di Cristina Rosati
Comité Invisible, A nos amis, La Fabrique éditions, Paris, 2014, pp. 250, € 10,00
A sette anni dall’uscita de “L’insurrezione che viene” e dopo l’esplosione in Francia del caso Tarnac, di cui Carmilla si è occupata qui, il Comitato invisibile è tornato con un nuovo testo, un documento politico, filosofico e quasi poetico, dal semplice titolo “À nos amis”, pubblicato dalla prestigiosa casa editrice La fabrique alla fine di ottobre dello scorso anno.
“Non esistono altri mondi. Esiste semplicemente un’altra maniera di vivere”. La citazione rubata a chi del furto ha fatto una professione, Jacques Mesrine, all’inizio del testo, ci introduce già in un discorso che non sarà mai scontato e che ha come obiettivo di far luce sul nostro presente storico e sociale senza aggrapparsi a vecchie e obsolete dottrine. Il Comitato non risparmia nessuno, da Proudhon ai comunisti, dagli anarchici alle Brigate Rosse, dai pacifisti fino a “le misérable Beppe Grillo”.
Il filo rosso del testo è l’interpretazione di cosa si intende oggi per “crisi”, quella crisi che è finanziaria, mondiale, sociale e per cui tutto è giustificato, anche le peggiori nefandezze. Il Comitato inverte il punto di vista: non viviamo oggi la crisi del capitale, ma il trionfo del capitalismo di crisi. Appropriandosi della gestione della crisi come tecnica di governo, il capitale si è arrogato il diritto di essere detentore dell’intelligenza strategica del presente, e lo fa seguendo un doppio discorso. La crisi serve al capitale: uno, come forza creatrice di nuove imprese; due, come metodo di gestione delle popolazioni, destabilizzare per stabilizzare.
Per chiarificare questo punto di vista filosofico e collocarlo nella realtà, il Comitato analizza le tecniche o, meglio, il trionfo della tecnica nella vita di tutti i giorni. Il potere non si trova più nelle istituzioni, e i politici sono qualcosa con cui le popolazioni vengono semplicemente “distratte”. Sulle banconote in euro cosa è ritrattato? Uomini o donne che hanno cambiato la storia? No. Ci sono le infrastrutture. In Italia si sono susseguiti per anni governi tecnici. I cittadini in tutto ciò non sono dei subalterni, al contrario, sono gli smart people, ricettori e generatori di idee, di servizi e soluzioni. L’“io” è al centro di tutto, condivide la sua geolocalizzazione, il suo umore, la sua opinione. Ignari di star davvero facendo qualcosa, gli smart people producono la realtà, immagazzinano informazioni, migliorano l’algoritmo, si sentono liberi perché interconnessi. Il Comitato ci riporta nella Roma antica, dove proprio attraverso i “liberi” l’impero prosperava. La libertà individuale del “faccio quello che voglio” è una barzelletta, è derisorio.
Se da una parte ci sono gli smart people che vivono nelle smart city, dall’altra ci sono le periferie abbandonate a loro stesse, disgustose, dove sono confinati quei cittadini esclusi perché non funzionali a questo sistema, “inemployables”, al contrario dell’altra classe, creativa e creatrice.
Se questa è, in grossa sintesi, una lettura dei presupposti teorici dell’analisi che troviamo nel testo, non manca lo sforzo di dare un senso e una indicazione al famoso “che fare?”. Come sette anni fa con “L’insurrezione che viene” il Comitato aveva previsto dei focolai rivoluzionari che si sono effettivamente diffusi anche se non sortendo gli effetti desiderati, anche oggi l’interesse va sulle pratiche rivoluzionarie che non sono giudicate nel loro proprio contenuto, ma per gli effetti a catena che potrebbero generare.
Una rivoluzione, si legge in “À nos amis”, non può certo accontentarsi di lotte locali e puntuali, ma si deve centralizzare. Il problema è però proprio la natura di questa unificazione che deve operare trasversalmente, attraverso la molteplicità, senza schiacciare i desideri. Il Comitato ci ricorda l’esempio del Cairo nel 2010. La cosa che più aveva disorientato le forze dell’ordine era stata la mancanza di un leader, una rivoluzione che si è espansa perché è stata capace di mutare, come una specie di virus. Il testo si conclude con i toni più poetici e solenni, attribuendo ad un poco chiaro “noi” il ruolo di organizzare l’incontro, la circolazione e la cospirazione tra atti ed idee locali. Il compito del “rivoluzionario” diventa quello di traduzione, consapevoli ormai che non esista un esperanto della rivolta. “Non sono i ribelli a dover imparare a parlare d’anarchia, – si legge verso la fine del testo – ma sta agli anarchici di diventare poliglotti”.