di Simone Scaffidi L.
Yves Pagès, Ricordarmi di, L’orma, trad. Manganelli M. e Trabucchi E., L’orma, 2015, pp. 139, € 11.00
Ricordarmi di è l’autobiografia a frammenti – parziale ed incompleta – dello scrittore ed editore francese Yves Pagès. Uno scavo nella memoria che non presenta nessuna innovativa sperimentazione letteraria, non nascondendo – fin dal titolo – la parentela con il più celebre Mi ricordo di Georges Perec, a sua volta debitore del meno famoso I remember di Joe Brainard.
Un’idea non proprio originale si potrebbe dunque contestare all’autore, che però ribatterebbe ricordandoci che il furto in letteratura è cosa sacra, perché chi non ruba non s’ibrida e chi ricerca la purezza del proprio stile, per dirla con Gipi, è un «misero»: «le gabbie sono per chi vuole essere schiavo se no ne fai a meno» e lo stile non è altro che «una stronzata da società economica».
Yves Pagès pensa esattamente lo stesso e anche Perec lo pensava. «Scrivere, per me, è un modo di riorganizzare le parole del dizionario. O i libri che ho già letto. Alquanto banale, come vede» dichiarò in un’intervista l’illustre esponente dell’OuLiPo, consapevole allo stesso tempo di quanto costrizioni e formalismi, da soli, non possano costruire un testo complesso.
Pagès ama il Perec de L’uomo che dorme ma non quello del Mi ricordo. Ciò non gli impedisce di rubare dall’opera che ama meno e che ritiene limitante nelle sue costrizioni generazionali ma non nella sua struttura salmodiata. Perec con dati banali, del tempo e il luogo in cui viveva, voleva far emergere l’infra-ordinario, ciò di cui i giornali e la Storia non parlano ma che è componente essenziale della vita di ogni persona. Pagès nel suo Ricordarmi di non si concentra sull’introspezione personale che, attraverso scintille quotidiane di memoria, può divampare in incendio ma si approccia al frammento dalla prospettiva obliqua del meticciato letterario.
Come in un tangram, i 264 tasselli che compongono l’opera – perfettamente autosussistenti e con il medesimo incipit: «di non dimenticare che» – danno vita a una moltitudine di figure dalle sembianze ora sociali, ora politiche e ora personali che s’intersecano senza soluzione di continuità. Pagès dà così forma al tangram dei suoi ricordi – uno tra le moltitudini possibili –, in cui la chiave per rileggere la propria vita diventa non la memoria di se stesso ma quella degli altri: familiari, compagni di scuola, amanti, attivisti, intellettuali e sconosciuti.
I rimandi da un «di non dimenticare che» all’altro non mancano ed è così che il frammento da indipendente diviene parte del tutto e va a formare un vero e proprio romanzo frammentario dove registri e contenuti giocano ad ibridarsi.
A seguire, quattro tasselli del tangram di Yves Pagès:
Di non dimenticare che la prima apparizione pubblica di una bandiera nera risale al 1883, e che quel vessillo non aveva niente a che fare con quello dei corsari, né con qualche simbolo satanico o funebre, poiché si trattava di una gonna scura che Louise Michel brandì in cima a un manico di scopa durante un corteo di disoccupati nel tentativo di aggirare, con quel cencio di fortuna, la proibizione emanata dopo l’insurrezione comunarda di agitare qualsivoglia straccio colorato di rosso.
Di non dimenticare che, come le varie ideuzze che vi ci ronzano dentro ogni giorno, sulla nostra testa, centocinquantamila capelli crescono di un centimetro al mese durante l’inverno, e di quasi il doppio quando la bella stagione torna a irrigare i nostri scalpi con un sudore fruttificante.
Di non dimenticare che per far stare su un’unica pagina formato A4 i nomi, l’età presunta e il luogo del decesso dei senzatetto morti per strada nel corso del primo semestre 2011, vale a dire 264 casi di sfratti esecutivi divenuti ormai definitivi, bisognerebbe scrivere con un carattere di dimensioni inferiori a 3, il che sulla carta risulterebbe illeggibile giacché le nostre stampanti a getto d’inchiostro non tengono conto dei segni tipografici con un corpo così impercettibile, quasi nullo.
Di non dimenticare che al momento di iniziare questo nuovo frammento ho creduto di risentire alle mie spalle il respiro catarroso, asmatico ma regolare di mia madre all’ospedale Saint-Louis, quando resisteva alla superinfezione polmonare sotto la maschera respiratoria, e invece no, falso allarme, dopo debita verifica nella stanza accanto so che si tratta del ferro da stiro che sospira a vuoto per mancanza d’acqua nel serbatoio, per avvertirmi dei rischi e pericoli che correrei se non staccassi la spina prima di uscire.