, nel bene e nel male.
E le ultime straordinarie righe ne rivelano l’anima e il senso in maniera onestissima.

Un libro bellissimo, da leggere e da amare. Una storia di ciò che è cambiato, ma anche di ciò che è andato irrimediabilmente perduto nel corso delle trasformazioni e a causa dell’allontanamento culturale e politico tra le generazioni. Un libro da leggere tutto di un fiato, anche sotto un ombrellone, in un’altra estate di crisi e di promesse mancate.


  1. Directed by John Ford, 1971 poi riassunto nel libro dello stesso Peter Bogdanovich, Il cinema secondo John Ford, Pratiche Editrice 1990