di Luca Cangianti
Massimo Recchioni-Giovanni Parrella, Il Gobbo del Quarticciolo e la sua banda nella Resistenza, Milieu, 2015, pp. 208, € 14,90.
“Il fronte comincia dagli archi di Porta Furba”, scrisse un soldato tedesco durante l’occupazione nazista di Roma. Nella Capitale gli invasori non furono cacciati con un’insurrezione come a Napoli, ma la Resistenza fu ugualmente agguerrita, specialmente nei quartieri meridionali: il sabotaggio di tralicci telefonici, il lancio di chiodi a quattro punte per fermare gli automezzi nazifascisti, le incursioni nei forti militari per reperire viveri e armi, gli assalti ai forni e alle colonne militari occupanti erano azioni all’ordine del giorno.
Porta Furba è un arco antico all’incrocio tra via Tuscolana e l’acquedotto Felice. Venendo dal centro, alla sua sinistra si trova il Quadraro. È questo il quartiere che a causa della forte presenza partigiana fu definito “nido di vespe” dal console tedesco a Roma durante l’occupazione. Nello spazio urbano tra le vie consolari della Casilina e della Prenestina, ci sono poi il Pigneto, Torpignattara, Centocelle e il Quarticciolo. Queste zone erano delle borgate popolate principalmente da immigrati meridionali e dagli sfollati della politica urbanistica fascista; erano la cintura operaia di una città in larga parte impiegatizia e ministeriale. In base a una legge fascista abolita solo nel 1961, gli immigrati a Roma non avevano diritto all’iscrizione all’anagrafe, alle liste di collocamento ed elettorali, all’assistenza sanitaria e previdenziale. Le loro condizioni non erano insomma diverse da quelle di molti stranieri in Italia ai nostri giorni.
Camminando per le strade secondarie di questi quartieri ancora oggi è possibile immaginare l’atmosfera semirurale che avevano ai tempi della guerriglia partigiana. Del resto questo sforzo d’immaginazione è sostenuto da molti murales ispirati a quegli eventi e dal moltiplicarsi di iniziative quali visite organizzate ai luoghi simbolo della Resistenza e raccolte di testimonianze dei protagonisti di quelle vicende. I promotori (giovani ricercatori, centri sociali, associazioni e comitati di quartiere) sembrano credere fermamente che i processi di soggettivazione politica siano agevolati dalla memoria storica incarnata nei luoghi di vita quotidiana – quasi che sapere di vivere nei quartieri più ribelli della Roma partigiana, possa ancora oggi ispirare un nuovo percorso di liberazione.
Il Gobbo del Quarticciolo e la sua banda nella Resistenza ha una funzione simile. Attraverso testimonianze dirette e articoli di giornale, ci restituisce infatti un’immagine articolata della Resistenza romana, nella quale erano presenti i gappisti, i comunisti eretici di Bandiera Rossa, le Brigate Matteotti, ma anche molti gruppi non inquadrati animati da un forte astio di classe. La banda del Gobbo, il cui vero nome era Giuseppe Albano, fu una di queste.
A distanza di settanta anni il Gobbo del Quarticciolo è ancora fortemente presente nell’imaginario romano, forse proprio per la duplicità del suo profilo, prima e dopo la Liberazione.
Prima fu un intrepido combattente immigrato dalla Calabria, un Robin Hood proletario che derubava e castigava i nazifascisti per sfamare e proteggere la popolazione della Sherwood romana. Era un bandito sociale perfettamente integrato nella sua comunità di classe: aggressivo e spavaldo come possono essere i borgatari, si spostava invisibile al nemico dentro gli acquedotti e colpiva senza pietà. Un quotidiano antifascista nel 1944 descrive una sua azione così: “Ed ecco da una porta uscire un gobbo armato di moschetto e di un tascapane di bombe. Si piazza in mezzo a un quadrivio e lancia una bomba. Poi tranquillo, tira un primo colpo di moschetto. I tedeschi rispondono. Il Gobbo tira un’altra bomba e un altro colpo. I tedeschi gli sparano con la mitragliatrice. Ma il Gobbo è fatato: nessun colpo lo raggiunge”. Catturato dalle SS, è torturato, ma non parla e scampa alla fucilazione grazie all’arrivo degli Alleati il 4 giugno del 1944.
Dopo la liberazione, Albano si mise a dare la caccia ai torturatori di via Tasso e ad altri criminali fascisti, ma presto notò che i nuovi governanti avevano avviato una vasta operazione di recupero e riciclaggio dei fascisti, mentre la miseria delle borgate rimaneva la stessa di sempre. È così, secondo Parrella e Recchioni, “Albano arrivò alla conclusione che nessuna forza politica era interessata a risolvere i problemi delle borgate, e quindi l’unica cosa che rimaneva da fare era pensare alle piccole conquiste giornaliere personali… cercando di trarre benefici per la gente che lo circondava e soprattutto per sé”. Il Gobbo iniziò a vestirsi con pellicce e cappelli costosissimi; rifluì quindi nella pura criminalità, probabilmente manipolato proprio da chi aveva precedentemente combattuto: le forze reazionarie che temevano la rottura radicale con il passato.
Le testimonianze si soffermano raramente sulla deformità fisica di Giuseppe Albano, mentre sottolineano spesso la bellezza del suo volto – il volto di un ragazzo che il 16 gennaio 1945, il giorno della sua morte, non aveva ancora compiuto diciannove anni. Sulle circostanze del suo assassinio è stata messa in dubbio la versione ufficiale del conflitto a fuoco con i Carabinieri e sono state avanzate ipotesi alternative in cui il Gobbo sarebbe stato vittima di sicari al soldo di un’organizzazione di pseudo-sinistra (l’Unione Proletaria) – ricettacolo di ex fascisti e di nuove trame eversive (Cfr. S. Corvisieri, Il Re, Togliatti e il Gobbo, Odradek, 1998). Recchioni e Parrella, tuttavia, anche sulla base di nuove testimonianze avanzano un’ulteriore ipotesi.
Il Gobbo del Quarticciolo e la sua banda nella Resistenza è un libro che non teme di mostrare fino in fondo la contraddittorietà di una biografia proletaria inserita nel contesto drammatico dell’occupazione nazista di Roma. Gli eventi rivoluzionari, e la Resistenza è sicuramente da inserire tra questi, possono provocare profonde fratture esistenziali. L’arrivo della rivoluzione è capace di dare senso e speranza a chi non ne ha, facendo scorgere la possibilità di un orizzonte di riscatto collettivo. Il precoce interrompersi del processo può di contro favorire il ripiego su strategie individualistiche. Se la speranza nella redistribuzione collettiva della ricchezza viene meno, rimane solo la sconfitta o la continuazione dell’esproprio a fini personali.
I proletari, i borgatari e gli immigrati agli occhi dei benpensanti sembrano sempre “brutti, sporchi e cattivi”. In certi casi possono anche esserlo, ma intanto furono la principale spina nel fianco dell’occupante nazifascista. E se ci sarà una nuova Liberazione, probabilmente sarà ancora grazie a loro.