di Mauro Baldrati
“Basta, che vadano a lavorare!” ha sbottato uno spettatore emotivo, appassionato di filmografia storica di fronte all’ennesimo massacro della banda vichinga scatenata nelle razzie sulle coste inglesi.
Perché è questo che facevano i mitici “guerrieri” del Nord: arrivavano nei villaggi sulle coste, rubavano tutto, e già che c’erano massacravano gli abitanti, portando via i sopravvissuti (soprattutto donne e bambini) come schiavi.
Non che fossero peggiori degli altri, intendiamoci. Erano adepti di una religione aggressiva e sanguinaria, ma, per dire, il devoto Carlo Magno fece giustiziare più di 4.000 prigionieri sassoni che si erano ribellati a Verden. Per non parlare degli altri re e feudatari cristiani, professional killers guerrafondai che hanno lastricato di cadaveri i pavimenti dei loro palazzi.
La serie canadese Viking, che riprenderà la seconda stagione su RAI 4 a partire dal 25 marzo, non ci va tanto leggera con le vicende vichinghe. La storia, ambientata nell’alto medioevo (VIII secolo), vale a dire nella fase iniziale dell’espansione delle tribù normanne che vivevano sulle coste della Scandinavia, narra le gesta di un mitico eroe, Ragnar Loðbrók, un personaggio romanzesco citato dal cronista medievale danese Saxo Grammaticus, che avrebbe regnato su Svezia e Danimarca, unificandole. Prendendo dati reali e lavorando di fantasia, gli sceneggiatori hanno creato una serie quasi iper-realistica nella quale i requisiti di base delle narrazioni di genere vengono soddisfatti: ricostruzione storica rigorosa nei dettagli, personaggi caratterizzati e con una psicologia definita, vicende avventurose con un mix “forte” di violenza, sesso, bellezza, avidità, tradimento, eroismo, romanticismo, tragedia. Le storie personali si alternano e si fondono con quelle oggettive, bypassando la tendenza a trasformare i personaggi in cartoni animati, attraverso una esasperazione delle varie componenti del genere (violenza, sesso, splatter, combattimenti, ecc), come avviene, per esempio, in un’altra serie storica come Spartacus.
I vichinghi, i guerrieri che tante fantasie epiche hanno stimolato nei secoli, vengono rappresentati in maniera verosimile, anche per una ricerca storica accurata che non trascura i particolari. Le gesta di Ragnar, e della moglie Lagertha (altro personaggio romanzesco, la regina guerriera che sarebbe addirittura figlia di Sigfrido e Brunilde, sdoppiata nella serie con la principessa Aslaug, che sforna un figlio dopo l’altro al giovane patriarca Ragnar) sono narrate con doverose, inevitabili licenze fantastiche, ma restano fedeli ai personaggi reali, agli eventi e agli stili. Forse i più grandi navigatori della storia, scoprirono l’America 5 secoli prima di Cristoforo Colombo, arrivarono in Russia, in Africa, Canada, sempre saccheggiando, talvolta commerciando, spinti da una sorta di misteriosa energia predatoria–distruttiva la cui origine gli storici non sono mai stati in grado di spiegare. Perché tanta aggressività? Sembra da escludersi una sovrapopolazione della Scandinavia, né sono state dimostrate carestie o pestilenze. E neanche altre invasioni barbariche, che furono la causa, per esempio, delle scorrerie dei popoli nomadi nei territori dell’Impero Romano.
Viking in parte fornisce la sua spiegazione. L’eroe Ragnar, che nella prima stagione è un giovane fattore-pescatore che, come tutti, in estate parte per le razzie agli ordini del signore feudale del luogo, il conte Haraldson (interpretato da un grande Gabriel Byrne), avido, ladro, traditore, invidioso e rancoroso, è spinto da un’ossessione: andare a Ovest, per rastrellare tesori, ma soprattutto per esplorare nuove terre. Ha quest’ansia di conoscenza, che non può non evocare Ulisse, l’altro navigatore-guerriero che passa da un’avventura all’altra. Uccide se c’è da uccidere, ma si eleva dagli altri barbari sterminatori; saccheggia, ma non partecipa all’orgia di sangue dopo le aggressioni. Dopo il massacro di una comunità di monaci cristiani inglesi sorpresi mentre lavoravano ai codici miniati, salva la vita a uno di loro e lo prende come suo schiavo personale (in realtà lo tratterà come un segretario tuttofare), perché vuole sapere: chi è il suo dio, cosa dice, quali sono le sue usanze, la sua lingua, lo invita persino a partecipare a una notte d’amore a tre, con la bellissima Lagertha, ma il povero monaco ha fatto voto di castità.
Poi Ragnar, per una serie di eventi che precipitano, finalmente uccide il perfido Haraldson e diventa lui stesso conte, potendo così liberare tutte le sue energie conquistatrici. Parte per le razzie verso Ovest a bordo di navi di nuova progettazione, dove lo attendono infinite avventure. La seconda stagione lo vede impegnato in guerre contro re inglesi e svedesi, invischiato in congiure e tradimenti, sempre curioso, coraggioso, e nobile, buono e giusto, benché sia spesso coperto del sangue dei nemici (per esempio, si improvvisa macellaio per infliggere un orribile supplizio a un traditore che ha tentato di uccidere la sua famiglia, mentre lui era in tournée per razzie). Intanto l’orda che lo segue si macchia sempre di nuove stragi, altri monaci fatti a pezzi con le mannaie tra le risate dei mostri barbuti, villaggi distrutti, povere suore stuprate a morte, facendo di nuovo indignare lo spettatore emotivo, che desidererebbe vederli tutti sterminati, quei demoni psicopatici.
Ma la bellezza davvero notevole dei costumi e degli ambienti, di un realismo che lascia stupiti, e una sceneggiatura lineare, ben calibrata, non corrotta dal buonismo, con un ritmo narrativo perfetto, senza le dispersioni e le pesantezze di altre serie storiche o fanta-storiche come Il trono di spade, o White Queen, né eccessivi compiacimenti nella violenza e nel sesso (benché non si faccia mancare nulla), lo spessore dei personaggi, coi loro tormenti e i loro furori, fanno in un certo senso riscattare questa tragica eredità della nostra specie umana, che sembra nata rubando e uccidendo, come se la pace, la fratellanza e il rispetto fossero le nemesi ancestrali da cui difendersi con le armi in pugno e i piedi immersi in un fiume di sangue.