di Franco Pezzini 

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mummia59Esumanti vittoriani 

Andando oggi a Bray, sulla porta dei leggendari studi dove la Hammer degli anni d’oro trasformò indefinitamente di film in film la vecchia villa di Down Place e le sue dipendenze, è inevitabile pensare alle persone che tanto frequentemente varcarono quel cancello. I volti in eterno ritorno di un gotico popolare carico di pulsioni e di rito, figure iconiche di un intero sistema mitico e insieme idealmente persone di famiglia – perché con i membri della squadra Hammer avresti preso il tè delle cinque, chiacchierato di buoni libri e alla fine di te stesso.

Se in quegli anni ci fossimo fermati presso il cancello della stradina a gomito, avremmo visto per esempio passare il delizioso Michael Ripper, il caratterista con gli occhi a palla presente più di ogni altro nei film della casa, e di volta in volta oste, gendarme, marinaio e così via, in una lanterna magica di ruoli secondari che riusciva a personalizzare col suo buffo garbo. Avremmo poi visto naturalmente qualcuna delle belle attrici – persone semplici, per nulla dive – minacciate di volta in volta da questo o quel mostro. Ma soprattutto avremmo visto passare i quattro uomini responsabili – almeno nel modo più diretto e personale – del miracolo per cui quest’angolo appartato e verdissimo di campagna inglese presso Windsor riuscì per qualche tempo a mettere in ombra i mega-studios di Hollywood, facendo convergere qui le attenzioni dei cultori di fantastico di tutto il mondo.

A partire dal birichino Jimmy Sangster, il brillante sceneggiatore i cui copioni venati di cinismo e grondanti ambiguità reinventano il sapore del gotico; e che dopo riletture dei miti di Frankenstein (1957) e di Dracula (1958), ora in The Mummy (La mummia) sa rielaborare liberamente personaggi e suggestioni dall’intero ciclo “egizio” Universal, ma con ben altra intensità e credibilità simbolica rispetto agli sviluppi pulp degli anni Quaranta. Sull’onda anzi dell’orgogliosa riappropriazione da parte della Hammer di epopee in primo luogo britanniche, Sangster riconduce il tutto, come già nella versione di Karloff, all’orizzonte di Albione. Sia pure con risvolti (ancora una volta) provocatori, perché il nuovo film non è certo un inno al colonialismo imperiale; e anzi è tutto incentrato sul tema delle emozioni bloccate, paralizzate, serrate come in bende dai valori di un mondo, trasmessi di padre in figlio insieme ad arroganza culturale e malcelata intolleranza. Qualcosa che accomuna malinconicamente l’Antico Egitto e il Paradiso Perduto del gotico Hammer, l’età vittoriana in cui si ambienta anche il nuovo The Mummy, ma a specchio naturalmente del mondo coevo.

Sarebbe poi entrato il regista Terence Fisher, il “vecchio ciacchista” che ha offerto una nuova primavera all’horror conquistandosi fama planetaria: un (neo)vittoriano capace di offrire al sensuale, al torbido e all’orrido tanto più forza col non mostrarli, lasciandoli allusi e frementi sottotraccia. I suoi non sono mostri, dirà, come quelli che ama il “giovane” pubblico americano goloso di baracconi & meraviglie; sono piuttosto fantasmi, in conformità con un peculiare stile britannico e insieme con un senso più sottile dell’orrore, dai risvolti anzitutto (ma non solo) interiori.

Uno stile che ripropone in questo The Mummy, girato a partire dal febbraio 1959 e uscito nel settembre dello stesso anno. E che inizia nel 1895 quando una spedizione del British Museum guidata dall’archeologo Stephen Banning (molto diverso dall’omonimo simil-cowboy del film Universal, e ora interpretato dal pinguinesco ma più credibile Felix Aylmer) sta riportando alla luce una tomba egizia. Una tomba strana, curiosamente lontana dalla valle del Nilo (per spiegare, è ovvio, la mancanza di congrui panorami desertici e giustificare l’effetto-sottobosco dei britannicissimi Bray Studios), e che sembra promettere il suggello a una vita di ricerche. Il fatto è che nei pressi è stato rinvenuto un emblema delle guardie di Karnak (ecco tornare il nome della setta Universal): un indizio che permette di collegare la tomba con l’enigma della principessa Ananka (sempre lei), scomparsa con tutto il suo seguito nel corso di un pellegrinaggio.

Sangster, Fisher: ma a dare forza al nuovo The Mummy sono naturalmente gli interpreti, in particolare i due mattatori che ora vedremmo varcare i cancelli (anzi, più probabilmente sarebbero già lì – il ritmo degli attori della squadra è ascetico e impone di arrivare al lavoro prestissimo). A partire da colui che, come al solito sul set, collabora col regista affinando la trama, inventando intere scene, ma soprattutto offrendo la propria intensità e convinzione a un ruolo di per sé potenzialmente “povero”, quello cioè dell’eroe giovane John Banning figlio di Stephen. Si tratta naturalmente di Peter Cushing: e quando compare, il suo personaggio è bloccato nella tenda da una brutta frattura alla gamba. Il socio del padre, Joseph Whemple (una figura tratta non dal ciclo di Kharis, ma dal primo The Mummy), insiste con Stephen perché lo rimandi indietro per permettere un adeguato intervento chirurgico; ma l’anziano archeologo rimette sbrigativo la decisione al figlio, a fronte dell’imminente coronamento della scoperta, e John decide di rimanere. Ovviamente resterà azzoppato: e se quello della mutilazione iniziatica dell’eroe è un topos mitico classicissimo, intrigante è l’interpretazione che si tratti di un primo indizio del rapporto debilitante/castrante col padre e i suoi valori. Quel padre che al di là di un rispetto apparente per le decisioni del figlio, sostanzialmente non si cura di lui, arrivando a mollarlo da solo nella tenda quando, pochi giorni dopo, la tomba verrà scoperta. Tale legato di freddezza e repressione emotiva (più insidiosa perché mai esplicitamente rilevata) riemergerà, come vedremo, in varie fasi della storia: e torniamo insomma all’orizzonte del controllo.

Arriva infine il gran giorno, l’ingresso della tomba viene finalmente liberato: però quando Stephen si appresta a varcarlo, ecco intervenire un personaggio in abiti occidentali ma col fez in testa – cioè, guarda caso, come i discepoli dei Gran Sacerdoti di Karnak del ciclo americano. Severo e insinuante, il tipo ammonisce gli inglesi a non entrare; Banning ribatte di avere tutti i permessi, ma quello incalza sulla pericolosità di violare la tomba… Solo più avanti apprenderemo che si chiama Mehemet Bey – un nome che rimanda ancora ai preti di Karnak, nello specifico a The Mummy’s Tomb: e a interpretarlo è ora George Pastell, cioè il cipriota Nino Pastellides specializzato in ambigui ruoli esotici. Inascoltato, può solo rammentare che chi deruba le tombe dell’Egitto muore: poi gli archeologi penetrano nella camera sepolcrale e trovano effettivamente il sarcofago di “Ananka Signora dei Due Regni, sacerdotessa del Gran Dio Karnak”. Dove, a parte il titolo più o meno faraonico riservato alla defunta, ecco il Karnak dei pulp americani passare dichiaratamente a teonimo.

Mentre Banning euforico si attarda presso la mummia della regina, è il più sensibile Whemple a correre alla tenda per comunicare la scoperta a John che vi è bloccato. Ma la rimozione del Papiro della Vita da una nicchia nel muro della tomba fa scattare qualche meccanismo nascosto, si apre un vano… e quando, richiamati dall’urlo di Stephen, il figlio e Whemple si affrettano al sepolcro, rinvengono il vecchio archeologo riverso, sconvolto dal terrore e ormai demente.

Asportato il materiale contenutovi, la tomba maledetta viene fatta esplodere – un po’ scelleratamente, da un punto di vista archeologico, ma tant’è: comunque Mehemet Bey giura al “Gran Dio Karnak” adeguata soddisfazione, apprestandosi a rientrarvi in qualche modo per recuperare lo strumento della vendetta. Si noti che in tutto il film vedremo sempre e solo lui a rappresentare il culto di Karnak: ciò che in fondo offre una prima ambiguità nel tessuto simbolico delle dinamiche di controllo. Se nelle pellicole americane si poteva parlare di una setta, in questo caso la questione non è chiara: potrebbe esserci una collettività indigena che mantiene vivo il culto, ma all’estremo opposto Mehemet Bey potrebbe persino averlo reinventato – e in quel caso si tratterebbe di una delle prime icone di un altro personaggio poi caro all’horror, il cultista maniaco. Ma la sceneggiatura non è interessata a risolvere la questione, e ne capiremo meglio il motivo tra poco.

La scena si sposta in Inghilterra tre anni dopo, nel 1898, quando cioè John viene convocato alla clinica dove il padre è ricoverato. Sembra che il vecchio abbia recuperato qualche tipo di lucidità e vuole vedere il figlio: ma quando improvvisamente gli accenna agitato alla mummia, non si riferisce a quella di Ananka ora approdata al British Museum. Ce n’è un’altra, vivente, emersa quando lui nella tomba aveva letto le formule del Papiro della Vita, e vuole vendicarsi di loro. Naturalmente John addebita il tutto alle sue provate condizioni mentali, e dopo qualche inutile parola di rassicurazione se ne va lasciandolo in ambasce.

In un pub, due facchini alticci (le classiche macchiette da film Hammer, costruite con un occhio ai buffoni dei drammi shakespeariani) si preparano a trasportare in una villa a poca distanza dalla clinica una certa cassa di reperti egizi. Uno commenta che il committente ha una faccia che non gli piace, “è forestiero”. L’altro ribatte: “Mica è colpa sua, poverello” – una dialettica che può dire qualcosa sullo scarto simbolico tra Universal e Hammer. Se lo straniero è avvertito come potenzialmente minaccioso, l’eredità dell’Impero ne impedisce una demonizzazione: mentre cioè i preti di Karnak degli anni Quaranta erano immagine del Nemico che tentava d’infiltrarsi nella società americana, la mitologia geografica Hammer guarda a tutt’altro. Particolarmente con il vittoriano Fisher, il focus è la dimensione etica, psicologica e culturale assai più che di appartenenze socio-politiche; anche se la forte polarizzazione tra eroe e mostro, il confronto col Male, presenta tutte le ambiguità del caso.

Comunque tanta è l’abilità dei due improvvisati facchini, che la cassa finirà con lo sprofondare in una palude: ma il committente – naturalmente Mehemet Bey – osserva con aria distratta i vani tentativi dei paesani di recuperare il carico nell’acqua profonda. La notte egli torna sul posto, e invocato Karnak prende a scandire le formule del Papiro della Vita… e all’improvviso la Mummia emerge dalle acque. Interpretato da Christopher Lee – eccolo, l’altro nome-chiave del film – il personaggio di Kharis acquisisce non solo un’imponenza fisica senza precedenti, ma un’intensità e un senso rapace di minaccia del tutto assenti nelle malinconiche interpretazioni di Chaney. Come ai tempi di Karloff ma in modo più vicino alle nostre emozioni, la Mummia fa paura: e la scena in cui raggiunge il vecchio Stephen (confinato per la sua agitazione violenta in una cella imbottita), poi forza inesorabile le sbarre della finestra e strozza la vittima terrorizzata senza che nessuno possa difenderla, è un gioiello di tensione.

Il coroner se l’è sbrigata liquidando il delitto come “per mano di ignoti”, ma John non riesce a fermarsi lì e con l’affezionato Whemple inizia a scavare tra le carte del padre. Recupera così il fascicolo sulla storia di Ananka, ricostruita grazie alla scoperta della tomba: e ciò permette il solito flashback in costume sul remoto passato egizio, però con due caratteristiche radicalmente nuove.

Anzitutto la Hammer ha impresso una svolta rivoluzionaria alla visione dell’horror anche con l’abbandono del bianco e nero a favore del colore: e se il suo mondo vittoriano vede in genere ricorrere morbide tinte pastello, il flashback sul 2000 a.C. apre a un tripudio di dorature e colori vivaci. Qualcosa che suggerisce un fasto sontuoso, regale e insieme ferocemente primitivo, e che stacca dalle scene analoghe dei vecchi film, oniriche e ancora improntate all’eredità degli Egitti di cera espressionisti.

Se d’altronde il colore apre le porte dell’horror al rosso sangue, la Hammer ne fa un uso assai parco: ma con Fisher al timone, ciò che viene suggerito è assai più forte di quanto si possa mostrare. Morta Ananka durante il pellegrinaggio, lo sterminio dei suoi servi – in particolare le ancelle, con quanto di sadismo ciò comporti – vede enfatizzata la responsabilità dell’inesorabile sacerdote Kharis; così come la sua condanna per aver tentato di risvegliare l’amata col Papiro della Vita è seguita dalla scena disturbante del taglio della lingua (dove pure non si vede una goccia di sangue) prima della bendatura da sepolto vivo. Kharis è un grande eroe nero, e insieme una grande vittima – oltre che un nuovo non-morto per Lee già creatura di Frankenstein e conte Dracula. E pronto a un nuovo scontro con la nemesi Cushing, a lui provocatoriamente speculare e opposto.

Si noti però che i parallelismi tra mutilazioni e invalidità di Kharis e John sono continui: uno limitato dalle bende e l’altro dalla gamba lesa, uno privato della lingua e l’altro della capacità di manifestare sentimenti, entrambi in qualche modo in necrosi, entrambi segnati dall’esperienza di qualche profanazione del riposo di Ananka – situazioni insomma dove proprio il tema del controllo acquisisce profondità mai prima sviluppate.

Nella villa dove ha preso alloggio, Mehemet Bey ha votato un tempietto al dio Karnak, che vediamo raffigurato in forma di ibrido zoomorfo di natura incerta (ma ricorda un po’ il tremendo Seth dei miti egizi); e di lì spedisce Kharis verso una nuova missione. Terrorizzato un bracconiere (il solito adorabile Michael Ripper), la Mummia fa irruzione a villa Banning e strangola Whemple, che aveva appena liquidato come leggenda gran parte del racconto su Ananka. Se alla clinica nessuno aveva potuto soccorrere Stephen, ora John ci prova – ma i proiettili raggiungono invano l’invincibile creatura. Nota intrigante, Whemple ha il viso segnato e la statura di quel Raymond Huntley che, interpretando nel ‘27 Dracula nei teatri inglesi e richiesto di varcare l’Oceano, era risultato così costoso da spingere l’impresario americano Horace Liveright a sostituirlo con l’allora sconosciuto Bela Lugosi. In The Mummy, dunque, la sua uccisione da parte del personaggio interpretato da Lee, a sua volta immenso Dracula, finisce col tradire un gustoso sapore di ricambio generazionale.

Dopo un iniziale scetticismo sull’invulnerabile assassino bendato, l’ispettore Mulrooney (Eddie Byrne) comincia a ricredersi in seguito agli interrogatori del bracconiere, dei facchini e del poliziotto locale. Ma mentre Mehemet Bey spedisce Kharis a completare la missione eliminando anche John, questi nota casualmente quanto sua moglie Isobel coi capelli sciolti somigli ad Ananka. A interpretare le due donne è l’attrice francese Yvonne Furneaux, che ancora in un’intervista epistolare nel 2009 ci riportava il ricordo della bella esperienza di lavoro con Cushing e Lee. Aggiungendo tra l’altro: “A essere sinceri, secondo me il vero regista del film è stato Peter Cushing. I suggerimenti che forniva al regista erano eccezionali, e sono certa che è stato il suo contributo a rendere il film un prodotto di qualità”.

Alla luce di quanto osservato sull’Ananka del ciclo Universal, una seconda ambiguità di questo The Mummy sta nel fatto che l’identità di sembiante tra l’Isobel vittoriana e l’antica regina non viene mai spiegata (almeno nella versione oggi circolante). Si potrebbe pensare all’ennesimo caso di reincarnazione, ma sceneggiatore e regista sembrano lasciare una qualunque spiegazione alla fantasia del pubblico. Per assurdo potrebbe trattarsi di una semplice somiglianza, che grazie all’identità dell’attrice rende lo spettatore partecipe dell’ossessione d’amore di Kharis. Tanto più che a quell’ambiguo rapporto di doppio fa riscontro l’altro (non fisico ma) psicologico e culturale tra John e suo padre: un’altrettanto ineluttabile “reincarnazione” degli stessi limiti e della stessa inaffettività. Basti notare il rapporto freddino che John intrattiene con la bella e innamorata Isobel, a conferma di un legato d’incapacità ad amare cui si contrappone una sorta di eccesso di passione da parte di Kharis per Ananka. Ancora una volta, insomma, a Cushing interprete freddo dei demoni di una cultura fa riscontro la rovente, mostruosa (nel senso proprio dell’eccesso) intensità sensuale di Lee.

Invano Isobel cerca di convincere il marito a fuggire o a chiedere almeno la protezione della polizia (per quanto poco essa valga, si può supporre, contro l’invincibile titano): John le ingiunge di chiudersi in camera, poi attende la Mummia nella villa, armato di un fucile da caccia – del tutto inutile quando la creatura irrompe sfondando la porta-finestra. Dopo averla trafitta invano con una zagaglia, John sta infine soccombendo quando il grido di Isobel, che nonostante tutto è accorsa, spiazza Kharis. Credendo di riconoscere la donna amata la Mummia si ritira, mollando John malconcio ma vivo: e l’interpretazione che al di là della corazza di bende Lee riesce a offrire – il turbamento, la perplessità, la scelta da parte di una creatura che in teoria non è più capace di scegliere – è a suo modo straordinaria.

Quando però John scopre dall’ispettore che un egiziano è venuto ad abitare in zona, si reca sornione da lui – cogliendolo di sorpresa, perché Mehemet Bey lo credeva morto. John mira a individuare un nervo scoperto dell’ospite: e sentendolo accusare gli archeologi di profanazione, coglie l’occasione per sferrare un attacco frontale al culto del dio Karnak.

Piccato per averlo sentito definire da John “un dio di terz’ordine”, l’egiziano ribatte: “Non per quanti credevano in lui”, e l’inglese commenta che “il loro grado di intelligenza doveva essere molto basso”. Mehemet Bey lo accusa allora di intolleranza, e merita riprodurre il dialogo, anche se un po’ impoverito dalla traduzione italiana.

(John:) “Non intollerante: solo pratico”.

(Mehemet Bey:) “Intollerante. Poiché siete incapace di sperimentare la grandezza di un Dio, voi bandite l’idea della sua importanza. Ma credetemi: per quelli che adorano e che servono Karnak egli è onnipotente”.

(J.:) “Non mi direte che c’è ancora chi crede in queste fandonie”.

(M.B.:) “Ora parlate di una materia di cui siete ignorante. Avete scalfito la superficie, non sapete nulla. Vi assumete il diritto di turbare la serenità e la pace degli Dei, spiate con occhi impuri e frugate con mani immonde. […] Ma gli Dei che la vostra curiosità ha importunato sono desti, ora. Un giorno anche voi sarete punito”.

(J.:) “Punito? Da chi?”

(M.B.:) “Ci sono misteri di cui la civiltà non ha la chiave. Ma se avete scelto questo mestiere dovete essere preparato a soffrirne le conseguenze. Quali che siano”.

(J.:) “Conseguenze… sembra quasi una minaccia”.

Ovviamente Banning sta provocando l’interlocutore, che finisce così col rivelare che il culto è ancora vivo; ma l’attacco ben si inquadra nel sistema simbolico del positivista neovittoriano Fisher. Sarebbe fuorviante interpretare questo duro confronto in termini di semplice contrapposizione tra scienza e fede. Certo, da un lato c’è un campione di quella scienza che per il regista rappresenta un tema di fortissima fascinazione, e di ammirazione persino negli eccessi – si pensi al barone Frankenstein cui Cushing offre il volto per un intero ciclo con toni sempre più cupi e amari, e nonostante i suoi crimini svettante sui tiepidi filistei all’intorno. Ma dall’altra parte c’è il fautore di un culto (convenientemente inventato) che semina vittime umane: una realtà che non specchia, come nella saga mummiesca degli anni di guerra, timori d’infiltrazioni o altre minacce contingenti, ma espressioni di Male ben più radicate nella storia umana. D’altronde il motivo contingente di smascherare l’egiziano finisce col tradire in John – nel suo compiaciuto disprezzo, nella soddisfatta offensività – i suoi veri sentimenti per esperienze culturali altre. A fotocopia in fondo dell0 stesso sprezzo ostentato dal padre-modello: la terza ambiguità del film, insomma, sta nell’equivocità del ruolo di un “buono” che (grazie soprattutto alla sottigliezza dell’interpretazione di Cushing) non appare per valori e cultura del tutto tranquillizzante.

Poi i due si scusano reciprocamente per aver trasceso, e John si sta allontanando quando con un pretesto riesce a estorcere all’ospite che un certo reperto è della XIX dinastia, quella in sostanza di Ananka. Quindi si congedano: e mentre Mehemet Bey corre a implorare il perdono del Dio per aver fallito nell’eliminazione dell’ultimo profanatore – ma conta di provvedere entro l’alba – John va a confrontarsi con l’ispettore circa l’attacco che intuisce imminente. Nei fatti, le forze a disposizione sono poche, un paio di poliziotti più il sergente che sta radunando gli uomini del villaggio: ma il referente comunitario resta qualcosa di molto vago, e la partita riguarda essenzialmente i pochi interessati. Poi l’ispettore esce a piantonare la casa dall’esterno, portandosi dietro Isobel; mentre John armato di fucile attende ancora una volta il killer sovrannaturale all’interno della villa. Con una cocciutaggine che si è tentati di collegare alla convinzione di una superiorità culturale.

Stavolta Mehemet Bey non si fida, e accompagna Kharis in missione. Uccide il bracconiere incontrato nel bosco e poi uno dei poliziotti, mentre la Mummia stordisce l’ispettore; poi penetrano nella villa, dove ancora una volta invano John cerca di fermare la creatura. È ormai mezzo strangolato quando Isobel rientra, e il marito riesce a comunicarle di sciogliersi i capelli – per far emergere al massimo la somiglianza con Ananka. Lo stratagemma ha successo, Kharis si blocca e quando Mehemet Bey gli ordina di uccidere la donna non obbedisce; l’egiziano allora attacca Isobel, e Kharis per risposta (ecco il topos della ribellione del controllato) gli spezza la schiena. Poi prende tra le braccia la donna svenuta e, come capiscono con orrore John e l’ispettore, si allontana verso la palude.

Kharis entra nell’acqua sempre più profonda con Isobel riversa tra le braccia: ma John riesce a svegliarla, gridandole di imporre alla Mummia di metterla giù. Grazie al fascino che esercita sulla creatura, Isobel ottiene di farsi lasciare: poi, seguendo le indicazioni del marito, si sposta lentamente verso di lui e a un suo cenno si abbassa. A quel punto gli uomini del villaggio radunati sulla riva sparano tutti insieme, e Kharis crivellato di colpi scompare nella palude impugnando il Papiro della Vita: un finale misterioso – le precedenti pallottole non avevano recato effetto – ma in fondo simbolico, rispondente all’idea fisheriana che le creature sovrannaturali trovino distruzione solo grazie a forze elementali come il fuoco e l’acqua. E comunque all’abbandono da parte della donna tanto disperatamente amata: Ananka, del resto, richiama il termine greco Ananke, la Necessità o il Fato – e la sua reincarnazione Isobel è davvero per Kharis la donna fatale.

Certo la lavorazione risulta fisicamente travagliata, come ricorda nell’autobiografia Lee, che riporterà dal ruolo vari acciacchi “sfondando una finestra di vero vetro e una porta che qualcuno aveva chiuso a chiave dall’interno senza avvertirmi, col risultato che quasi mi slogai una spalla; inoltre mi avevano piazzato della cariche esplosive su lamine nascoste tra le bende, per creare l’illusione di veri colpi di fucile. E […] mi procurai uno strappo muscolare alla spalla camminando per ottantasette passi in una palude con Yvonne Furneaux in braccio, di notte, per ben tre volte e con le braccia completamente distese, perché la fanciulla non poteva mettermi le braccia intorno al collo, dato che era svenuta per il terrore di trovarsi tra le mie grinfie”. Ma il risultato è grandioso: e se i successivi film mummieschi, anche della Hammer, non riusciranno ad avvicinarvisi neppure lontanamente, questo The Mummy sa provocare ben oltre gli spunti-cardine di un certo filone sui mostri. Sulle scene del suo teatro di ambiguità sono modelli educativi, poteri culturali, agenzie di tranquillizzazione a buon prezzo, e soprattutto l’incapacità di metterne a fuoco le insidie. Credendo che basti rottamare il passato nella palude accanto a casa per essere uomini liberi.

(4–Continua)