di Gioacchino Toni
Gian Piero Piretto (a cura di), Memorie di pietra. I monumenti delle dittature, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014, 272 pagine, € 25.00
Il volume affronta la questione della monumentalità in una selezione di sistemi totalitari novecenteschi diversi; tra questi vengono passati in rassegna esempi dell’Italia fascista, della Germania nazista e del blocco sovietico. Le tipologie di monumento analizzate dal saggio sono varie e diversificate, pur focalizzando l’attenzione, in questa sede, sull’utilizzo dei sacrari militari nella propaganda fascista, vale la pena riassumere, seppur brevemente, le diverse questioni trattate dal saggio curato da Gian Piero Piretto.
Per quanto riguarda l’epopea dell’Italia fascista, Andrea d’Agostino si occupa della risignificazione dell’antichità romana operata dal fascismo, in particolare ricostruendo l’uso del Mausoleo di Augusto e dell’Ara Pacis al fine di rafforzare il binomio Augusto-Mussolini. Sempre restando nell’ambito del ventennio mussoliniano, Stefano Taiss propone un interessante studio, sul quale si focalizzerà l’attenzione in tale scritto, dei memoriali fascisti analizzandone le caratteristiche stilistiche e le sottese finalità. Il saggio di Elena Pirazzoli passa in rassegna la Germania hitleriana occupandosi, in particolare, di alcune realizzazioni finalizzate alla gestione delle masse in vacanza. Diversi sono gli interventi che riguardano il “blocco sovietico”, a partire dal saggio del curatore dell’opera, Gian Piero Piretto, che analizza le peculiarità del memoriale dedicato alle vittime dell’Armata Rossa edificato a Berlino nel 1949. Massimo Tria passa in rassegna i film, la letteratura ed altri testi artistici e culturali sviluppati attorno al carro armato sovietico a Praga. L’architettura monumentale della repubblica Democratica Tedesca è affrontata da Luca Zenobi nel suo ruolo di strumento politico ed ideologico. L’intervento di Eric Gobetti studia l’impressionante proliferazione seriale di monumenti partigiani edificati nella Jugoslavia di Tito con l’intenzione di supportare una lettura del conflitto imperniata sull’unità del popolo jugoslavo nella guerra di liberazione. Lo scritto di Francesco Vietti tratta in parallelo l’Albania e la Corea del Nord nel loro essere accomunate dalla creazione di un confine impenetrabile associato alla monumentalità delle costruzioni come elementi di supporto all’autarchia. Infine, Liza Candidi T.C., passando in rassegna i monumenti cubani e l’immaginario rivoluzionario, giunge alla definizione di “ipermonumento” con riferimento alla Tribuna anti-imperialista José Martí, realizzata nel 2000 di fronte alla Sezione di interessi statunitense, sede di rappresentanza americana, indicando con tale termine “un monumento che ne riflette un altro (la sede statunitense e i suoi simboli) e lo doppia, assorbendone la provocazione e contrastandone significato e retorica”.
I diversi scritti presenti nel volume sono preceduti dal saggio di Andrea Pinotti “Antitotalitarismo e antimonumentalità” in cui, l’autore, partendo da una definizione generale di monumento, che lo vuole oggetto di grandi dimensioni, di materiale durevole e volto alla commemorazione di eventi od individui importanti per la memoria e l’identità sociale di una collettività, segnala come esso leghi l’esercizio del potere e l’esperienza della morte. Il monumento sepolcrale, con il suo segnare l’assenza del morto, diviene il “campo d’indagine privilegiato sia per la genesi storica della produzione di immagini come risposta al trauma della morte (…) sia per l’originarsi sempre di nuovo ripetuto del gesto che produce immagini come supplementi a compensazione di una mancanza”.
Nato con l’intento di esternare ed eternare la memoria, non di rado il monumento finisce col promuovere l’oblio; affidando il ricordo ad un supporto esterno, diviene possibile dimenticarlo. Se il monumento tradizionale finisce col fallire il suo obiettivo iniziale, si potrebbero invertire le sue “proprietà costitutive” al fine di ottenere il risultato voluto. Da tale ragionamento, a partire dagli anni Settanta, prende piede l’idea di invertire le polarità costitutive il monumento: all’esigenza di una visibilità invadente si sostituisce la tendenza all’invisibilità, ai materiali che esibiscono imponenza e durata si preferiscono materiali leggeri ed effimeri e così via. Se “la monumentalità totalitaria spinge all’estremo i contrassegni della monumentalità tradizionale (…) tanto più efficaci risulteranno l’inversione e il ribaltamento di tali contrassegni nella monumentalizzazione memoriale di coloro che da quei regimi sono stati schiacciati”.
Tra gli esempi riportati dall’autore vale la pena ricordare il Monumento contro il fascismo, la guerra, la violenza, per la pace e i diritti umani realizzato da Jochen Gerz ed Esther Shalev-Gerz, nel 1986, ad Amburgo. Si tratta di un pilastro di una dozzina di metri in piombo eretto in un quartiere periferico della città sul quale i cittadini sono invitati ad intervenire apponendo messaggi e riflessioni. Il pilastro è progettato per abbassarsi progressivamente con il coprirsi delle iscrizioni tracciate dai cittadini fino ad interrarsi. La struttura può essere letta come una sorta di “specchio sociale” che riflette, nel bene e nel male, i pensieri ed i sentimenti della popolazione. L’idea è quella di rendere i cittadini fautori della scomparsa del pilastro smuovendo il loro senso di responsabilità condivisa nel mantenere viva la memoria. Una volta sotterrata, dopo sette anni dall’inaugurazione, restano sul luogo soltanto le “istruzioni per l’uso” redatte in sette lingue: il monumento diviene assenza, la conservazione della memoria non spetta più ad esso ma alle persone che lo hanno sotterrato.
Il saggio di Stefano Taiss “Presente! I memoriali del fascismo italiano”, sottolinea in apertura come anche i monumenti ai caduti di epoca mussoliniana rientrino nella logica del monumento fascista così come sintetizzata da Sironi, ovvero il suo essere, contemporaneamente, costruzione volta a ribadire un ordine, materializzazione della fede littoria ed espressione di potenza. I sacrari militari rappresentano una delle macchine di propaganda più potenti al fine di ribadire le finalità del regime; dapprima vengono utilizzati per trasformare l’eroe di guerra in eroe fascista, in una sorta di “fascistizzazione postuma” dei caduti della Grande guerra e, successivamente, servono per riformulare l’idea di guerra e morte eroica. Tali monumenti nascono non tanto per tramandare, quanto per riformulare la memoria del primo conflitto mondiale e della guerra tout court, in linea con la pedagogia della guerra tanto cara al regime. I sacrari nel corso del Ventennio diventano i santuari del misticismo fascista; essendo luoghi-ponte tra vita e morte, essi servono a dotare di significati soprannaturali il rito lì officiato tra capi e popolo.
La ricerca ossessiva dell’eternità, impone non solo materiali non deperibili, ma anche scelte stilistiche volte ad eliminare ogni naturalismo in favore di una sempre maggiore astrazione, utile ad evitare l’identificazione temporale. L’ordine geometrico permette di rendere visibile “l’intervento umano sul materiale, risultato dell’azione dell’uomo di fede che, con la propria volontà, impone all’elemento naturale una forma che non gli appartiene”.
Taiss individua importanti cambiamenti stilistici nell’edificazione dei sacrari fascisti; le costruzioni successive alle prime grandi azioni militari risultano ben diverse da quelle erette tra il 1926 e l’inizio degli anni Trenta. Nel 1930 il regime sceglie di realizzare tali costruzioni in località extraurbane facilmente accessibili, trasformando il canonico cimitero di guerra in santuario. Ben presto i sacrari vengono consapevolmente finalizzati a divenire meta di “sacro turismo”, proponendosi come luoghi in cui convivono scopi ricreativi e dovere civile. Il cimitero di guerra monumentalizzato si trasforma dunque in sacrario. Tra i criteri indicati dalle linee guida del regime abbiamo: criteri di individualità (rappresentata ricorrendo a loculi e lapidi uguali in termini di materiale e forma in cui risulta individuabile un nome ed un cognome preciso), perpetuità (attraverso materiatali durevoli) e monumentalità (data dall’imponenza delle dimensioni e dalla semplicità formale).
Una vera e propria omogeneità stilistica risulta ravvisabile soltanto a partire dal 1932, anno della mostra romana del decennale della rivoluzione, vero e proprio punto di svolta per l’edificazione dei sacrari. La grande mostra viene allestita in modo tale da imporre al pubblico un percorso di avvicinamento segnato dalle varie tappe della presa del potere fascista, tale percorso culmina nel sacrario dedicato ai caduti per la rivoluzione. Al centro della sala si innalza una grande croce di ferro al fine di unificare religione cattolica e religione fascista, in linea con la retorica cristologica del sacrificio. Attorno alla croce sei grandi anelli riportano ripetutamente la parola “Presente”, attestando, simbolicamente, una garanzia di continuità spirituale oltre la vita fisica.
Sarà proprio l’impianto di tale sala a divenire il modello della successiva architettura commemorativa: predilezione di spazi circolari, metafora della ciclicità del tempo, dell’eternità e dell’immutabilità fascista, purezza geometrica e materiali indistruttibili. In generale le nuove strutture devono prevedere un percorso che renda dinamico il visitatore tra i caduti, una scultura tendenzialmente ridotta ai simboli del regime (gladio, fascio littorio, fiaccola…), sobrietà architettonica, il legame col territorio (sacrari costruiti in luoghi dotati di suggestione storica e paesaggistica) ed isolamento della struttura dalla vegetazione e dalle edificazioni circostanti, possibilmente collocata su un’altura.
Nel 1932, l’architetto Giovanni Greppi e lo scultore Giannino Castiglioni vengono incaricati di realizzare il Sacrario del Monte Grappa, dando vita probabilmente alla prova più coerente ai nuovi precetti. Qui diviene evidente l’idea di mettere in relazione l’ascensione verso il Cielo dell’ideale con la permanenza sulla Terra delle spoglie mortali, dove il visitatore è circondato dai fieri caduti e dai nomi delle battaglie passate, che lo pongono automaticamente in una condizione di rispetto e vigilanza.
Nel 1938, nell’ambito delle celebrazioni del ventennale della Vittoria, viene inaugurato in provincia di Gorizia, sempre per opera di Greppi e Castiglioni, l’enorme Sacrario di Redipuglia composto da tre parti principali. La prima sezione consiste in una grande piazza al cui centro una serie di targhe ricordano i diversi luoghi di guerra dell’Isonzo. La seconda parte è costituita da uno spazio con al centro la tomba di Emanuele Filiberto duca d’Aosta in marmo rosso e, poco lontane, le tombe in marmo bianco dei generali e comandanti della Terza Armata. La sezione finale dell’opera monumentale consiste nell’immensa scalinata che, in ventidue gradoni, raccoglie le salme di circa quarantamila caduti identificati, di cui viene inciso il nome su una lastra in bronzo. Nell’ultimo gradone, in due grandi tombe comuni, ai lati della cappella votiva, sono collocate le salme dei quasi sessantamila caduti ignoti. Sulla sommità, infine, troneggiano tre imponenti croci. Su tutti i gradoni campeggia, ripetuta all’infinito, la parla “Presente”, richiamando il solito rito dell’appello caro al fascismo. I centomila caduti qui sepolti sono in tal modo “arruolati a posteriori” al fascismo, centomila fascisti a loro insaputa.
Il ricorso all’orizzontalità, alla serialità ed alla prospettiva trasforma, Redipuglia in un luogo della fierezza e dell’esaltazione, non più luogo di rievocazione della tragedia della Grande guerra. “A Redipuglia non è sepolta una massa confusa e caotica, altrimenti nulla la differenzierebbe da una fossa comune. La collocazione dei loculi è un geometrico disporsi, come dei ranghi da cui riecheggia il rito dell’appello”. L’impressione di ordine, di disciplina, emanato dalla costruzione tende a negare il dolore e, nonostante che dei quarantamila noti venga indicato il nome, l’individualità tende ad essere annullata nella totalità dell’ideale unificante anche grazie alle centinaia e centinaia di “Presente”, termine scolpito e ripetuto ossessivamente.
Come tutti i monumenti, anche questi possono essere analizzati sia allo scopo di cogliere come il potere intenda autorappresentarsi, esibirsi in immagine, che per verificare come essi, nell’essere a loro volta immagine, inducano reazioni e risposte in chi li osserva. I sacrari militari obbediscono in pieno a quella definizione, riportata in precedenza, di monumento fascista perfettamente sintetizzata da Sironi, ossia l’essere allo stesso tempo costruzione volta a ribadire un ordine, materializzazione della fede littoria ed espressione di potenza. I sacrari militari rappresentano davvero una potente macchina di propaganda fascista, tanto da riuscire a riscrivere la storia dei caduti della Grande guerra. Viene da chiedersi per quanto tempo, tale macchina di riscrittura della storia, è stata in grado di funzionare oltre alla fine del Ventennio, per quanto tempo ancora, dopo la Liberazione, i visitatori dei sacrari della Prima guerra mondiale hanno continuato a subire una storia riscritta in cui i defunti, e forse non solo loro, si sono trovati arruolati a posteriori. I sacrari militari hanno garantito, in questo paese, una fascistizzazione postuma dura a morire.
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Immagini inserite nel testo (dall’alto al basso)
– Copertina del volume
– Sala della Mostra del decennale della rivoluzione (1932), Roma
– Panoramica del Sacrario del Monte Grappa
– Panoramica del Sacrario di Redipuglia
– Particoalre del Sacrario di Redipuglia