di José “Pepe” Mujica*
Un discorso dell’ex presidente dell’Uruguay José “Pepe” Mujica, estratto dal libro: La felicità al potere (A cura di Cristina Guarnieri e Massimo Sgroi. Traduzione di Cristina Guarnieri, Silvia Guarnieri e Filippo Puzio), Edizioni EIR, 2015, pp. 304, € 8.
Cari amici, la vita con me è stata straordinariamente generosa. Mi ha regalato infinite soddisfazioni, ben al di là di quanto avrei mai osato sognare, ma sono quasi tutte immeritate. Nessuna lo è più di quella di oggi: trovarmi qui, nel cuore della democrazia uruguayana, circondato da centinaia di teste pensanti. Teste pensanti, a destra e a sinistra, teste pensanti da tenere in alto. Ricordate Paperone, lo zio milionario di Paperino? Nuotava in una piscina piena di monete, aveva sviluppato una passione fisica per il denaro. Io, invece, penso di essere uno a cui piace fare il bagno in piscine colme di intelligenza, di culture lontane, di sapienze diverse. E tanto meglio quanto più mi sono estranee; meno coincidono con quel poco che so, più sono contento.
Il settimanale «Búsqueda» usa una bella frase come frontespizio: «Quel che dico non lo dico come uomo sapiente, ma cercando insieme a voi». Per una volta siamo d’accordo: quel che dico, non lo dico come contadino saputello, né come colto cantastorie; lo dico ricercando insieme a voi. Lo dico mentre cerco, perché solo gli ignoranti credono che la verità sia definitiva e irremovibile, quando invece è a malapena provvisoria, fuggevole. Bisogna inseguirla mentre scappa da un nascondiglio all’altro, ed è un uomo misero chi si impegna da solo in questa partita di caccia. Bisogna farlo insieme, io con voi, con coloro che hanno fatto del lavoro intellettuale la ragione della propria vita, con quelli che sono qui e con i tanti altri che non ci sono.
Migliorare il Paese
Se vi guardate attorno sono certo che riconoscerete alcuni volti; sono qui presenti, infatti, persone che si muovono in contesti di lavoro affini ai vostri. Tuttavia scorgerete anche molti altri volti sconosciuti, perché il criterio delle convocazioni per questa giornata è stato l’eterogeneità. C’è chi lavora con atomi e molecole e chi si dedica alle regole della produzione e dello scambio economico; ci sono persone che si occupano delle scienze pure e chi, quasi agli antipodi, studia le scienze sociali; uomini e donne che si occupano di biologia, altre di teatro, di musica, di educazione, di diritto o del carnevale. E, per non farci mancare nulla, ci sono anche persone che si dedicano all’economia: macroeconomia, microeconomia, economia comparata e persino qualcuno che lavora nel campo dell’economia domestica.
Tutte queste teste pensanti si cimentano in diversi settori e possono contribuire a migliorare il nostro Paese proprio a partire dalle loro distinte discipline. Sono molte le cose che possiamo intendere con l’espressione “migliorare il Paese”, ma il senso che vogliamo darle in questa giornata consiste nell’offrire un impulso a quegli articolati processi complessi che possono moltiplicare per mille la ricchezza intellettuale oggi qui riunita. “Migliorare il Paese” significa che tra vent’anni, per un avvenimento come questo, non basterà lo Stadio del Centenario, perché l’Uruguay traboccherà di ogni sorta di ingegneri, filosofi e artisti. Non vogliamo un Paese che batta i record mondiali per il puro piacere di farlo. È dimostrato, però, che quando l’intelligenza raggiunge un certo grado di concentrazione nella società diviene contagiosa.
L’intelligenza distribuita
Se un giorno riempiremo gli stadi di persone colte e ben istruite, sarà perché fuori, nella società, ci saranno centinaia di migliaia di uruguayani che coltivano la loro capacità di pensiero. L’intelligenza che si addice a un Paese è l’intelligenza distribuita: essa non si conserva solo nei laboratori o nelle università, ma cammina per le strade, si usa per seminare, per tornire, per manovrare una gru o programmare un computer. Anche per cucinare o per accogliere un turista è necessaria la medesima intelligenza: qualcuno salirà più scalini di altri, ma la scala è la stessa. I primi passi sono identici per la fisica nucleare e per il lavoro agricolo: quel che è necessario, in tutte queste cose, è lo stesso sguardo curioso, assetato di conoscenza e molto anticonformista.
Se alla fine del cammino si giunge al sapere, è perché l’ignoranza ci ha fatto sentire inadeguati. Se impariamo, è grazie a un prurito che si acquisisce per contagio culturale fin dal momento in cui apriamo gli occhi sul mondo. Sogno un Paese in cui i genitori mostrino ai bambini un prato erboso e dicano loro: «Sai cos’è questo? È una pianta che trasforma l’energia del sole e i sali minerali della terra». O che indichino il cielo stellato e li facciano innamorare di quello spettacolo per indurli a riflettere sui corpi celesti, sulla velocità della luce e sulla trasmissione delle onde. Non preoccupatevi, quei piccoli uruguayani continueranno a giocare a pallone ma, quando vedranno saltare la palla, potranno pensare anche all’elasticità dei materiali che la fa rimbalzare.
Capacità di interrogarsi
Un proverbio del passato recitava così: «Non dare un pesce a un bambino, insegnagli piuttosto a pescare». Oggi dovremmo dire: «Non dare un dato a un bambino, insegnagli piuttosto a pensare». Il serbatoio di conoscenza che oggi è disponibile non si lascia contenere nelle nostre menti: resta fuori, accessibile in qualsiasi momento grazie a una ricerca su internet. Lì ci sono tutte le informazioni, tutti i dati, tutto quello che già si sa; lì, in altre parole, si trovano le risposte.
Quel che non si trova, però, sono le domande: il problema è avere la capacità di interrogarsi, saper formulare domande feconde che suscitino nuovi sforzi di ricerca e di apprendimento. E questa capacità si situa lì, in fondo, quasi incisa nell’osso del nostro cranio, tanto intima da non averne quasi coscienza. Impariamo semplicemente a osservare il mondo con sguardo interrogativo, e questo diventa il nostro modo naturale di guardarlo. Basta poco per fare nostra questa attitudine che ci accompagnerà per tutta la vita.
Soprattutto, cari amici, tutto questo è contagioso. In ogni epoca ci sono stati uomini che si sono dedicati all’attività intellettuale, incaricati di spargere il seme. Per dirla in altre parole, a noi molto care: a voi è affidato il compito di lanciare il mirabile allarme [1]. Per favore, andate per le strade e contagiate. Non risparmiate nessuno, abbiamo bisogno che la cultura si propaghi nell’aria, tra le case, che si intrufoli nelle cucine e arrivi perfino nelle stanze da bagno. Quando si riesce a far questo, la partita è vinta quasi per sempre, perché si spezza l’ignoranza essenziale che rende deboli molte persone, una generazione dopo l’altra.
La conoscenza è piacere
Abbiamo bisogno che l’intelligenza sia massificata. È quasi una questione di sopravvivenza: soprattutto dobbiamo cercare di diventarne noi stessi produttori più potenti. Tuttavia, in questa vita, non bisogna solo rivolgersi al produrre: bisogna anche godere. Sapete meglio di chiunque altro che nella conoscenza e nella cultura non esiste solo lo sforzo, ma anche il piacere. Dicono che ai corridori accada, a un certo punto, di entrare in una specie di estasi in cui d’un tratto non esiste più la stanchezza, resta solo il piacere. Credo che con la conoscenza e con la cultura succeda la stessa cosa. Si arriva a un punto in cui studiare, ricercare o imparare non costituiscono più uno sforzo, ma un puro godimento. Come sarebbe bello se questi manicaretti fossero a disposizione di tante persone!
Come sarebbe bello se nel paniere della qualità della vita che l’Uruguay può offrire alla sua gente ci fosse una buona quantità di consumi intellettuali! E non perché questo sia elegante, ma perché è piacevole, perché si può godere della cultura con la stessa intensità con cui si riesce ad assaporare un piatto di tagliatelle. Non esiste una lista obbligata di ciò che ci rende felici. Qualcuno potrebbe pensare che un mondo ideale sarebbe un luogo pieno di centri commerciali, e in quel mondo le persone sarebbero felici perché potrebbero caricarsi di borse ricolme di vestiti nuovi e di scatole piene di elettrodomestici.
Io non ho nulla contro questa visione, dico solo che non è l’unica possibile. Dico che possiamo pensare a un Paese in cui le persone scelgano di riparare le cose invece di buttarle via, o magari preferiscano una macchina piccola a una grande, o scelgano di coprirsi anziché aumentare il riscaldamento. Le società più mature non sperperano. Andate in Olanda e vedrete le città piene di biciclette; vi renderete conto che il consumismo non è la scelta della vera aristocrazia dell’umanità, è la scelta degli incostanti e dei frivoli. Gli olandesi si spostano in bicicletta, la usano per andare a lavoro, ma anche per recarsi ai concerti o nei parchi, dal momento che sono giunti a un livello in cui la loro felicità quotidiana si alimenta di consumi sia materiali sia intellettuali. Quindi, amici, andate e contagiate il piacere per la conoscenza. Intanto, il mio modesto contributo sarà quello di far sì che gli uruguayani vadano in giro in bicicletta, una pedalata dietro l’altra.
Anticonformismo
Prima vi chiedevo di contagiare lo sguardo curioso per il mondo, che sta nel dna del lavoro intellettuale. Ora amplio la richiesta: vi prego di diffondere l’anticonformismo. Sono convinto che questo Paese abbia bisogno di una nuova epidemia di anticonformismo, simile a quella che gli intellettuali generarono decine di anni fa. In Uruguay, noi che ci riconosciamo nella sinistra siamo figli o nipoti dello storico settimanale «Marcha» del grande Carlos Quijano [2]. Quella generazione di intellettuali aveva imposto a sé stessa il compito di essere la coscienza critica della nazione. Se ne andavano in giro con gli spilli in mano per far esplodere palloni e sgonfiare miti, soprattutto quello dell’Uruguay multicampione: campione della cultura, dell’educazione, dello sviluppo sociale e della democrazia. Saremmo diventati, invece, campioni del nulla! In quel periodo – negli anni Cinquanta e Sessanta – siamo riusciti a conseguire un unico record, quello di essere il Paese latino-americano che è cresciuto meno nel corso di venti anni: peggio di noi ha fatto solo Haiti.
Quegli intellettuali aiutarono a demolire l’Uruguay della siesta conformista. Nonostante tutti i difetti, preferiamo quell’epoca in cui eravamo più umili e con i piedi per terra, consapevoli della reale statura che abbiamo nel mondo. Ora dobbiamo recuperare quell’anticonformismo e cercare di renderlo qualcosa di presente, sottopelle, in tutto l’Uruguay. Se prima vi dicevo che l’intelligenza che serve a un Paese è l’intelligenza distribuita, adesso dico che l’anticonformismo utile a un Paese è l’anticonformismo distribuito. Quello che ha invaso la vita di tutti i giorni e che ci spinge a chiederci se non si potrebbe fare meglio quello che stiamo facendo.
L’anticonformismo sta nella natura stessa del vostro lavoro. Occorre che diventi per noi tutti una seconda pelle, una seconda natura. La cultura dell’anticonformismo non ci farà fermare sino a che non avremo ottenuto più chili di grano per ettaro e più litri di latte per mucca. Oggi si può fare tutto, assolutamente tutto, un po’ meglio di ieri, dal rifare il letto di un hotel al creare la matrice di un circuito integrato, ma abbiamo bisogno di un’epidemia di anticonformismo. Anche questo è cultura, anche questo si irradia dal centro intellettuale della società fino alla sua periferia.
È l’anticonformismo ad aver guadagnato il rispetto a piccole società e al loro operato. Buon esempio sono gli svizzeri: quattro gatti matti come noi che si permettono il lusso di andare per il mondo a vendere la qualità e la precisione. Quel che vendono, in realtà, sono l’intelligenza e l’anticonformismo che hanno sparpagliato in tutta la società.
Il cammino è l’educazione
Amici, il ponte tra questo oggi e il domani che vogliamo ha un nome e si chiama “educazione”. Badate bene: è un ponte lungo e difficile da attraversare, perché un conto è la retorica dell’educazione, un altro è decidersi a fare sacrifici, impegnarsi in un grande sforzo educativo e sostenerlo nel tempo. I cambiamenti nell’educazione producono un rendimento lento, nessun governo può goderne i frutti; essi mobilitano resistenze e obbligano a posporre altre richieste. Però bisogna farlo: lo dobbiamo ai nostri figli e ai nostri nipoti. Va fatto adesso, quando è ancora fresco il miracolo tecnologico di internet e si aprono opportunità mai viste per accedere alla conoscenza.
Io sono cresciuto con la radio, ho visto nascere la televisione, poi la televisione a colori e poi ancora le trasmissioni satellitari. All’improvviso, sul mio televisore sono apparsi quaranta canali, compresi quelli che trasmettevano in diretta dagli Stati Uniti, dalla Spagna e dall’Italia. Poi i cellulari, e ancora i computer, che inizialmente servivano solo per fare calcoli. Davanti a ciascuna di queste cose sono rimasto a bocca aperta, ma adesso, con internet, abbiamo esaurito la capacità di sorprenderci. Mi sento come quegli esseri umani che videro la ruota per la prima volta, o come quelli che videro il fuoco. Avvertiamo che ci è toccato in sorte di vivere un evento storico importante.
Si stanno aprendo le porte di tutte le biblioteche e di tutti i musei; sarà a disposizione ogni rivista scientifica e ogni libro del mondo, probabilmente qualsiasi film e qualsiasi musica. È imbarazzante. Per questo abbiamo bisogno che tutti gli uruguayani, soprattutto i più giovani, sappiano muoversi in questo torrente. Bisogna risalire la corrente nuotando come pesci nell’acqua. Ci riusciremo solo se la matrice intellettuale di cui parlavamo prima sarà solida, se i nostri piccoli sapranno ragionare in modo ordinato e se sapranno porsi le domande che vale la pena porsi.
È come se vi fossero due vie: lassù l’oceano di informazioni, mentre quaggiù ci prepariamo per la navigazione transatlantica. Scuole a tempo pieno, facoltà all’interno del Paese, istruzione di terzo grado massificata. E, probabilmente, l’inglese fin dall’età prescolare nelle scuole pubbliche, perché l’inglese non è la lingua che parlano gli yankees, è quella con cui i cinesi comunicano con il resto del mondo.
Non possiamo rimanere fuori, non possiamo lasciar fuori i nostri piccoli. Sono questi gli strumenti che ci permettono di interagire con l’esplosione universale della conoscenza: il mondo nuovo non ci semplifica la vita, ce la complica; ci obbliga ad andare più lontano e più in profondità nell’educazione, e non abbiamo compito più grande davanti a noi.
L’idealismo al servizio dello Stato
Cari amici, siamo in campagna elettorale, questa maledetta e benedetta campagna elettorale. Maledetta, perché ci obbliga a litigare e a gareggiare tra di noi. Benedetta, perché ci permette di sperimentare la convivenza civile. E ancora benedetta, perché nonostante le sue imperfezioni ci rende padroni del nostro destino.
In Uruguay abbiamo imparato a preferire la peggiore democrazia alla migliore dittatura. In campagna elettorale ci organizziamo in gruppi, fazioni e partiti, ci circondiamo di tecnici e professionisti e sfiliamo davanti al popolo sovrano, partecipando alle elezioni. Ci sono adrenalina ed entusiasmo, c’è chi vince e c’è chi perde, ma questo non dovrebbe essere un dramma. Con gli uni come con gli altri, la democrazia uruguayana seguirà il suo cammino e andrà trovando le formule giuste per il benessere. Qualsiasi sia il posto che ci spetterà, lì cercheremo di dare una mano, e sono sicuro che anche voi vorrete farlo. La società, lo Stato e il governo hanno bisogno dei vostri diversi talenti e, ancor più, della vostra attitudine idealista. Noi ci avviciniamo alla politica per servire, non per servirci dello Stato. La buona fede è la nostra unica intransigenza, quasi tutto il resto è negoziabile.
* Incontro con gli intellettuali nel Salone De los pasos perdidos del palazzo del Governo dell’Uruguay, tenutosi il 29 aprile 2009, in vista delle elezioni presidenziali dell’ottobre dello stesso anno. La traduzione è a cura di Filippo Puzio, Silvia Guarnieri e Cristina Guarnieri. Le note sono a cura di Riccardo Ferrigato.
[1] La cosiddetta admirable alarma fu l’appello che diede inizio alla guerra di indipendenza contro gli spagnoli, nel 1811.
[2] Carlos Quijano (1900-1984) è stato un politico e un giornalista, fondatore del settimanale «Marcha», pubblicato dal 1934 al 1974. Di sinistra, indipendente, fu un periodico molto influente in Uruguay e nell’intero Sud America. Nel 1973 denunciò il colpo di Stato di Juan María Bordaberry: fu chiuso dalla dittatura uruguayana l’anno seguente, mentre il suo fondatore fu costretto all’esilio in Messico.