di Dziga Cacace
And I scream from the top of my lungs… what’s going on?
778 – Il tenerone Rocky IV di Sylvester Stallone, USA 1985
Mi metto i guantoni e affronto un film che devo aver visto la prima e ultima volta a fine anni Ottanta, quando Rai e Mediaset si sfidavano ogni sera a colpi di prime visioni. Si parte da dove eravamo rimasti, con Apollo Creed – il vecchio avversario diventato poi amico del protagonista – che vuole tornare a combattere. Rocky invece è un pascià: villa enorme e kitsch, Lamborghini, un figlio insopportabile e zio Paulie a carico, festeggiato regalandogli un robottino non esattamente credibile. Regna la pace familiare e Adriana guarda soddisfatta. Sennonché sbarca in USA Ivan Drago, il campione di boxe sovietico che vuole sfidare il mondo professionistico occidentale. Lo accompagna la melliflua compagna Ludmilla (Brigitte Nielsen, molto bella prima di plastiche criminali) e un team di allenatori e scienziati che parluano tuutti cuosì, hanno occhi di ghiaccio e mostrano indefettibile fedeltà alla linea del Partito. Creed ha voglia di menare le mani, ritiene il mastodontico russo “grande, grosso e rozzo” e accetta la provocazione, nonostante manchi dal ring da cinque anni. Rocky teme il peggio e vede Apollo che provoca, gigioneggia e fa lo spaccone: per lui il ritorno sulla scena è per sentirsi vivo (vedrà quanto!) ed è anche una necessità ideologica, pensa un po’. Il match si tiene a Las Vegas e tutta la pacchianeria burina yankee è esibita come una ganassata compiaciuta: balletti, paillettes, coriandoli, stelle e strisce e James Brown patriottico e un po’ Zio Tom (Living in America). Apollo sale sul palco conciato invece da Zio Sam, ma dopo il primo round gli è già passata la voglia di fare proclami da pagliaccio: ha la faccia ridotta come un hamburger medium rare. Rocky a bordo ring intuisce che si mette malissimo ma Creed si fa promettere che non getterà la spugna, qualunque cosa accada. Drago lo massacra in un tripudio di rallenti e still frame e il pugile nero spira tra le braccia del nostro Stallone. Che incrocia lo sguardo con Drago e capisce che adesso tocca a lui: questa è una sfida che non si può rifiutare, per l’amico morto e per gli USA intieri. Il nuovo incontro si terrà in Russia, il 25 dicembre: Natale a Mosca, come un Vanzina deprezzato. Adriana non gradisce e quando chiede a Rocky il perché, lui è laconico: “Io faccio quel che devo fare!”. E poi se ne va con la sua Lambo, con l’incubo di Drago negli occhi. Segue montaggione musicato che ripercorre la carriera di Balboa, dagli esordi a pane, cipolla e merda fino alla consacrazione, in una inarrestabile e caparbia ricerca del successo. In Russia rifiuta agi e comodità: si allena in un postaccio punitivo in culo al mondo, tra gelo, povertà e sfiga perché son tutti morti di fame. Due agenti lo sorvegliano e il massimo divertimento è farsi una partitella a scacchi. In parallelo vediamo Drago che ci dà dentro seguito da tecnici con strumentazioni avveniristiche: mena colpi sempre più letali tra punturine sospette, sparring partner maciullati e computer con grafici esaltanti. Invece il Balboa si allena all’antica, sega tronchi, corre nella neve, solleva pietroni, guada ruscelli ghiacciati e trascina slitte (!) come un cavallo da tiro. Insomma: l’uomo contro la macchina, i sentimenti contro la disumanità comunista, in montaggio serratissimo e musica esaltante, sequenza estremamente godibile per retorica linguistica e afflato ideologico tamarrissimo. Si arriva a Mosca in un tripudio di bandiere rosse, falci e martello e classica iconografia sovietica. All’angolo Rocky prega (e certo: fede contro ateismo di stato). In tribuna, in mezzo ai burocrati, si accomoda anche un simil Gorbaciov. Il pubblico, straccione e zeppo di militari è ostile all’americano. Dopo l’inno dell’Armata Rossa (splendido, io ce l’ho anche nell’Ipod) viene presentato Ruocky Balbuoa, fischiatissimo, e poi Ivan Drago, acclamato con zelante giubilo ortodosso. “Io ti spiezzo in due”, segno della croce dell’eroe eponimo e la singolar tenzone parte. Rocky è subito alle corde e quando accenna una reazione, fa il solletico al cyborg. Ne piglia una bella gragnuola e finisce al tappeto, contato e salvato dalla campanella. Nel secondo round ne piglia ancora un sacco e una sporta, finché dall’angolo il trainer, ex di Creed, gli ricorda: “Non fa male!”. Insomma. Adesso ne prende ma ne dà anche, non molla e incrina la tetragona sicurezza della Transiberiana di ghiaccio. La resistenza eroica del campione USA conquista poco a poco il pubblico moscovita che comincia a tifarlo apertamente. È la rivolta! L’adesione pugilistica ai valori del Capitale! I politici in tribuna sono in imbarazzo e Drago acquisisce un’insospettata umanità: adesso combatte per sé e non per il regime. E perde, mentre Rocky fa la solita scenata da vincitore invasato, per la costernazione del Politburo. Gli danno la parola ed ecco il Discorso: lo odiavano, all’inizio, dice. E io odiavo voi, ammette. Però: “Durante l’incontro ho visto cambiare le cose”. E se cambio io e voi – continua – tutto il mondo può cambiare! Il sosia di Gorbaciov applaude. E anche il mio sosia! (Dvd; luglio 2010)
779 – Un capolavoro: L’uomo che verrà di Giorgio Diritti, Italia 2009
Ancora scosso dalla purezza de Il vento fa il suo giro, io premio a modo mio Diritti comprandogli anche il secondo film, non sapendo neppure se sia piaciuto o meno a critica e pubblico. Non me ne frega niente: lo merita, sulla fiducia. Ed è un capolavoro, un Novecento senza barocchismi melò e voglie di kolossal, un Olmi pagano. Mi commuove e mi smuove, raccontando senza alcuna pretesa manichea la lotta partigiana appenninica e la tremenda rappresaglia nazifascista. Pietà e sconcerto: prendere parte, combattere, ribellarsi, con la quieta e testarda voglia contadina di non arrendersi, per poi ricominciare, a partire dalla piccola intensa interprete e dall’uomo che verrà. Diritti innalza un canto alla terra e a chi la difende, in nome di un’altissima dignità umana, e lo fa senza rinunciare a una personale ricerca cinematografica. Non so se stavolta qualcuno si sia premurato di dare qualche premio a quest’uomo, ma se i premi hanno ancora un valore, allora li merita, tutti. (Dvd; 19/7/10)
780 – Kiss Symphony: The DVD dei frenetici ignoti Jonathan Beswick e Victor Burroughs, USA 2003
Allora, i casi sono tre: o sono rincoglionito causa paternità o i ripetuti ascolti rendono gradevole anche una musica infantile come questa oppure m’ero sbagliato la prima volta. Nel senso che questo Dvd dedicato ai Kiss l’avevo visto per scrivere una micro recensione per Rodeo, mensile cui collaboravo un’era geologica addietro. E ne avevo scritto da spettatore scocciato dell’artificiosità del tutto: i Kiss che suonano assieme alla Melbourne Symphony Orchestra (truccata per l’occasione), per una seratona di rock n’roll esagerata assieme a 40mila fan entusiasti. Niente di che per il mio snobismo. Poi capita che Sofia ci metta su gli occhi e cominci a fare domande. E allora ne vediamo una clippettina. E il disastro è compiuto perché dei musicisti tamarri che fanno ritmatissima caciara conciati da mostri, sputando sangue e volando attraverso lo stadio sono quanto di meglio possa chiedere una bambina di 5 anni. E sarà che vedevo Sofia godere (e anche Elena, due anni), poco a poco del Dvd abbiamo cominciato a vederne porzioni sempre più corpose, fino al documentario che racconta tutta l’operazione. E io – lo confesso – pian piano ho cominciato a canticchiarle ‘ste benedette canzoni, a ritrovarmi col piedino che teneva il tempo. È rock, talvolta hard, mai seriamente metal. È medio, talvolta mediocre, ma è perfetto, non sporca, non offende, diverte. Il montaggio è frenetico (questo mi preoccupava, per le mie figlie) e molto flashy, mostrando la Kiss Army tanto quanto l’orchestra e la band: bambini, vecchi e tante ragazze pettorute che fanno le corna verso la telecamera, così come nerboruti obnubilati che mostrano orgogliosi i tatuaggi. Non mi son ridotto così ma ho rivisto il mio giudizio: il concerto e la mascherata sono indubbiamente divertenti e la musica, tutto sommato, è godibile e infallibile. E poi, fringe benefit non da poco, durante la visione le bimbe sono sedate (e non si tratta di Tiziano Ferro). Cosa chiedere di più? (Dvd; a rullo, tutto luglio 2010)
781 – A lutto (con spoiler) per E.R. Anno 8 di Michael Crichton et alii, USA 2001/2002
Il personale del County General Hospital di Chicago, gli spettatori e soprattutto l’addolorato Cacace sono vicini alla famiglia Greene per la scomparsa dello stimato dottor Mark. Per non dire che, occhio agli spoiler: 1) muore anche Carla, l’ex del chirurgo Benton, lasciandogli dopo accanita battaglia giudiziaria per l’affidamento il piccolo sordomuto Reece (di cui Benton non è padre biologico, pensa tu!); 2) che la quattordicenne Rachel Greene è una spina nel culo, ma forse si è riconciliata col padre prima della sua morte; 3) che Elizabeth Corday continuerà da sola con Ella, reduce pure da una overdose di ecstasy a neanche due anni, thanks to Rachel; 4) che Abby forse si metterà con John Carter – sempre in crisi, perché troppo ricco, troppo buono, troppo sensibile – dopo aver lasciato quel mammolone malinconico del dott. Kovacs; 5) che la dottoressa Weaver – la stronza con lampi di cattiveria – sta affrontando la sua identità sessuale assieme a una vigilessa del fuoco machissima e non ha ancora trovato la madre; 6) che è tornata la pacioccona dottoressa Lewis, ma sua sorella Chloe è ricascata nella droga e manca all’appello la figlia; 7) che… che questo è stato un serial eccezionale e non ho altro da dire che già non abbia detto e che non andrò più avanti, anche se ricordo che al magnifico dott. Romano succedeva un incidente e, insomma, vorrei vedere come va a finire se non altro per godermi l’homecoming dell’ultima puntata. Ma la vita è una, il tempo troppo poco e l’ultimo episodio me lo scaricherò. Sono contento così: ho visto un capolavoro autentico e oggi è come se fossi di ritorno dal funerale di un amico caro. E lo so che pare assurdo – devo elaborare, cazzo! – ma la puntata in cui Greene se ne va – non riesco neanche a dirlo – è un capolavoro unico di sottigliezza, di intensità e pure di ricatto emozionale, con il medley di Israel Kamakawiwo’ole che è una coltellata lieve che mi fa sempre singhiozzare. (Dvd; luglio 2010)
782 – The Shield – Seconda Stagione di Shawn Ryan, USA, 2003
Sempre brutti, sporchi e cattivi, i nostri agenti che mantengono l’ordine nel peggiore distretto di Los Angeles, tra droga, prostituzione, bassa politica mercantile, mafie e tensioni razziali. Ricatti incrociati, tranelli, giochi zozzissimi, perché “bisogna fare un po’ di male, per ottenere il bene” e per provare a mantenere l’ordine in quella discarica piena di umanità che è la città degli angeli, specchio dell’America capitalistica metropolitana, dove tutto ha un prezzo e quasi a nulla si dà valore. Sempre un piacere, questo serial: forse equivoco perché ci fa fare i conti con la nostra cattiva coscienza, ma inequivocabile. (Dvd; agosto 2010)
783 – Il mappazzone Revolutionary Road di Sam Mendes, USA/Gran Bretagna 2008
Siamo ad Andalo, con uno schermo in camera che fa impressione, abituati come siamo ai pollicini del nostro tubo catodico. Siccome i Dvd che ho portato io schifano Barbara, si impone la sua scelta tra quelli messi a disposizione dall’albergo. E si va dritti a questo drammone ambientato negli USA dei Fifties, quando altro che pace e Vietnam e diritti civili: la donna bianca era the nigger of the world e guai a incrinare il perbenismo della società con comportamenti devianti dalla morale comune. All’inizio sembra più una storia d’amore romantica e io rompo le scatole a Barbara chiedendole se ha un Harmony da prestarmi per dopo, però andando avanti la love story va presto a rotoli. Protagonisti di questo naufragio titanico della coppia sono quei Leonardo DiCaprio e Kate Winslet che già si amavano sul transatlantico jellato. Entrati nella bella casa in Revolutionary Road scopriamo che sono in crisi nera, tra figli, esigenze di facciata, lavori non apprezzati, aspirazioni tradite o soffocate. E vai di liti furiose, di ripicche e illusioni. Ottima elegante messa in scena, bello sviluppo narrativo e attori ben diretti, per un film che ci dice molto di allora ma anche di oggi, perché se fai la radice cubica non è che sia cambiato granché per il ruolo della donna. Poi, a voler essere cinici, potremmo anche dire che trattasi di film borghese da sabato sera, per pizza e discussione, con le donne che diranno tutte che la povera April Wheeler è vittima della società maschilista che la vuole solo mamma riproduttrice, niente lavoro, zitta e buona a casa, e con i maschi che difenderanno l’ometto Frank col testone da bambinone che, poverino, si fa un culo così ed è lei a essere una nevrastenica. Il film non prende parte in maniera esplicita (ed è un bene, anche se è evidente che l’umana pietà è rivolta più ad April ed è chiaro cosa si voglia rappresentare) e gioca con le ambiguità del caso: l’unico che comprende il travaglio della donna è uno spostato con problemi mentali, in realtà più lucido di tutti. Per concludere: bel film, ma non è la mia tazza di tè. Non vedevo un film drammatico da secoli. Ne aspetterò altri due. (Dvd; 16/8/10)
784 – Che belli i morti di fame di Slumdog Millionaire di Danny Boyle, Gran Bretagna 2008
Non è che si possa fare molto, la sera, ad Andalo, e con le due belvette che dormono (finalmente anche Elena!) il Dvd è la morte nostra. Per cui ci vediamo un successone dell’anno passato che tanto aveva fatto discutere, perché certa narrazione scanzonata di eventi anche tragici era – secondo alcuni – estetica della povertà fuori luogo. Ed effettivamente il racconto è così travolgente che ahimè puoi dimenticarti che la realtà degli slum indiani è anche peggio di quella descritta e anche se la vita è colorata e allegra e profuma di curry si muore di dissenteria e non ci sono belle facciotte sorridenti che tengano. È un bel problemino etico, quello della rappresentazione e di cosa si possa narrare e come, e io non posso che rendere conto del mio coinvolgimento nella fabula perché son troppo confuso dalla rarefazione dell’ossigeno montano, diciamo così. Boyle va alla pancia dello spettatore e lo trascina dentro la vicenda senza farsi mancare alcun effettaccio, tanto da farti rimpiangere la più fetida latrina di Scozia di Trainspotteriana memoria. La musica incalzante, la simpatia degli attori e tutto l’apparato tecnico ti fanno prigioniero come niente: il film c’è, funziona e fila come un treno e ha vinto una marea di Oscar. Ed è allora che i più cool hanno cominciato a snobbarlo, anche perché finito il film, chi se ne fotte dell’India? Però così diventiamo troppo ideologici. O d’altra parte siamo troppo superficiali. Non lo so: io cool non lo sono per niente, sono proprio meat ‘n potatoes: per cui ho apprezzato la storia, ma so anche che c’è qualcosa che rimane troppo al di sopra dei problemi e troppo al di sotto della spettacolarizzazione e mi sento colpevole. Beh, questo sempre. Ah: l’11 agosto è morto Dino Crocco, che come nome magari non vi dice niente, ma per la mia generazione è stato il volto di tanta tivù privata anni Settanta, quella fatta alla buona ché importava occupare l’etere, con sconclusionati trasmissioni da Lavagello… Comunque questo Crocco, tra le tante cose, presentava un programma di Telecity che metteva in competizione le classi di quinta elementare delle scuole genovesi e io avevo partecipato nella tarda primavera del 1980 a un’epica sfida contro la temibile Scuola Germanica, registrata in un locale posto tra i due teatri Genovese e Duse. A differenza del protagonista di The Millionaire, avevo però ceffato clamorosamente la domandona finale attribuendo per emozione a Mercantini l’inno di Mameli, una cosa così, che ricordo vagamente perché l’ho rimossa, sentendo ancora il peso di quell’errore (ma eravamo tutti euforici: finiva la scuola, arrivava l’esame di quinta e chi se ne frega se avevamo perso in finale. E anche il mio compagno Riccardo Esposito aveva smarronato clamorosamente in preda all’orgasmo). (Lo stesso anno avevamo anche partecipato al programma di Tivuesse – la tivù del Secolo XIX – con Pata e Trac, ma questo non se lo può ricordare veramente nessuno: in Rete non c’è alcun riferimento a questi due pagliacci – intendo dire che facevano i clown, chissà che fine han fatto). (Dvd; 17/8/10)
785 – M’è cresciuta la terza palla guardando The Terminal di Steven Spielberg, USA 2004
Altra serata buca, altro giro: dunque, che Spielberg sappia raccontare bene l’azione e il dramma, nessun dubbio, ma appena fa la commedia, casca l’asino. E più insiste, più fa pena. Il tema del film in questione è zeppo di implicazioni: la terra promessa, la cattività, il premio della libertà, la burocrazia, perfino tutte le menate di Marc Augé sui non-luoghi che avrebbero dato occasione a Wenders di farsi una pippa colossale su pellicola e ai critici, a due mani, sui giornali. E invece niente: Spielberg vuole la commedia e vuol farci tutti ridere con la vicenda di Viktor che, per problemi di documenti e di trattati tra paesi, rimane prigioniero di un terminal aeronautico e deve arrangiarsi in questo limbo territoriale ed esistenziale. Nell’aeroporto sono tutti carinissimi, tutti immigrati felici e la società USA in fondo è buona buona. Da un momento all’altro scopriamo che Viktor è un costruttore provetto e ama la musica jazz (e non è quella che propriamente si definisce una crescita del personaggio). E poi viene fuori il motivo del viaggio in USA: la ricerca di un autografo di Benny Golson, l’unico che mancava al papà di Viktor che, negli anni bui della dittatura nel suo paese, aveva raccolto tutte le firme dei jazzisti presenti nella storica foto fatta ad Harlem nel 1958. Ma queste sono minuzie in un film noioso, che dura due ore interminabili ed è divertente appunto come se fossi anche tu in sala attesa a Malpensa mentre ti fottono i bagagli, che fa ridere una sola volta (grazie a Gupta, l’uomo delle pulizie che è anche giocoliere) e che ha personaggi appena sbozzati (il direttore della sicurezza interpretato da Stanley Tucci o la hostess Catherine Zeta-Jones, decisamente improbabile e costretta a dialoghi ferocemente imbarazzanti). Riflessioni sulla solitudine o sullo spaesamento, nisba: tutto ridotto a una vicenda agrodolce, un po’ comica ma soprattutto no, e senza morale. Girato in maniera insipida, recitato sicuramente bene, ma anche zeppo di errori di continuità (tipo Hanks con le braccia aperte, stacco, a braccia conserte… cose così, a pacchi) e da uno che muove milioni di dollari come Spielberg proprio non te lo aspetti. Che poi, a Steven, cosa vuoi rimproverargli, seriamente? Cosa vuoi dire a uno che ha messo su un archivio della memoria gigantesco e trova il tempo e il modo di fare soldi raccontando la seconda guerra mondiale, proprio associandosi a Tom Hanks? Eh, cosa? Beh, che The Terminal è ‘nammerda, okay, che però, dài, non è neanche così grave. Comunque: film scritto da quel Sacha Gervasi che due anni dopo ha realizzato il documentario sul ritorno dei metallari Anvil e ha vinto una caterva di premi. Io ce l’ho lì da un anno e adesso ho un po’ paura a guardarmelo. (Dvd; 19/8/10)
786 – Ancora capolavoro! Toy Story 3 di Lee Unkrich, USA 2010
Siamo a Milano e il lavoro – giustamente, eccheccazzo: è agosto! – langue. Mi porto Sofia al cinema perché non resisto oltre. Devo vedere subito Toy Story 3. il film è preceduto da un corto splendido: Quando il giorno incontra la notte (di Teddy Newton, USA 2010), surreale incontro che diventa apologo sulla curiosità, la scoperta e la felice convivenza. Magnifico: mescola tecniche modernissime a quelle tradizionali, in cinque minuti e mezzo di fosforo puro e ci ricorda che “le cose più belle dell’universo sono le più misteriose”, quelle che non conosciamo. E poi ecco il terzo capitolo: riuscitissimo, divertente e infine molto commovente. Forse potrebbe finire qui, la saga, forse no, ma siamo all’altezza delle cose migliori della Pixar, con un finale che unisce passato e futuro con delicatezza estrema. Sofia non riusciva a capire come mai fossi così preso (“Papà, stai male?”), ma lei non sa ancora cosa significa la memoria dei giochi che sta facendo ora. Poi titoli di coda al solito magnifici col conforto di una versione dei Gipsy Kings della classica Un amico in me di Randy Newman. Fai due più due e il pacchetto completo si legge capolavoro, l’ennesimo. Ma come fanno? (E vogliamo parlare di Barbie e Ken?) (Cinema Gloria, Milano; 24/8/10)
787 – Gran sòla Gran Torino di Clint Eastwood, USA 2008
Walt Kowalski non parla, grugnisce, e ha la faccia corrugata come la corteccia di una sequoia. È sboccato, razzista, sessista, omofobico e a destra di Feltri, che considererebbe un sovversivo capellone. Ovviamente siccome Kowalski lo interpreta Eastwood la cosa intenerisce il pubblico che si riconosce e si giustifica: se Eastwood – che non può essere che buono – è così, potrò non esserlo io? Vabbeh: questo bel tipino, dopo una vita spesa alla Ford, ha il cane, fuma le sue sigarette, cura il prato davanti casa e sopporta in silenzio la ferita morale della guerra in Corea dove ha ucciso 13 uomini (i morti invece non han più nessun senso di colpa, beati loro!) ed è la quintessenza dell’americano medio con la bandiera innalzata davanti al portico di casa. Come vicini arrivano degli immigrati Hmong fuggiti ai comunisti, ma questo Kowalski non lo sa. Son gialli, punto. Fan casino, son tanti, sporcano. E guarda con sospetto i due giovani di famiglia: Thao e la sorella Sue. Thao vuole entrare in una gang e prova a fottergli la splendida Gran Torino, curata in maniera maniacale, e la stessa gang ha l’ardire di venire a rompere il cazzo. Lui reagisce, mette a posto il ragazzo e la famiglia Hmong, riconoscente, lo riempie di regali, fiori e cibo. Che scopre essere buonissimo, pensa tu ‘sti selvaggi. E poi, per il tramite di Sue che è sveglia, Walt va a conoscere i musi gialli che mangiano i cani. E all’improvviso gli piacciono e siccome Thao deve espiare, se lo prende da parte e lo fa diventare un uomo, anche perché i figli di Kowalski sono dei pasciuti ottusi americani che dalla vita hanno tutto fuorché dirittura morale e non meritano il suo tempo. Per cui dall’intolleranza iniziale passiamo al rifiuto della violenza e del machismo (ma sempre con i capelli molto corti, mi raccomando, eh?) in uno schematico liberalismo conservatore non meno irritante di quello iniziale. È tutto tagliato con l’accetta, con cambiamenti secchi, svolte improvvise e poco credibili, per blocchi, senza armonia, con personaggi sbozzati con la grazia di un marmista di Carrara. Ma si può diventare adulti dicendo due o tre parolacce? O conquistando la donna, atteggiandosi come ritiene un ottantenne? Mah! E poi tutti a frignare per il finale edificante e ricattatorio e non pensiamoci più. Io no, scusate. (Dvd; 27/8/10)
(Continua – 70)
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