di Gioacchino Toni
Eugenio Riccomini, 1789 e dintorni. L’arte negli anni della rivoluzione francese, Pendragon, 2015, pp. 118, € 13,90.
Da poche settimane è stato dato alle stampe, dall’editore Pendragon, il testo di Riccomini relativo al rapporto tra arte e Rivoluzione francese. Si tratta della trascrizione dell’intervento tenuto dall’autore in Piazza Santo Stefano, a Bologna, il 14 luglio del 1990, in occasione del bicentenario della presa della Bastiglia. Essendo, in origine, un intervento rivolto ad un pubblico eterogeneo in quanto a competenze storiche ed artistiche, ne deriva un testo di carattere divulgativo che non ha, né pretende di avere, l’approfondimento e la struttura di un vero e proprio saggio, tanto che la stessa trattazione procede in maniera discorsiva, sciolta, un po’ “a braccio”, come sottolinea lo stesso autore. L’intento dell’opera non è quello di rintracciare un’arte prodotta dalla Rivoluzione, quanto, piuttosto, di passare in rassegna la produzione artistica francese, ma non solo, dell’età della Rivoluzione, quell’arte che l’ha preceduta ed attraversata. Per certi versi si potrebbe dire che ad essere indagato è l’immaginario rivoluzionario presente in opere prima, durante e, persino, dopo l’evento storico. Opere dal “sapore rivoluzionario” erano infatti già nell’aria prima che la Rivoluzione esplodesse con tutto il suo fragore, prima che il sangue fosse versato, o meglio, prima che fosse versato, pubblicamente, sangue aristocratico, perché di sangue popolano ne era già stato versato parecchio e da tempo, soltanto che questo era sempre stato considerato nella natura delle cose, necessario spargimento quotidiano volto al mantenimento dello status quo.
Per certi versi il percorso proposto da Riccomini, che si snoda lungo un centinaio di opere, può essere ben riassunto da tre dipinti collocati strategicamente nel testo: 1) Il Giuramento degli Orazi di Jacques-Louis David che, occupando il centro della trattazione, merita la copertina; 2) Mademoiselle O’Murphy (1752 ca.), conosciuta anche come Ragazza nuda sul sofà, di François Boucher, che è la prima immagine che si incontra nella lettura; 3) La fucilazione del 3 maggio (1814) di Francisco Goya, a cui tocca la chiusura del percorso.
Boucher può, in effetti, essere visto come l’immagine della vecchia Francia pre-rivoluzionaria, che, come il resto d’Europa, attorno alla prima metà del Settecento è attraversa dalla corrente di gusto rococò, per certi versi l’ultima fase dell’epopea barocca, una sorta di leziosa e svigorita replica dei modi secenteschi, un artificioso “rifugio ultimo” in cui l’aristocrazia del periodo, nell’inconscio presagio del proprio tracollo, pare rifugiarsi. All’imminente resa dei conti con la storia il ceto nobiliare francese, ed europeo, si concede un ultimo capriccioso sussulto, dal sapore di spensierata indolenza; l’eleganza rococò diventa l’emblema di un’intera, per quanto breve, “epopea del disimpegno”. Boucher può essere indicato come il protagonista assoluto nel dipingere la dolce vita decadente dell’aristocrazia francese. Si tratta di una pittura spesso caratterizzata da una sensualità, non di rado velata di erotismo, attuata attraverso il pretesto mitologico e derivata, in parte, dal genere delle fêtes galantes, che ha avuto, ad inizio secolo, il suo massimo esponente in Jean-Antoine Watteau. Su tale linea, Jean-Honoré Fragonard è, forse, l’ultimo pittore di una certa importanza ad attardarsi caparbiamente, come la sua committenza, al gusto rococò quando oramai si è giunti all’alba dell’affermazione di nuovi orientamenti neoclassici.
Il personaggio-chiave, come detto, resta, inevitabilmente, David. Ciò è dovuto certamente al suo aver preso parte attivamente alla Rivoluzione ed al fatto che alcune sue opere hanno anticipato o cantato gli eventi storici e politici del tempo ma, non di meno, anche perché è innegabile che egli meriti di essere annoverato tra coloro che danno il via alla resa dei conti con la tradizione artistica. Vale la pena non limitarsi a leggere in David la riscoperta dell’antichità tipica delle poetiche neoclassiche, decisamente più interessante è, piuttosto, individuare nella sua produzione elementi di rifiuto di quell’epopea pittorica moderna giunta, nell’ultimo scorcio del XVIII secolo, ormai alla sua fase avanzata, epopea inaugurata dal Rinascimento toscano, temporaneamente contraddetta dal fenomeno manierista per poi essere sostanzialmente rilanciata dalle esperienze barocche. Rifiutando il gusto tardo-barocco, rococò, David inizia infatti un suo personale percorso a ritroso che lo porta, nel corso dei soggiorni romani, a recuperare dapprima il classicismo secentesco di Nicolas Poussin, poi quello rinascimentale di Raffaello Sanzio, per arrivare, infine, all’antichità greco-romana. È così che si distanzia da quello stile rococò, vera e propria immagine della decadente aristocrazia, al fine di recuperare una sobrietà estetica volta a dare immagine ad un’etica rigenerata.
L’opera chiave della produzione davidiana è sicuramente Il giuramento degli Orazi realizzato tra il 1784-1785, dunque in anticipo rispetto allo scoppio della Rivoluzione francese. La rivoluzione di David è, però, prima di tutto stilistica: se si vuole abbattere un mondo, occorre abbatterne anche l’immagine e l’immaginario. L’opera in questione è caratterizzata da un estremo rigore geometrico, il colonnato dorico con archi a tutto sesto diviene una sorta di limite invalicabile per lo sguardo dell’osservatore, dando luogo ad una tripartizione ove prendono posto rispettivamente i tre giovani, il padre ed il gruppo di figure femminili. L’allineamento dei tre Orazi annulla la scansione in profondità dei corpi ridotti a figure bidimensionali realizzate attraverso tratti rettilinei e netti, a sottolineare le certezze da cui sono mossi, il senso di abnegazione e di virilità. Contenutisticamente è chiaro che il dipinto può essere considerato un’anticipazione della Rivoluzione, una sorta di insegnamento circa la necessità, al bisogno, di prendere decisioni risolute e collettive ma, allo stesso modo, l’opera inaugura stilisticamente la fase più rivoluzionaria, “antimoderna” del pittore: pur ricorrendo al classicismo, egli semplifica e geometrizza la propria figurazione, estraendone, ed astraendone, un distillato ideale incurante del naturalismo.
Con il dipinto davidiano Bruto e i littori del fatidico 1789, si può dire che ormai la Rivoluzione ha preso il via. Se nel Giuramento degli Orazi si intuisce il momento decisionale, nel Bruto e i littori si constata il seguito dei fatti: ciò che prima era impegno futuro, qui è azione svolta. Bruto incarna l’eroe rivoluzionario disposto a dare la morte ai figli pur di tener fede agli ideali. Non resta, a questo punto, che mettere in scena il sacrificio ultimo, il martirio.
Per fare ciò non occorre prendere a pretesto l’antichità o il mito, sono, tragicamente, gli eventi a fornire l’occasione: nel 1793 il pittore dedica all’amico Jean-Paul Marat, ucciso a tradimento, il celebre Marat assassinato. Nuovamente troviamo l’essenzialità stilistica già vista in altre sue opere. Qua uno scuro fondale-sfondo blocca la profondità spaziale negando fughe prospettiche, nella parte inferiore della scena viene ribadita una struttura orizzontale attraverso la vasca entro cui è collocato il corpo e la tela che la ricopre. La sobrietà del dipinto è confermata anche dalla semplice cassa di legno utilizzata come scrittoio dall’eroe-martire rivoluzionario su cui l’artista riporta la dedica “à Marat, David”. Tutto ciò che compare sulla tela partecipa al tono severo che si conviene ad un’opera intenzionata ad immortalare l’eroe colpito a tradimento. È sicuramente un’opera che parla dell’attualità, per certi versi cronachistica, ma la composizione austera, scarna e solenne adotta una simbologia religiosa; il braccio esanime pendente dalla vasca riprende palesemente il braccio del cadavere di Cristo effigiato in passato da Caravaggio e Raffaello, contribuendo così ad eternare l’estremo sacrificio, per certi versi destoricizzandolo. Si tratta certamente del compianto amico Marat ma, al tempo stesso, ricorrendo ad un’iconografia consolidata, il dipinto si trasforma anche in celebrazione del sacrificio estremo, il martirio, valevole “per tutte le stagioni”.
La rivoluzione in David, come in Francia, non tarda a giungere al capolinea ed alla presa del potere di Napoleone l’artista finisce col cantarne le lodi e gestirne la propaganda. Nel celebre Napoleone che valica le Alpi (1800) possono ancora essere ravvisati alcuni elementi stilistici propri del periodo eroico di David ma, ormai, il fiato inizia a farsi corto.
È sul finire del testo, quando lo spazio a disposizione inizia ad essere poco, che Riccomini presenta una carrellata di immagini che offrono suggestioni interessanti e che davvero meriterebbero di essere approfondite e sviluppate. Nella parte terminale della trattazione, infatti, si “allarga la visuale” oltre i confini francesi, introducendo alcuni autori che risultano fondamentali per comprendere la rivoluzione artistica in atto nel periodo della Rivoluzione.
L’ultima parte del Settecento è ancora caratterizzata da una pittura votata alla profondità prospettica ed al naturalismo mimetico. Sebbene occorra attendere la fine del secolo successivo affinché tale impostazione venga messa irrimediabilmente in crisi, è proprio a cavallo tra Sette e Ottocento che alcuni artisti, in questo sicuramente rivoluzionari, iniziano coraggiosamente a prendere le distanze dai dogmi della tradizione moderna di matrice rinascimentale. Si tratta di artisti come William Blake, Johann Heinrich Füssli, Francisco Goya. Nel contesto delle inquietudini esistenziali che caratterizzano l’epoca segnata dalla Rivoluzione francese, si sviluppa la ricerca, per certi versi altrettanto rivoluzionaria, di artisti come questi [a tal proposito, su Carmilla: “Visioni alterate 1/2” e “Visioni alterate 2/2”]. Attraverso la rinuncia alla disciplina prospettica, il ricorso a rapporti proporzionali fuori scala, a semplificazioni formali, a caratterizzazioni innaturali delle figure ed a soluzioni bidimensionali di impaginazione, essi radicalizzano l’abbattimento della modernità artistica iniziato/proposto da David.
A conclusione della trattazione, come detto, compare La fucilazione del 3 maggio (1814) ad opera dello spagnolo Goya. Per certi versi tale prova segna la chiusura dell’epopea rivoluzionaria, una sorta di amara riflessione circa la deriva che ha finito col tradirne gli ideali. Nel suo metter in scena la rappresaglia francese nei confronti del popolo madrileno insorto contro l’invasore, si palesa la deriva di una Francia un tempo rivoltatasi in nome di principi illuministi e presto giunta all’aberrazione delle guerre di conquista napoleoniche. La denuncia di Goya è supportata da precise scelte iconografiche: la freddezza razionale degli invasori che, schierati nell’anonimato di un plotone d’esecuzione, secondo rigide posture geometriche, richiama palesemente gli Orazi di David. Qua la lanterna ai piedi dei francesi, anziché rischiarare le tenebre, finisce col mostrare a quali risultati nefasti si sia giunti.