di Luca Baiada
(Da Il Ponte, LXXI n. 4, aprile 2015)
[Si ringrazia la rivista Il Ponte per la gentile concessione.]
A settant’anni dalla Liberazione e a cento dalla grande guerra, la Germania è forte e detta legge a un continente. E poi dice che il crimine non paga.
«Sulle rive dei fiumi di Babilonia ci siamo seduti / e abbiamo pianto al ricordo di Sion». Così comincia il Salmo 137, uno dei più celebri.
Ha perso la moglie e i figli, Giuseppe Verdi, ed è allo stremo delle forze. Ai moti rivoluzionari è seguita la repressione, è povero e solo, medita il suicidio. Il libretto del Nabucco, che gli hanno proposto di musicare, è aperto alla pagina di un coro ispirato a quel Salmo: «Va pensiero sull’ali dorate…». Col cuore in subbuglio scrive e scrive, e presto l’opera è compiuta: la sua vita è salva, il Nabucco infiammerà i teatri e sarà monito. Non solo le bombe di Felice Orsini, anche quelle parole, «o mia patria sì bella e perduta», diranno all’Europa l’urgenza della questione italiana. Anche dopo l’8 settembre 1943 qualcuno giurerà di aver sentito quel coro: dalle voci dei soldati, chiusi nei carri in corsa verso il Brennero. A immaginare quei treni che si arrampicano sulle Alpi pieni di uomini, vengono i brividi. Seicentomila, deportati come schiavi in Germania. Davvero cantavano quel coro, passando il confine? È nobilmente reale che sia stato udito, ma se i suoi rintocchi avessero abitato più le orecchie di chi lo sentiva, che le bocche affamate di chi era trascinato via, sarebbe un cortocircuito percettivo formidabile.
«E come potevamo noi cantare / con il piede straniero sopra il cuore. […] Alle fronde dei salici per voto, / anche le nostre cetre erano appese / oscillavano lievi al triste vento». È Salvatore Quasimodo, in una delle più belle poesie sulla guerra di Liberazione. Il riferimento è allo stesso Salmo, con quel sussulto di fermezza, di dolore e di orgoglio. In quei versi è l’eco dei morti di piazzale Loreto, quelli innocenti del 10 agosto 1944, e delle stragi sulla linea gotica.
Il piede straniero. Dopo il primo conflitto mondiale, l’Italia fascista si lega alla Germania con patti scellerati, che per primi i tedeschi non rispetteranno. Con l’attivismo politico, manovriero e spionistico nazista, l’Italia diventa da allora, già prima della seconda guerra, un paese a sovranità minacciata. Grazie a quella presenza, alle informazioni e alla pianificazione, l’Italia sarà occupata in poche ore, dopo l’8 settembre 1943, malgrado la resistenza di militari e gruppi spontanei, mentre gli alti comandi e la monarchia fuggiranno. Anni di sangue, e per cacciare i tedeschi ci vorranno gli angloamericani, che dopo non andranno più via. Quando la Germania si riunifica, caduto il Muro nel 1989, qualcosa torna indietro, nell’ingranaggio della storia, ma solo a danno del popolo italiano. Negli anni Novanta ci pensa lo spettro dei nuovi conflitti, a convincere l’Europa ad accettare l’integrazione e la valuta unica. La Germania sarà unificata, non pagherà i danni di guerra, ma avrà le mani legate da vincoli economici. Le cose sono andate diversamente: la Germania i danni di guerra non li ha pagati, è sempre più forte, i paesi deboli sono indebitati e l’euro è più bismarckiano che carolingio.
Defilata dalle nuove direttrici dell’economia, dissanguata da una classe dirigente vile e ignorante, deindustrializzata dai trasferimenti all’estero degli impianti, l’Italia reagisce con opere pubbliche a sfondo criminale, precarizzazione del lavoro, disinvolti stravolgimenti istituzionali, consumismo gastrico, superstizione.
Ed ecco le liquidazioni di tessuto produttivo, con le imprese che si indebitano protette dalla politica e poi sputano gli indesiderati accaparrando il new e vomitando il bad, con operazioni senza costrutto e senza memoria, come è accaduto all’Alitalia e come può accadere ovunque. Ecco la Costituzione strapazzata da modifiche che accentrano il potere e sviliscono la cittadinanza. Ecco i bar tabacchi affollati di poveri che smaniano sulle lotterie istantanee, che chiedono alle slot quello che il lavoro, le istituzioni e la società non danno più. Chi si fabbrica degli idoli, finirà per avere bocca senza voce e occhi senza vista, proprio come gli idoli. Ed ecco le sale giochi, dove i deboli trascinano l’oppressione sociale trasformata in colpa e malattia, cupe larve del paese di Acchiappacitrulli, quello dove «in mezzo a una folla di accattoni e di poveri vergognosi, passavano di tanto in tanto alcune carrozze signorili con dentro o qualche volpe, o qualche gazza ladra, o qualche uccellaccio di rapina».
Ed ecco le illusioni. Raccoglitori zelanti di questo e quello, difensori dei piccioni e dei roditori, mangiatori di becchime o di polpette di verdure o di germogli crudi, tutti profeti del messia che hanno intravisto nel loro ombelico. Ed ecco l’ultimo delirio di un paese che si aggrappa alle sue budella: i cuochi sono divi, il fornello è un tempio. Libri, trasmissioni, con ogni variazione, dall’Expo che nutre il pianeta alle gare, nell’illusione che una produzione a basso valore aggiunto possa sostituire le manifatture, trasferite all’estero o arrugginite. Bella e perduta, così Lucio Villari ha intitolato un libro sul Risorgimento; ma andrebbe bene anche per gli opifici nella crisi, con le filande e le tabaccaie e i mulini che diventano alberghi, e con gli stabilimenti novecenteschi che si sbriciolano in attesa di cambi di destinazione.
«Coloro che ci avevano deportati ci hanno chiesto canti, i nostri oppressori, canzoni di gioia». È sempre il Salmo 137: al padrone piace divertirsi, niente musi lunghi, e se lo schiavo è di cattivo umore, che si sfoghi a cantare. Lo sapevano già i dominatori a Babilonia, e il XIX Secolo chiamò drapetomania il morbo dello schiavo malinconico. All’italiano non si chiede di cantare, come agli ebrei in Mesopotamia. Via i mandolini, è tempo di padelle. Mangiare e far mangiare, insaporire e servire, ingozzarsi e stuzzicare l’appetito. Un notiziario nazionale ha dato clamore a una diatriba: l’aglio nell’amatriciana, sì o no? Quel giorno, in Libia e in Ucraina scorreva sangue, non sugo. Ma gli italiani non scrivono salmi, piuttosto bisticciano sul salmì, non si interrogano «come potevamo noi mangiare?», cantano poco Verdi e non hanno un Quasimodo.
Però. Insieme alla nostalgia e all’orgoglio, il Salmo dice altro. I deportati fremono, le cetre tacciono, il padrone è arrogante. E il balsamo finale è questo: «O figlia di Babilonia destinata allo sterminio, / beato chi ti ricambierà il male che ci hai fatto. / Beato chi prenderà i tuoi bambini / e li sbatterà contro la pietra». Parole censurate sia nel coro del Nabucco, che si spegne invocando la virtù, sia in Quasimodo. E niente infanticidio neppure nella versione rastafari del Salmo, quella degli anni Settanta: «By the rivers of Babylon / there we sat down / ye-eah we wept / when we remembered Zion…». Musica conciliante, ottima sulla spiaggia, con le chitarre. Qui non ci si sbilancia troppo: c’è il rifiuto di cantare a comando, e ci si consola con amore e «meditazione dei cuori». Anche nelle liturgie cristiane, il Salmo 137 è poco frequentato, quel finale pesa: è fra i pochi Salmi in cui pietra non è una metafora, del genere «il Signore è la mia roccia», ma proprio una pietra, di quelle dure. Il sangue macchierebbe il candido abito del perdono.
Il pensiero violento – va detto – tanti secoli fa rimase irrealizzato: gli ebrei lasciarono Babilonia col consenso del re Ciro, e se qualcun altro uccise bambini babilonesi, questo forse accadde dopo, con la conquista della Mesopotamia da parte di Alessandro Magno. Fu beato, quel discepolo di Aristotele? Chissà, forse, ma brevemente: qualche anno dopo essere entrato a Babilonia, morì a Persepoli. Le promesse della storia, sono appunto promesse, i fatti non vanno dritti come ci si aspetta. I conti non tornano, meno male, così siamo ancora vivi per rifarli.
È escluso, che nel Ventunesimo secolo si possa raccomandare di sbattere bambini tedeschi sulla pietra. Anzi, nell’anniversario del bombardamento di Dresda si sono riaperte polemiche. A Dresda e a Berlino morirono bambini, ma i bombardieri avevano poche possibilità selettive, meno di quante ne avessero i tedeschi a Marzabotto, a Sant’Anna di Stazzema o al Padule di Fucecchio. A Fucecchio Antonio Mazzei aveva due anni, e al cadavere di sua madre mitragliata ripeteva sbigottito «mamma bua, mamma bua…», così un tedesco gli fracassò la testa.
Sui bombardamenti delle città tedesche non si attendono desecretazioni di atti, come sulle stragi nazifasciste: la commissione parlamentare sull’armadio della vergogna – 695 fascicoli nascosti dopo la guerra e rimessi in moto nel 1994 – ha lavorato dal 2003 al 2006, ma non c’è stata una discussione in aula, e l’interpellanza alla Camera che nel 2014 ha chiesto al governo di muoversi per l’esecuzione in Germania delle sentenze, e per eliminare ogni segretazione, non è ancora stata trattata. Magari lo fosse quest’anno, per il settantesimo della Liberazione. Ma nel 2011, per l’introduzione del pareggio di bilancio, la Costituzione figlia della Liberazione è stata trattata da figliastra: sono venuti apposta a Roma, in Parlamento, due alti burocrati tedeschi, e la modifica è passata senza un solo voto contrario. E la Germania rispetta i vincoli di bilancio che vuole per gli altri? Chissà se vale per i vincoli quel che lo storico Erich Kuby scrive sugli impegni di Hitler: Verrat auf Deutsch, cioè Il tradimento tedesco. E chissà cosa direbbe Piero Calamandrei, lui che nel 1947 osservava:
«Il popolo tedesco ha ripetutamente dimostrato, e in maniera spaventevole nella crisi dell’ultimo decennio, di possedere nel fondo della sua psicologia, in misura più alta di ogni altro popolo europeo, certi istinti bestiali di ferocia ragionante. […] Come sottrarsi al sospetto che nell’untuoso commesso viaggiatore che domani, colla ripresa del commercio internazionale, di nuovo incontreremo in treno vestito in goffi abiti civili, ci tocchi riconoscere con raccapriccio proprio quella faccia di carnefice di cui portiamo nel cuore la immagine?»
Altro che commessi viaggiatori, i burocrati tedeschi vengono a Roma a riscrivere la Costituzione.
Ma la Germania non ci chiede di cantare, semmai di cucinare a buon prezzo e di svendere i bei cascinali, quelle case di cui Pasolini scriveva: «C’era una volta un popolo / abitava in casali tagliati come chiese…». E ancora, la Germania non ci deporta, semmai esporta quello che prima fabbricavamo noi, e si prende con un po’ di soldi le intelligenze che non trovano lavoro qui. Fughe di cuori, oltre che di cervelli: come si dice, o il vassoio o la valigia. Quelli della valigia non vivono la lacerazione di coscienza degli IMI, gli internati militari nel Terzo Reich. A questi si chiederà di lasciarsi assorbire: se staranno buoni, diventeranno tedeschi come le persone perbene. Non sono Gastarbeiter con le borse di cartone. Una canzoncina tedesca del 1962 li vedeva napoletani struggini, gli emigranti: «Zwei kleine Italiener, die träumen von Napoli, von Tina und Marina…». Il seguito era peggiore, un Salmo rovesciato, un Antisalmo: «Due piccoli italiani non dimenticano mai la casa, le palme e le ragazze sulle spiagge di Napoli». Nella lingua del padrone, i fiumi di Babilonia sono un lungomare, o una pensilina: «Due piccoli italiani, alla stazione si riconoscono: ci vanno ogni sera, al treno espresso per Napoli». Mentre in Germania si cantava questa porcheria, a Roma i 695 fascicoli erano stati da poco archiviati, e a Berlino si era appena costruito il Muro. Archivio e Muro, destinati a durare un trentennio.
Nel settantesimo anniversario della Liberazione, con la Germania che si riprende economicamente quello che ha perso due volte militarmente, è più importante chiedersi cos’è una Liberazione, che celebrare un anniversario. E il problema resta: come si conserva l’anima, il piccolo violino che il protagonista dell’Histoire du soldat si fa rubare dal Diavolo in cambio di denaro stregato? Il bene più profondo che l’impero del debito sottrae, quello più difficile da recuperare, è fatto di autostima, di senso e di punti di riferimento, ed è per questo che dall’impero, con la sua cappa di colpa e di furto del futuro, è difficile evadere anche se non puzza di vagone piombato. Dei due estremi di quel Salmo che inizia col fiume e finisce con la pietra, è più facile tenersi all’acqua fresca, che assumersi la responsabilità di un sasso insanguinato. Eppure è chiaro che sono anche i bambini, oggi, a risentire di un regolamento di conti epocale, in cui l’infanzia tedesca nasce vincendo la lotteria geopolitica. E nei propositi del nazionalismo di sinistra che il fascismo rese impraticabile, che il quadro politico ciellenista proclamò senza andare sino in fondo, e che il Partito d’azione propose alle elezioni nel dopoguerra incassando un fiasco, abitano anche l’odio e il sangue, sentimenti difficili da esprimere. C’è di mezzo la vergogna, una cosa in cui gli italiani sguazzano come porci in brago, ma cui non permettono di bagnare i loro difetti.
Faccenda delicata, la vergogna. Tanti secoli fa, il babilonese si vergognò di deportare l’ebreo? l’ebreo avrebbe dovuto vergognarsi, di desiderare lo spappolamento dei bambini del deportatore? E quale vergogna doveva arrossire per prima? Nel Purgatorio, lasciando gli iracondi, un mover d’ala venta nel viso a Dante: «Beati pacifici, che son sanz’ira mala!».