di Marilù Oliva
Maurizio de Giovanni, Il resto della settimana, Rizzoli, 2015, pp. 304, 17 €
Che de Giovanni fosse un tifoso innamorato della sua città e della sua squadra azzurra, già lo sapevamo. Lo sanno i lettori dei suoi saggi, ma anche chiunque abbia letto i suoi articoli sulle colonne de “Il Mattino” o l’abbia ascoltato in tivù, di persona, alle presentazioni dei suoi libri. Il resto della settimana è un grande omaggio a questa sua atavica passione. Un romanzo in cui l’autore mette a riposo il genere noir e i personaggi che l’hanno fatto svettare nelle classifiche, Ricciardi – commissario le cui vicende sono ambientate nella Napoli fascista – e i Bastardi di Pizzofalcone, che operano nella stessa città, ma in epoca attuale.
Uscito per Rizzoli nella collana “La Scala”, questo libro si dipana per due luoghi fondamentali, entrambi – anche se in misura diversa – luoghi di transizione tra la realtà cruda e il sogno, passaggi di folle, illusioni caleidoscopiche in cui viatico è un biglietto o uno scontrino: lo stadio e il bar. Del primo e delle sue finalità si sviscerano stati d’animo, incongruenze, motivi, si rammentano partite storiche, boati, tribune, recuperi, trasferte, goal che lasciano senza voce. La storia procede attraverso una narrazione inserita su diversi piani dove se la giocano il presente, il passato, il personale e il collettivo, ma le ambientazioni privilegiate restano stadio e bar. Cos’hanno in comune questi due spazi? Innanzitutto l’oggetto di speculazione:
«Perché in un’epoca in cui le forti ideologie politiche si sono spente, i grandi movimenti sindacali hanno perso la propria forza propulsiva, le coscienze di classe si sono frantumate in mille rivoli di egocentrico individualismo, l’unica passione che porta la gente a superare barriere di censo e di ceto in un comune intento è proprio l’argomento di cui si discute animatamente disperatamente e parossisticamente il lunedì. Al bar».
Qui, nel bar di Beppe, un professore ormai in vista della pensione decide di annotare, seduto a un tavolino, tutti i fenomeni e i ricordi che possono ricostruire e capire quella malattia endemica chiamata tifo. E se l’Evento è la partita vera e propria, il Professore pensa di intitolare la sua opera Il resto della settimana, appunto, perché vuole individuare, sugli assi cartesiani della vita quotidiana, slanci, trepidazioni e afflati di quell’attesa legata alla detonazione della domenica attraverso le voci degli altri. Hanno tanti nomi – Nando, Luca, Mario, per dirne tre – e incantano anche chi, come la sottoscritta, non si è mai fatta abbindolare dal calcio.
Per la capacità dell’autore di afferrare la vita e la magia dell’entusiasmo si è parlato di “romanzo sudamericano”: concordo, ma i motivi sono anche altri. Uno è la passione che soprassiede ovunque. L’altro è che si capta un discorso di democrazia, tra le righe: l’ideale di uguaglianza cui aspira un autore che gioisce per una malattia in grado di unire o dividere indistintamente dalla condizione sociale o anagrafica, morbo segnato da una sintomatologia multiforme che colpisce a seconda del carattere dell’infermo. Poi con dolcezza affiora, tra le esultanze e le grida di gioia, la tristezza per la solidarietà mancata – una solidarietà più ampia, che abbraccia la consapevolezza delle nostre condizioni e che, tranne rarissime volte, ci sfugge, perché la mente si è lasciata ottundere da altro. Infine compare timida – e sempre aggraziata – la saudade per quello che avrebbe potuto essere, per i ricordi, i lasciti di un padre, ad esempio, e per il senso di solitudine di chi, come il Professore, si immerge nella calca ma torna sempre, dopo, al suo assolo. E sembra che de Giovanni non molli la presa, ma confidi in quello che l’amore per il calcio potrebbe insegnarci, a partire dalla serietà nella competizione, ma anche dal saper perdere – merce rara – per finire con l’adesione all’altro: riuscire a valicare i nostri piccoli confini è arte da fuoriclasse.