di Massimo Vaggi
[Prologo del libro La fame di Haiti, di Romina Vinci e Fabrizio Lorusso, END Edizioni, 2015, pp. 120, € 10,20]
Viste dall’alto, quelle macchie blu sparse senza ordine preciso sulla terra ancora lontana sembrano belle, come un tocco di grazia. Il colore è quello del mare aperto, è un blu intenso, allegro. Come sempre, però, la lontananza sfuma i contorni e nasconde la verità, scopriremo che quel segno gentile sono i teloni degli aiuti internazionali, stesi sopra quel che resta di muri aperti a metà o legati a quattro pali conficcati in terra. Sono quelli che nessuno voleva, quei teloni, quelli di cui nessuno sa cosa si potrà fare, un giorno. Quelli che il primo ciclone di passaggio da queste parti porterà sulle coste di Cuba. Dateci tende! Ma ecco plastica, invece, per quanto dal colore acceso e invitante. Una volta atterrati, perché prima o poi lo si deve fare, le cose cominciano a cambiare, e più da vicino, dalla stessa altezza che è quella di ogni uomo si comincia anche a vedere cosa c’è sotto al telo, e poi magari si ha la malaugurata idea di chiedere: qual è la zona che è stata più colpita? E così gli ospiti, che son gentili e non si sottraggono a nessuna richiesta, ti fanno vedere qual è la zona che è stata più colpita.
In macchina, saltando da una buca a un cratere e nel mezzo di un traffico impensabile, ti avvicini e piano piano, sempre più ammutolito, ti trovi a entrare, benché la memoria del terremoto abbia compiuto già un anno, nel territorio che si trova al confine del dolore più profondo della città. Lo fai come un coltello nel burro, senza resistenza, e da quel momento ci troviamo senza più niente da dire, non ci sono parole ma solo odori nauseabondi, montagne di immondizia ed enormi maiali che grufolano, capre e feci e rumori e gasolio e ruderi pericolanti e tende cinesi e i nostri teli blu che, visti da qua sotto, non hanno più niente di affascinante.
Lì sotto, a bollire sotto un sole che farebbe marcire ogni cosa viva, ci sono uomini e donne, centinaia e migliaia e decine di migliaia che si muovono in un orizzonte confinato dal niente delle merci riciclate e dall’inesistenza di una speranza, anche fosse una sola, che le cose per loro cambieranno. Sono qui, camminano, parlano, vivono anche in qualche modo, ma a noi sono saltate le valvole della capacità di comprendere come sia possibile, nemmeno riusciamo più ad avvicinarci davvero al loro dolore, ma solo possiamo guardarlo, stupefatti. Qui è tutto diverso, è troppo per poter comprendere, addirittura immagina- re, bisognerebbe viverci dentro e per chissà quanto tempo, è molto peggio che da ogni altra parte disgraziata di questo mondo storto che ci è capitato di vedere.
Ci spiegano che un censimento notturno conterebbe molte meno persone di quelle che ci vivono di giorno, in questo inferno. Perché risultare residenti qui dà diritto a due litri d’acqua potabile al giorno e a una visita medica al mese. Dove sono finiti gli aiuti umanitari? Le montagne di dollari sono state sostituite dalle montagne di immondizia e nulla è rimasto, se non i cessi chimici arrivati in grande quantità durante i primi giorni del sisma secondo le propor- zioni volute dagli uffici delle Nazioni Unite (uno ogni venticinque persone circa), salvo poi accorgersi che non c’erano camion che li potessero svuota- re o strade sgombre di macerie dove i camion potessero circolare. Dov’è la portaerei italiana che un mese dopo il terremoto ha raggiunto Port-au-Prince (non prima di aver fatto un saltino in Brasile per vendere tecnologia militare) al fine di portare un «concreto aiuto» nella forma di una sala operatoria e di degenza per una trentina di pazienti. E che un mese e un giorno dopo il suo arrivo era ancorata a Santo Domingo, come ha affermato il suo comandante nel corso di una telefonata in diretta a Porta a Porta, mentre dall’altra parte dell’isola Medici senza frontiere aveva già operato migliaia di persone, in ospedali da campo la cui installazione è costata infinitamente di meno del viaggetto del gioiello della nostra marina militare.
Gli aiuti. L’ufficio che si occupa di redigere statistiche per conto dell’Unhcr dell’Onu ha certificato che nell’immediatezza del terremoto l’Italia ha contribuito con un importo pro capite inferiore di circa un ventesimo rispetto a quello, ad esempio, della Svezia, e inferiore, sempre con riferimento al numero di abitanti, a una nazione ricca e prosperosa come il Gabon.
Nell’aprile del 2011, sotto i nostri teli o nelle tende vivono 700.000 persone, qualcuno dice un milione. Dice che erano un milione e 800.000 un anno fa. Port-au-Prince di abitanti ne aveva quasi tre milioni e in almeno 600.000 sono scappati verso le campagne per scoprire ben presto che gli aiuti alimentari si fermavano nella capitale e nelle campagne si moriva di fame. Così sono tornati, e sotto i teloni blu degli aiuti internazionali adesso sguazzano nel mare di fango nero che si forma quando piove – e come piove, a volte – e cercano di scampare almeno al colera portato dai soldati nepalesi delle Nazioni unite, e che i cessi chimici delle Nazioni unite dovevano evitare.
Che isola perduta ci sembra Haiti. Improvvisamente ha invaso le pagine dei giornali con il terremoto e dopo un silenzio di secoli ne ha fatto un graffio sulle carte geografiche, un luogo inesistente e relegato all’interno di una dimensione che confina con il mito (Tortuga, i pirati, gli schiavi ribelli, il vo– odoo…). Eppure, per un tempo troppo breve, precisamente quello concesso dai ritmi della nostra informazione, più che imperfetta e sensazionalistica, è diventata un luogo reale, capace di farsi scoprire tanto drammaticamente e storicamente segnato dal dolore, da sempre segnato dal dolore e dal sopruso, da far scrivere a un’autrice haitiana contemporanea, Yanick Lahens, che questa terra altro non è che «l’Isola dove la disgrazia ha logorato le anime». Piuttosto impietosa, la definizione, così come impietoso e duro è l’auspicio conseguente che la stessa Lahens pone ad esordio di un capitolo del suo Il colore dell’alba (Barbès Editore, 2010): «Se è vero che Dio ha creato questo mondo, gli auguro di essere torturato dai rimorsi».
Sull’aereo per Port-au-Prince ho letto un romanzo molto bello (Fratello, sto morendo di Edwige Danticat, Piemme, 2008). Tante Denise, una donna anziana profondamente rispettosa dei santi cristiani ma anche dei loas della tradizione voodoo, nella sua saggezza antica e disincantata, confusa e di- sperata, racconta la storia di Dio e dell’Angelo della morte, che si trovano in rue Tirremasse e si sfidano a chi è più benvoluto dalla gente del quartiere. Bussano a una porta e chiedono alla vecchia che li accoglie un bicchiere d’acqua, che a Dio viene rifiutato, non invece all’Angelo della Morte: «Perché l’Angelo della Morte non fa preferenze. Ci prende tutti, magri e grassi, giovani e vecchi, ricchi e poveri, brutti e belli. Tu, invece, dai la pace ad alcuni e la guerra ad altri, come a noi di Bel Air. Alcuni li fai rimpinzare di cibo e altri morire di fame. Dai potere a certuni e rendi indifesi altri. Dispensi la salute a qualcuno e la malattia a qualcun altro. Concedi a taluni tutta l’acqua di cui hanno bisogno e a noi appena un goccio».
La storia dell’isola è quella di un luogo segnato nel momento stesso in cui decide di nascere. E’ il 1804 e Haiti riscatta la conquistata libertà di nazione di schiavi affrancati con un debito enorme che contrae nei confronti di Bonaparte e delle sue dodici cannoniere al largo della capitale. Ci dice il nostro amico Evel, che ci accompagna nel viaggio: «è stato nella storia l’unico paese risultato vincitore ad aver pagato un debito (e che debito!) alla nazione sconfitta». Un debito che avrebbe continuato a onorare per secoli, fino a condannarsi a una nuova schiavitù, quella del prestito internazionale e poi delle banche statunitensi e dei marines che la occuparono la prima volta nel 1914, quando fu ritenuto prudente garantire il credito prelevando due casseforti della Banque National d’Haiti, la seconda volta dal 1915 al 1934, la terza dal 1959 al 1963.
Che nazione, con il suo Stato che non esiste e la sequela di dittatori che in forme sempre più creative hanno depredato l’isola, da Lescort a Magloire brache di ferro, ai Duvalier padre e figlio, a Cédras, con le bande criminali al soldo dei presidenti di turno, anche di quelli che dopo aver rappresentato la speranza di un popolo intero, sono passati dal coraggio rivoluzionario di sciogliere l’esercito (Aristide del primo mandato, terminato, guarda caso, con un colpo di stato dopo sette mesi) alla militarizzazione di bande criminali che hanno rispolverato le violenze e la ferocia dei tonton macoutes duvalieristi, a loro volta affrancati e cooptati dal governo. Un paese che è il peana dell’assenza dello Stato e che ha rappresentato il trionfo della dottrina Monroe del «cortile di casa».
Un paese tropicale ormai deforestato al 90%, dove si importano le banane. Un paese di infinitamente poveri, che adesso stanno sotto i nostri teloni. A vivere, si fa per dire. Rispondeva Yanick Lahens, a chi domandava: «Cosa lascia il terremoto?» «Lascia l’oscenità della povertà», quella stessa che ancor prima del 2010 le faceva scrivere che «in quest’isola la miseria non ha mai fine. Più scavi e più ti trovi in una miseria più grande della tua».
Dunque, vivere o condurre una guerra quotidiana? Eccone il bollettino dell’aprile 2011: 14 milioni di cittadini, di cui 4 all’estero, il 15% della popolazione che detiene l’85% della ricchezza nazionale, il 90% della popolazione senza acqua potabile, il 60% non ha assistenza sanitaria, un terzo non dispone in casa di servizi igienici, il 95% delle abitazioni utilizzano legna o carbone. Solo il 20% dei giovani frequenta la scuola primaria. Il salario minimo giornaliero (minimo per legge e massimo di fatto) è di circa 200 gourde – tre euro – quando se ne spendono in media almeno 120 al giorno per il trasporto e il vitto di un operaio. Il resto, 80 gourde − poco più di un euro − serve per: affitto, alimentazione della famiglia, scuola, trasporti, cure mediche, vestiario e poi cinema, teatro, crociere, parrucchiera e pizza, la domenica. Che vi basti e soprattutto, ammonisce Monsieur Georges Sassine, presidente dell’Associazione delle industrie: «è inaccettabile che nelle industrie si vadano formando sindacati».
Viene da chiederci cosa ci facciamo in questo disastro. Mi sarebbe venuto poi da chiedermi cosa ci siano venuti a fare Fabrizio e Romina, e quanto possano contare le nostre gocce di niente in un mare infernale. Evel però ci dice che Haiti ha bisogno di noi. Ci sorprende. La nostra associazione – Nova Onlus – si occupa di adozioni internazionali, ma Evel non dice «i bambini di Haiti», non dice «i bambini abbandonati di Haiti» ai quali è stata riservata in Italia, terra di mamme e di pastasciutta, tanta pelosa e inutile attenzione. Qualcuno si ricorda di un dibattito in televisione in cui l’onorevole Alessandra Mussolini, allora presidente della commissione bicamerale infanzia, tuonava che era indispensabile intervenire subito per portare via dall’isola i bambini, perché subivano oltre che le devastanti conseguenze del terremoto anche ogni genere di sevizia? Qualcuno si ricorda che durante lo stesso dibattito nemmeno l’onorevole Carlo Giovanardi, che pure era parte della stessa maggioranza di governo, ha potuto sottrarsi al dovere di legalità e buon senso, rispondendole che ciò che invocava l’onorevole Mussolini era di fatto un’invasione militare dell’isola e un rapimento di massa?
Evel ci dice che ad aver bisogno sono loro, gli haitiani, dimenticati per secoli e ricoperti dai teloni blu dopo aver vissuto pochi mesi di telegiornali quando un terremoto li ha resi famosi. Evel ci dice, e lo ripete tante volte: «Haiti ha bisogno di voi». «Non al nostro posto – dice – ma per noi». Sarà vero? O sarà vero il contrario, che siamo noi ad aver bisogno di loro per non perdere quel che resta della nostra umanità e per non sentire mai – o quasi mai – la nostalgia della televisione e dell’Isola dei famosi? Che domande stupide che si fanno a volte. Siamo stati qui e ci siamo ritornati, e questo è un fatto. Ed è un fatto che Fabrizio e Romina si ostinino ancora a parlare di Haiti, con stupore, umanità e ferocia. E senza umanità, come ama ripetere il nostro amico Evel, l’uomo non è niente. Il resto sono chiacchiere.
Leggi l’introduzione de La fame di Haiti – Link
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