di Danilo Arona
Howard Phillips Lovecraft, celeberrimo e pur tuttavia ancora misterioso. Commentato e vivisezionato da una critica colta e agguerrita che in Italia e nel mondo gli ha dedicato migliaia di pagine, il cosiddetto “solitario di Providence” gode un po’ dappertutto di un nutrito seguito di emuli, di fan, di straordinari registi che a lui si ispirano a carte scoperte (Carpenter, Gordon, Del Toro e altri) e anche di insospettabili scrittori al di sopra di ogni apparente sospetto (vedasi il saggio di Michel Houellebecq, H.P. Lovecraft – Contro il mondo contro la vita).
E ne gode sempre di più. Nel senso che mai, come negli ultimi tempi, Lovecraft è letto, riletto, interpretato e sviscerato – è recente la pubblicazione del monumentale tomo – 1644 pagine – di Giuseppe Lippi. Tutti i racconti, pubblicato da Mondadori. La ragione di tale fortuna in espansione – paradossale se si pensa alla vita grama quanto breve dello scrittore – è tutto sommato semplice anche se ossimorica: al di là degli ormai pochissimi che continuano a vedere in lui un modo arcaico, quindi superato, di intendere l’horror, Lovecraft è scrittore di sempre più straordinaria modernità – e, appunto, l’ossimoro consiste nel fatto che stiamo parlando di uno scrittore considerato ai suoi tempi “anti-moderno”, prima che dai suoi contemporanei da sé stesso. Non ho spazio qui per entrare nel crescente dibattito sui collegamenti, forse niente affatto casuali, tra Lovecraft e la meccanica quantistica (voglio solo citare di sfuggita quanto scrive Diego Giordano nella presentazione a Il resto indivisibile – Su Schelling e questioni correlate di Slavoj ŽižekZ [1]: «… c’è da temere, come Lovecraft ha profetizzato nel racconto Il richiamo di Chtulhu, che un giorno, forse più vicino, la connessione di conoscenze disgiunte possa aprire visioni terrificanti della Realtà e della nostra spaventosa posizione in essa. A questo punto, in barba a Hegel e Lacan, la cosa più misericordiosa al mondo non sarebbe forse l’incapacità della mente umana di mettere in correlazione tutti i suoi contenuti?»), piuttosto richiamerei l’attenzione, operazione certo non inedita, sul mondo bizzarro e tenebroso dei cosiddetti pseudo-biblia, saccheggiato di peso negli ultimi vent’anni da legioni di farcitori di best-seller, impegolati tra “codici” alla Dan Brown e Apocalissi passate e future tra veggenti varie e mistiche profiler. Un mare magnum di titoli in cui ci stanno anche titoli di ottima qualità come quelli dell’amico Marcello Simoni.
Il famoso centro della babelica biblioteca è il sempre citato e mai veramente “toccato” Necronomicon dell’arabo (pazzo?) Abdul Ahlazred. Talmente raccontato da essere divenuto “vero” nel corso dei decenni, ma sul quale giova ricordare che storia, contenuto, autore e bibliografia di merito sono invenzioni, piuttosto divertite, di sana pianta.
La leggenda comincia a formarsi quando, negli anni Sessanta, alcuni lettori e appassionati di horror, prendendo per vera la storia e la cronologia del Necronomicon, iniziano a ricercarne copie presso le librerie e le biblioteche, un po’ per gioco e un po’ con ingenuità. Alcuni studiosi della narrativa di Lovecraft, fiutando gli sviluppi, cercano di comprendere quali erano stati i libri da cui lo scrittore aveva tratto le conoscenze necessarie per l’invenzione del falso letterario. Il lavoro più credibile e più interessante mai realizzato al proposito è senza dubbio quello di Robert Turner, George Hay, David Langford e Colin Wilson. Studiosi e saggisti confinati al relativamente ristretto settore di addetti ai lavori i primi tre, mentre Colin Wilson, scomparso nel 2013, è stato un quanto mai eclettico intellettuale inglese che si è diviso con successo tra la fiction fantascientifica non così lontana da Lovecraft (I vampiri dello spazio, La pietra filosofale e I parassiti della mente) e la saggistica “di confine” (L’occulto, La filosofia degli assassini e Dei dell’altro universo). E lo spunto per la scrittura del falso scaturì proprio dal comune progetto dei quattro menzionati di sviluppare la decifrazione del tomo proibito, iniziativa che da una quarantina d’anni circa continua a produrre nuovi testi e ulteriori interpretazioni.
Com’è noto ai più, nel lontano 1926 Lovecraft scrisse qualcosa che lo avrebbe reso immortale (e intoccabile) nella storia della letteratura fantastica, il ciclo dei famosi “miti di Chtulhu”. Con le sue visionarie concezioni del cosmo, popolato da deità maligne e incomprensibili in grado d’interagire con il genere umano tramite esperienze oniriche e porte spazio-temporali, Lovecraft creò un filone orrorifico in netta antitesi con le paure intimistiche del contemporaneo Poe giungendo a influenzare un cospicuo numero di scrittori del medesimo genere al punto da formarsi una “scuola” di scrittori a lui affini (August Derleth, Robert Bloch e lo stesso Wilson, tra gli altri), che sfruttarono il complesso sistema cosmo-mitologico da lui elaborato come base filosofica per la descrizione di un mondo pencolante sul baratro di un caos alieno le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Proprio a partire dai Miti di Chtulhu, sono evidenti nella narrativa di Lovecraft i parallelismi e le similitudini con non pochi aspetti delle religioni orientali antiche. Una chiave per la comprensione del misterioso sistema mitologico inventato da Lovecraft, che a tratti combacia perfettamente con quello mesopotamico, ci viene fornita da una sua dichiarazione:
“Tutti i miei racconti anche se non possono sembrare collegati fra loro, sono basati su una leggenda fondamentale, secondo la quale questo mondo fu abitato, un tempo, da un’altra razza che, avendo praticato la magia nera, perse il suo dominio e fu scacciata, ma vive al di fuori, sempre pronta a riprendere possesso della terra.” A fondamento dei miti ancestrali, egli poneva appunto il libro sacrilego e proibito, chiamato Necronomicon, dall’originale titolo arabo Al Azif, del quale forniva pure una pseudo-bibliografia (History and Chronology of the Necronomicon). In una lettera a Willis Conover, datata 29 luglio 1936, Lovecraft scriveva quanto segue:
“E veniamo ai ‘terribili tomi proibiti’, dei quali sono costretto a dire che si tratta in gran parte di opere immaginarie. Abdul Alhazred e il Necronomicon non sono mai esistiti, perché io stesso ho inventato i nomi. Robert Bloch ha avuto l’idea di Ludvig Prinn e del suo De Vermis Mysteriis, mentre Il libro di Eibon è stato inventato da Clark Ashton Smith. Il compianto Robert E. Howard è responsabile di Friedrich von Junzt e i suoi Unaussprechlichen Kulten”.
Scritta pochi mesi prima della sua morte prematura, questa è una delle tante confessioni tratte dall’immenso corpus epistolario di Lovecraft, il cui intento fu quello di rispondere con sincerità alle numerose domande dei suoi amici letterati sul famoso manoscritto. È inoltre possibile desumere dalle centinaia di lettere, opera di trent’anni di attività, le tappe che seguono la creazione del famoso grimorio nella mente dello scrittore. Il libro appare come un gioco tra letterati, iniziato da lui stesso con una sorta di storia cronologica. Lovecraft confessò che la reale origine del libro, che alcuni lettori ritenevano realmente esistito, si fondava su un sogno causato dall’affascinante lettura della frase “nell’oscurità senza riverberi dall’abisso”, ne Il Libro delle Meraviglie di Lord Dunsay. Sempre nell’epistolario leggiamo: “Abdul è mio personaggio immaginario: a cinque anni mi facevo chiamare così, entusiasmato dalla traduzione delle Mille e una notte”.
Oggi come allora, tra ironia ed eccitazione letteraria, molte domande si affollano nelle menti degli appassionati e degli studiosi di Lovecraft. E se lo scrittore avesse mentito sulla reale genesi del tomo proibito? Se il semplice fatto che esista nelle menti dei lettori possa in ogni modo far sì che la sua turpe influenza si propaghi nel nostro debole mondo? E, se si trattava e si tratta di un semplice gioco, perché continua a persistere dopo tutto questo tempo?
Forse una bozza di risposta potrebbe lasciar intendere che un’opera per anni solo “immaginata” possa a un certo punto “prendere vita”, indipendentemente dal fatto che la prima molla ideativa al riguardo sia stata un’operazione di purissima creatività. Il che è riscontrabile in certi ambienti magici ispirati al guru Aleister Crowley, gruppi derivati dal famoso Ordo Templis Orientis, in cui si combinano con apparente disinvoltura cerimonie pagane, demoni alieni e, appunto, il Necronomicon. Così è per l’Esoteric Order of Dagon, per Le Couleuvre Noir di Michael Bertiaux e il Tempio di Set di Michael Aquino.
In particolare, all’interno del “Serpente Nero” di Bertiaux, esisterebbero metodologie rituali per entrare in contatto con “la parte bassa della Quarta Dimensione”, lì definita “Universo B”, dove s’incontrano gli “spiriti di altri mondi”. Lavorando proprio con il Necronomicon, tra le entità che vivono nell’Universo B, si può contattare “utilmente” lo spaventoso demone Choronzon, di cui aveva parlato spesso Crowley e che può essere invocato mediante una cosiddetta “messa del caos”, almeno così sostengono gli adepti. Ma Choronzon è un nome sul quale potrebbe essere utile soffermarsi. Se, infatti, da un lato lo studioso Stephen Sennitt associa il nome di Choronzon, dallo stesso definito come “uno dei simboli più complessi dell’occultismo occidentale”, all’archetipo primitivo del “diavolo del vento che abita nel deserto” – un archetipo che fonde il distruttore Set, la volpe Shugal (la metà “maschio” della Bestia 666 – l’altra metà femminile è appunto Choronzon) e il famoso demone Pazuzu, più di un esegeta del Necronomicon lovecraftiano alla caccia di parallelismi per suffragarne l’autenticità, mettendo a confronto il pantheon sumerico con i miti di Lovecraft e il pensiero magico (il Magick) di Crowley, ne ha concluso che Choronzon, l’immane “Cosa” descritta nel racconto L’orrore di Dunwich e Pazuzu siano in realtà, sempre e ovunque, la stessa creatura.
Ma non stavamo parlando delle fertili invenzioni di uno scrittore visionario e solitario? Sì. Ma a volte una leggenda può materializzarsi, soprattutto se i gruppi magici che hanno cominciato a utilizzare i vari Necronomicon a partire dagli anni Ottanta, sostengono che tali grimoires funzionano lo stesso per le evocazioni indirizzate verso l’altra dimensione e che il “funzionamento” prescinde totalmente dal loro carattere apocrifo o dalle intenzioni di chi li ha confezionati.
Lovecraft quindi come “strumento inconscio” per aprire una certa porta? Autore di una narrativa che mimetizza esperienze occulte realmente vissute e in grado di agganciare altri mondi paralleli? Nel mondo dell’occultismo contemporaneo, tutti gli “addetti ai lavori” sono ormai convinti che, per quanto prodotto di fantasia, il Necronomicon sia dotato di una sua sinistra e autonoma forma di esistenza e in grado di aprire quella porta e consentire agli esseri mostruosi dell’Altra Realtà di penetrare nel nostro mondo. In pratica, dicono, Lovecraft ne avrebbe intuito i contenuti in seguito a suggestioni inconsce da parte di entità ultraterrene, che avrebbero agito sulla sua mente senza che lui neppure ne fosse consapevole. All’origine di questa convinzione c’è anche il famoso occultista inglese Kenneth Grant, uno degli eredi del pensiero magico di Aleister Crowley. Quello che riportiamo è il brano cruciale dell’articolo con il quale Grant illustra e giustifica la sua opinione sull’origine “aliena” del Necronomicon:
Howard Phillips Lovecraft è morto nel 1937, ma i suoi “Miti di Cthulhu”, diffusi negli impareggiabili racconti d’orrore cosmico che hanno fatto di lui uno dei più grandi scrittori contemporanei del terrore, pongono ancora la questione se fossero una semplice creazione fantastica generata dalla mente allucinata di un (all’epoca) oscuro scrittore del New England, oppure se non adombrassero una sinistra “invasione occulta”. Secondo una tradizione esoterica ben radicata, quando Atlantide fu sommersa, non tutti gli abitanti vi perirono. Alcuni trovarono rifugio in altri mondi, in altre dimensioni; altri ancora sprofondarono in un “sonno” voluto e innaturale, e attraversarono sognando immensi eoni di tempo. Alcuni di questi si ridestarono: e oggi si annidano in abissi sconosciuti, occulte pieghe dello spazio. Il meccanismo fisico della coscienza umana è normalmente incapace di percepire le loro vibrazioni infinitamente sottili, ma c’è chi conosce i mezzi di far filtrare messaggi fino alla loro coscienza. Un’eco di questa tradizione forma anche una delle maggiori tematiche dell’opera di Lovecraft.
Vibrazioni sottili non da tutti percepibili, Universo B, il “basso astrale” della Quarta Dimensione… Siamo poi così lontani dalle dispute contemporanee sulla consapevolezza quantistica e l’universo multidimensionale? Il Reame Immaginale di Fred Alan Wolf non profuma irresistibilmente di porte infradimensionali oltre le quali occhieggiano i Grandi Anziani?
Sto buttando soltanto qualche sassolino nello stagno, peraltro in buona compagnia. In primis, dello scrittore stesso quando ricorda che il proprio pantheon letterario è basato sulla “leggenda” che il nostro mondo – eoni orsono – fosse abitato da un’antica razza praticante la magia nera che venne scacciata al di là di invisibili porte, peraltro sempre pronta a rientrare nell’Aldiqua. Poi dello studioso Angelo Cerchi quando afferma a più riprese nel suo recente H.P. Lovecraft – Il culto segreto (Aradia, 2015) che lo scrittore, ben più ferrato nell’occulto di quanto giochi intellettuali e pseudo-invenzioni abbiano lasciato supporre, abbia disseminato la sua narrativa di autentici indizi magico-rituali che trovano sponda da un lato nell’opera di Margareth Murray e in quella, ancora più significativa, di Gerald B. Gardner, autore di Witchcraft Today pubblicato nel 1954, ovvero 17 anni dopo la morte dello scrittore americano. Ma sono in compagnia, non so dire se altrettanto buona, di quegli ambienti magici cui abbiamo più sopra accennato, che non sono soltanto Crowley, Bertiaux e Aquino; la materia lovecraftiana circola senza tema di smentita dal Culto dei Profondi alla Corrente Stellare 777, crogioli di sapere iniziatico dove si prefigurano gli Antichi Demoni dell’Ombra e del Sottomondo, chiamati da Lovecraft – secondo Maurizio Maggioni [2] – “come Nyarlathotep, il Caos strisciante, l’Hastur innominato, il capro nero Shub-Niggurath, il signore della forma Yog-Sothoth e il grande Chtulhu”. Demoni che, secondo Maggioni, non sono stati affatto inventati perché “Lovecraft, influenzato da Ambrose Bierce, Lord Dunsany, Arthur Machen, Algernon Blackwood e M.R. James, percepiva le vibrazioni sottili – Kalachacras macroscopici del Chaos, fenomeni cosmici vibrazionali, – dell’universo parallelo B e dei suoi oscuri demoni radiati (i famosi e terribili miti cosmici e ctoni di Chtulhu)”. Ancora Maggioni: “queste incredibili visioni notturne terrorizzarono Lovecraft al punto da spingerlo a descriverle minutamente nei suoi romanzi, ricostruendo così il malefico Pantheon degli Antichi.” Insomma, il quadro è quello di uno scrittore che trasmette attraverso la letteratura un sapere iniziatico, una vera e propria gnosi che viene ripresa da più di un gruppo magico americano – fra i tanti, The Michael Bertiaux’s Lovecraftian Coven, The Chaos Cult of Chtulhu e The Covenant of the Ancient One – con lo scopo di “generare volutamente i terrificanti e atavistici incontri che i protagonisti dei racconti di Lovecraft hanno avuto contro la loro volontà.” E per il momento abbandoniamo i sassolini.
Il succitato libro di Cerchi, tenendo ben in conto tutto l’impianto teorico sin qui esposto, avanza un’ipotesi che a suo modo supporta la solida sostanza magico-rituale che abbonda nei racconti di Lovecraft. A dispetto di un’immagine che lo vorrebbe per la maggior parte del suo tempo vitale relegato a Providence, Lovecraft peregrinò più volte, dalla fine degli anni Venti in poi, nel Massachussets, nel Vermont, in Virginia, nella Carolina del sud, nel Maine, in Tennessee, in Florida, in Louisiana, nel Connecticut, spingendosi fino in Canada. A contatto cioè con una certa America rurale, in cui fiorivano culti e conventicole più o meno segrete. Soprattutto uno, nel Massachussets, potrebbe avergli trasmesso conoscenze segrete molto antiche che troverebbero eco nei libri di Charles Godfrey Leland e di Gerald B. Gardner. Come attesta Cerchi, “questo culto, importato dalla Vecchia Inghilterra con origini comuni alla Wica incontrata da Gardner, aveva tradizioni tramandate dal passato e adorava divinità chiamate The Old Ones, i Vecchi. Praticava inoltre riti di stregoneria forse con elementi di magia rituale”. Se così fosse, allora, parafrasando Cerchi, il potere dei vari rituali magici ispirati ai Miti di Chtulhu e al Necronomicon, assumerebbe un valore ben diverso da quello immaginifico e letterario diventando una chiave di potenza, operativa e concreta, trasmesso attraverso la pagina scritta ai contemporanei gruppi che affermano di ispirarsi a Lovecraft. Cerchi ipotizza che forse gli Antichi sono stati davvero invocati sotto i cieli del Massachussets. Magari qualcuno li sta ancora invocando tra i diversi gruppi magici citati più sopra. Di sicuro più di un culto degli Oscuri è tuttora vigente dalle parti di Salem. Come attesta Peter Smith[3], “forse Lovecraft stesso ci ha lasciato con una spiegazione piuttosto insoddisfacente della vera provenienza dei Miti di Chtulhu, ma di certa essa appare di grande valore per coloro che correntemente praticano le Arti Nere”. E allora ben venga l’ipotesi avanzata da Angelo Cerchi, perché, citando ancora Smith, “le esperienze occulte di Lovecraft, nascoste come finzione, rivelano l’intrusione di forze in completa simpatia con quei simboli e archetipi acquisiti da personaggi come la Blavatsky e Crowley mentre questi erano in contatto con entità astrali “dell’al di là”. E ritorna prepotente l’ipotesi di tanta parte della letteratura fantastica, di ieri e di oggi, come autentico veicolo di conoscenza occulta.
[1] Edizioni Orthotes, 2012.
[2] Tra magia e satanismo, Edizioni Il Foglio, 2001.
[3] Starfire, Vol. I, n. 2, 1989, Londra e in Peter Smith, Nameless Aeons, Mexborough, Logos Press, 1989; traduzione di Roberto Migliussi.