di Letizia Muratori
Vittorio Giacopini, La mappa, Il Saggiatore, 2015, pp. 332, € 15,30.
Non ho idea di cosa spinga Vittorio Giacopini a dare un corpo alla mente di strateghi, maghi e maestri della tattica; fatto sta che lo sa fare come nessuno, perlomeno in Italia. Siano grandi giocatori di scacchi o cartografi al seguito di Napoleone come Serge Victor, protagonista del suo ultimo libro, “La Mappa” (il Saggiatore), la vocazione di questi assatanati ragionatori è la stessa: vivere non basta, bisogna pensarsi, darsi una forma a partire da un perimetro d’azione in cui tutto è calcolato, previsto e disegnato per accogliere al meglio l’impatto del caso.
Una partita, come una guerra, o meglio, una campagna, lo stratega-giocatore ce la ha già, come si dice, tutta in testa, e questo è un assunto ovvio, perfino scontato. Infilarsi in una testa del genere senza annoiare chi ti legge lo è molto meno.
Serge Victor, illuminista in un mondo che già va oscurandosi, si attiene gli ordini di Napoleone, è in qualche modo un tecnico al servizio di uno stratega alfa della storia, al tempo stesso è il primo esploratore del territorio da conquistare. Conquista che è questione di sguardo: alto quel tanto che basta a non perdersi nulla, nemmeno un rilievo, una svolta. Uno sguardo tutt’altro che vergine, mediato dal confronto con altre fonti, mappe preesistenti, e questo è il bello dell’impresa, uno sguardo che rimette insieme dati, ricompone e verifica. L’intelligenza alla fin fine è questione di agilità nei collegamenti. Arte del mettere insieme, dividere e scartare.
Serge è un soggetto intelligente, non ci sono dubbi, ma Giacopini che è uno spirito anarchico, dissacratore e, come molti scrittori veri, un po’ sadico, lo mette continuamente nei guai. “La Mappa”, ovvero vita e avventure di Serge Victor, il grenoblese catapultato sulla scena della campagna d’Italia, non è un romanzo storico così come lo si intende oggi: non usa il passato per raccontare il presente. Per carità, sono leciti i rimandi al disordine contemporaneo che tecnici e imbonitori non sanno fronteggiare ma non è questo il punto, perché il tempo del libro è quello incondizionato della letteratura, e proprio per questo resta anche fedele al gusto dei tempi che racconta.
Quelle di Giacopini sono pagine con una patina che è il frutto di una ricerca lessicale molto curiosa. C’è, e si sente, il gusto dell’autore. All’interesse per la trama fine della politica così evidente nel Direttorio – ibrido storico in cui è difficile orientarsi e indicare una qualche volontà univoca – Giacopini alterna la passione per il quadretto notturno, da quinta settecentesca e un po’ villanella, quando non ricorre alla pantomima, dove attori e automi meccanici sono trattati alla pari. Le grandi manovre militari sono sullo sfondo o in preparazione mentre, in primo piano, ritroviamo una vita guitta che l’umorismo nero di Giacopini trasformerà nel corso della narrazione in un connubio casalingo tra Serge, dedito al culto della mappa ovvero pezzi di “storia sequestrata nello spazio”, e Zoraide, la maga, amante e “mogliettina” veggente ai limiti della saccenteria.
Tutta curve, riccioli neri e oscura sapienza, Zoraide si dedica anima e corpo al rovescio ironico della grande opera del compagno: un catalogo di zombie, leggende, fantasmi e mummie. Naturalmente c’è qualcosa sotto, ma non lo riveleremo al lettore. I due si amano appassionatamente, soprattutto per ingannare il tempo. In questo collocare la passione erotica sul confine tra il riempitivo e la romantica sospensione temporale, lo spirito beffardo dell’autore dà il meglio. Al di là dell’umorismo, però, la calma laboriosa e perfino un po’ pallosa che scandisce le giornate di Serge e Zoraide è qualcosa che resta impresso nella mente del lettore. Lei chiama lui: “francesino”, e più che un paladino della ragione o un maschio stregato dalla magia del femminile, Serge spesso si staglia sulla pagina come un vaso di gerani.
Quello che voglio dire è che “La Mappa” è un libro che inganna, bizzarro, pieno di sorprese, trappole e divertimento. Un testo in movimento, ma non isterico, calmo. E in questo risiede la sua originalità: un picaresco al rallentatore. E’ come se, leggendolo, si prendesse posto su un battello, pronti ad attraversare canali e canaletti, percorsi misteriosi ma circoscritti che restituiscono materia alla mappa. L’astrazione che pian piano si incarna in una stravagante forma narrativa. E la mappa diviene quasi un capriccio, dove il confine tra il vero e il fantastico si confonde.
Se il paesaggio è mutevole, e mai prevedibile, le figure del libro sono spesso descritte nel segno della ripetizione. Il cartografo, la maga, Saliceti, ma anche il poeta Guicciardi non fanno altro che stuzzicarsi a vicenda, agiscono irritanti e scherzosi. E appaiono ripetitivi nei gesti, oltre che nelle battute, quasi fossero caricati a molla. Meccanici, appunto. Prima di svanire nel nulla, queste comparse un po’ attardate che appartengono a un orizzonte del pensiero già superato dagli eventi si fanno un ultimo giro e via via perdono pezzi. La Mappa è un libro in cui il fallimento, la fine di una giovinezza e il ritorno all’ordine fanno un rumore che, una volta intercettato, non si può più ignorare.