di Marco Galeotti e Marco Valesi
[Estratto dal romanzo Duri come i muri, Ed. I Libri di Emil, Bologna, 2015, pp. 198, € 14]
Il Caffè Bar Tabacchi dove stavano si chiamava proprio così.
Era in mezzo ad una piazza che, da anni, stava a sua volta al centro di polemiche generate dallo scontro del passato con il presente, in nome di un futuro che quelli del Comune avevano imposto. Nel nome della modernità.
Modernità però per Manel significava – più o meno come per Baudelaire– “sfuggevole ed effimera esperienza della vita condotta all’interno della città” e a lui non gliene fregava niente dell’affermazione della razionalità o della razionalizzazione dello spazio urbano.
Forse proprio per quel motivo, da quando erano arrivate le ruspe sulla strada che dal porto vecchio portava alla piazza, non si era più mosso da lì. Per difendere e difendersi.
In quel frangente, non poteva che ordinare due pastis. Oltre che bevanda da meditazione, lo considerava, infatti, una riuscita sintesi della sua vita.
Fu sorpreso dal sorriso con il quale il bambino-ragazzo, che da vicino sembrava aver uno sguardo da uomo, lo accettò maliziosamente.
La prima domanda alla quale rispose fu infatti “Posso offrirti da bere?”.
Poi aggiunse, anche, che non andava particolarmente di fretta, ma che uno che scriveva sui muri non poteva nemmeno prendersela davvero con calma.
Manel volle tranquillizzarlo e gli raccontò una storia.
“Un giorno incontrai una donna. Si chiamava Melina perché aveva la faccia e il cuore a forma di mela. Ognuno ha il nome che si merita. Come si dice.. nomen omen.. Una mela succosa, comunque. Genuina. Io negli ultimi trent’anni sono stato solo in città di porto, ed in ognuna di queste città ho conosciuto, bene, una donna. Melina la conobbi a Genova. Se la donna è un porto, io sono un marinaio”.
Rudy era colpito dalla sicurezza con la quale Manel parlava; le cose che diceva sembravano verità scontate ed inconfutabili. Era curioso di chiedergli quanti anni avesse: a prima vista gli sembrò un pensionato, poi, osservandogli meglio le mani, quelli mani fini da pianista, e il corpo che dipingeva un uomo integro, con sporgenze ben delineate e una pancia importante, si era piano piano convinto che in realtà fosse abbastanza giovane. Se da trent’anni girava nei porti, però, non poteva essere imberbe…
Manel con la sua dialettica da bancone continuò:
“Lei era convinta di dover salvare il mondo e girava per l’Italia scrivendo ovunque messaggi di pace. Tu perché scrivi sui muri?”.
“Io lo faccio perché sono nato a Città del Messico. Mio padre lavorava là come gallerista ed in nome di un’educazione al bello dovevo sorbirmi ogni fine settimana la visita ad un museo. Li ho odiati tutti: da quello di antropologia a quelli d’arte. Poi un giorno ho visto la vera vita della gente dipinta sulle pareti di un palazzo di fianco a casa, quello della Secretaría de Educación Pública, e ho capito ciò che volevo fare: scrivere e dipingere sui muri per lanciare dei messaggi, per me stesso e forse anche per gli altri. Vedevo spesso tags, stencils, stickers alle uscite della metropolitana o vicino all’UNAM, ma non rappresentavano esattamente quello che volevo. Dopo quei murales invece ho capito che dovevo fare arte e poesia, colori e politica, cerchi e parole, linee e frasi: tutto insieme. Non sono sicuro di esserci riuscito, certamente non al livello di Don Sapo-Rana, ma quella è la mia strada. Non credo possa essere un lavoro, ma in realtà io un lavoro, almeno adesso, non lo voglio nemmeno”.
“Vuoi un altro pastis? Quanti anni hai?”.
“Ma se sei nato nel DF, hai vissuto in Colombia, non sei mormone ma sopravvivi, anche solo un po’, in Utah e soprattutto hai una nonna come la mia, è come se ne avessi parecchi di più”.
“Megu, dammi altri due pastis. Uno per me e uno per…com’è che ti chiami?”.
“Rodolfo De Gortes, ma tutti mi chiamano Rudy”.
“Credo sia meglio. Che cazzo di nome è Rodolfo De Gortès? Sembra quello di un pirata o di un moschettiere! Raccontami di Città del Messico, non ci sono mai stato perché non c’è il mare”.
“In Messico sono nato e ci ho vissuto per dieci anni. È il posto nel quale sono stato di più. Ho il passaporto messicano e lì, come ti ho detto, ho scoperto quello che mi piace fare: usare i muri delle città. Nel Distrito Federal si erano trasferiti i miei nonni spagnoli, repubblicani, durante la dittatura franchista e lì mia madre, catalana, ha conosciuto mio padre, italiano, che lavorava nel fottutissimo mondo dell’arte. Mi ci trovavo benissimo e quando ci siamo trasferiti a Salt Lake City, in Utah, puoi immaginare come abbia reagito”.
“In Utah non ci sono porti e non ne so nulla. Credo anche di non volerne sapere nulla”.
“Meno male che siamo rimasti poco. Solo il tempo per me di imparare un po’ di inglese, qualcosa dai pochi eroici writers locali, sempre in lotta con la temutissima graffiti hotline at 801.972.7885, e poi ci siamo trasferiti a Bogotá. Lá, grazie a come los cachacos viven las calles e osservando, da lontano ma non troppo, el Colectivo Bogotá Street Art, Dj Lu, Gouache, Lesivo e Toxicómano, sono rinato!”.
“Non capisco tutto quello che dici, ma capisco abbastanza”.
“Poi per motivi familiari siamo tornati in Italia. Dopo un paio d’anni i miei genitori sono andati di nuovo in Messico, ma io, stanco dei continui cambiamenti, ho deciso di stare con mia nonna, qui nell’entroterra ligure. Adesso però me ne sto un po’ a Genova da un’amica”.
“Cazzo ti avevo chiesto solo di parlarmi di Città del Messico e mi hai raccontato tutta la tua vita. Credo sia il pastis. Anche a me aiuta a raccontarmi. Quanto pensi di fermarti?”.
“In città posso fermarmi quanto voglio, dove sto adesso anche, credo” – disse Rudy ripensando al bacio che aveva stampato in bocca a chi adesso lo stavo ospitando.
“Ho finito il liceo, ho qualche soldo da parte, e almeno per ora non ho nessuna intenzione di andare all’università.
Voglio guardarmi e colorare in giro.
Mi piacciono i vicoli, i caruggi, gli angoli ed i muri di questa citta e avevo pure notato alcune delle scritte della signora della quale mi ha parlato. Sono strane, ma credo che sia giusto che lei e chiunque scriva un po’ in giro, quasi a caso.
Ce ne sono comunque tante che sono interessanti. Quando mi ricordo me le scrivo: “meno architetture più avventure”, “basta fatti vogliamo promesse”, “sei la mia barricata”, “in alto la mia banda”, “nessuno è di dov’è”, “Rompiamo l’incantesimo”, “Game Over”, “Amo i vicoli e i suoi pericoli” e poi ci sono i mostri marini sui piloni della sopraelevata. A te che sei un marinaio dovrebbero piacere, no?”.
Manel non rispose, forse scosso dalla vitalità delle parole di Rudy che, come un pugile durante una sequenza di colpi, rilanciò:
“Ma, tu, Manel, nella vita che fai? Lavori o controlli solo quello che succede nel quartiere?
Tra l’altro, sai che si dice di quello che ho scritto lì fuori?”.
Dopo un lungo sospiro Manel, dall’angolo del ring del suo Caffè Bar Tabacchi, rispose:
“Attento Rodolfo fai e dici troppe cose e no se peu sciusciâ e sciorbî [1]….
Ascolta, prima di continuare questa conversazione ti devo dire tre cose.
La prima è che se ordiniamo il terzo pastis significa che mi piace parlare con te, ma vuol dire anche che tutto ciò che ci diciamo rimane qui”.
Mentre parlava, Rudy lo fissava cercando di carpirne i segreti e ad un tratto capì.
La pancia.
Un uomo così non poteva che avere una pancia importante, e quella pancia aveva cinquant’anni, più o meno.
“La seconda: so quello che pensano delle tue scritte e proprio per questo motivo sei seduto al bar del mio quartiere”.
Una pancia del genere voleva dire molto. Doveva esser nata tra le bitte del destino, lì sul porto.
Si era formata nei quartieri ed era certamente cresciuta tra Marsiglia, Napoli, Barcellona e chissà quale altro pezzo di storia mediterranea.
“La terza: se passa uno sbirro, tu non mi conosci. Non sai chi sono, da dove vengo, come mi chiamo, che cosa faccio, perché, che cosa non faccio, chi mi piace e nemmeno chi non mi piace. Se passa uno sbirro io non esisto”.
Rudy, meno bravo di quanto fosse Manel ad incassare, si lasciò scappare un debole:
“Ma io i poliziotti mica li riconosco …”.
“Per questo non preoccuparti, ti spiego io chi sono, quanti sono, cosa vogliono e anche che cosa pensano”.
“Mi chiedevi se lavoro” – continuò allora rilassando il volto i cui tratti si erano in precedenza induriti.
“Mio caro amico, il lavoro è un diritto, mica un dovere. È che il mondo funziona al contrario e allora la gente deve lavorare per sopravvivere, e manco è detto che ci riescano tutti!
No, io vivo per vivere e per studiare la vita. Sono uno studioso. Ma non uno di quei professorini d’accademia, che pubblicano, vanno in televisione, si arrabattano per diventare famosi. Sono uno studioso di strada, ho scelto il bar come casa, scuola e palestra. Bisogna saper scegliere il posto giusto. Vedi, io da qui controllo la situazione, perché la Situazione è complicata, compare”.
[1] Non si può soffiare e assorbire allo stesso tempo
Di seguito il book trailer – Pagina di Duri come i muri (link):