di Dziga Cacace
I see you shiver with antici…PASSION! (Frank N.Further)
755 – L’imperialismo sensuale e sudaticcio di An Officer and a Gentleman di Taylor Hackford, USA 1981
Ufficiale e gentiluomo: croce e delizia della mia adolescenza, film inevitabile quando passava in tivù, visto e rivisto almeno una decina di volte, compiaciuto prima e man mano imbarazzato poi, eppure impossibilitato a mollarlo, con tutti i centri nervosi disattivati, godendone con malcelata vergogna e suprema voluttà. La prima volta è stata coi miei genitori, credo all’Odeon di Genova nel 1983 e per i miei 13 anni questa era una storia edificante di maturazione. Poi – come detto – il revisionismo dell’adolescenza e della maturità. E oggi, decrepito? Mi concedo la versione in originale, curioso di capire come sia cambiata la mia percezione. E non posso che ammettere: sono di fronte a un sublime capolavoro kitsch, intossicante e ineludibile, con un’anima blue collar (un po’ come il primo Rambo) che giustifica lo sbandamento intellettuale, anche a fronte di un militarismo esibito senza ritegno: alla nazione bruciava ancora il culo dopo la sconfitta in Vietnam (come ricordava bene Un pesce di nome Wanda non avete pareggiato, avete perso, ah ah!) e il film ottenne un successo clamoroso, con corsa all’arruolamento di tanti babbei. Richard Gere ebbe invece – dopo American Gigolo – la definitiva affermazione: qui entra in scena in canottiera, bacino leggermente in avanti, braccia penzoloni, scocciato. Vi assicuro, ho visto cani con lo sguardo molto più intelligente. Orfano di mamma, con babbo marinaretto puttaniere e ubriacone, Zack Mayo ha alle spalle un’infanzia difficile nelle Filippine, traumatizzato da donne zoccole e uomini ladri scimmieschi (tutto grazie a scene esemplificative che ci danno subito la razzista chiave giustificativa per comprendere come mai Zack sia un po’ fragilino). Il ciondolone decide di dare una svolta alla sua vita e uno schiaffo morale al padre e per dimostrare qualcosa si iscrive al corso ufficiali dell’aviazione. Nel campo d’addestramento affacciato sul Puget Sound, stato di Washington, lo attende il sergente Foley, Lou Gossett jr. (che per l’interpretazione vincerà il premio Oscar), che allena le matricole facendogli cantare canzoni giulive contro i vietcong, da abbrustolire col napalm, donne e bambini compresi, cosa che nella versione italiana era prudenzialmente censurata. Servono 6 anni per uscire dall’accademia come piloti: questo è solo l’inizio ma è la scrematura più dura. Intorno alla base bazzicano ragazze in cerca di marito, per scappare da questa zona della costa pacifica francamente deprimente (ambientino che ti ha creato un Kurt Cobain, per dire). Due di loro vengono adocchiate alla prima occasione da Zack e dal commilitone Sid: sono Paula Pokrifky e l’amica Lynette, operaie in una cartiera. Paula, con un cognome che sembra una divinità malvagia di un racconto di Lovecraft, è Debra Winger, attrice che ho amato, amo e amerò sempre, uno splendore assoluto, con gli occhi come due fanali, non bella secondo i canoni classici, ma adorabile. Okay, asciugo la bavetta e proseguo: lei mezza polacca, Zack italo-irlandese (direi con i difetti delle due nazionalità), si trovano alla perfezione, con ansia di riscatto sociale ed esistenziale. Nasce un amore che ai miei 13 anni aveva creato qualche spaesamento sessuale: i due scambiano baci sbocconcellati il cui rumore è quello di un cane che lappa dalla scodella uno spezzatino sugoso, masticando i boli a bocca aperta e sbatacchiando le fauci. E vabbeh. Si arriva al primo accoppiamento dopo che lui ha sbroccato per questioni di possesso della merce: al suono di Tush degli ZZ Top c’è stato il virile confronto con quei bovari locali che si vedono fottere dai militari il bestiame femminile. Mayo ha spaccato il naso a un poverino che obiettava alla razzia, poi – siccome è sensibile – si è pentito e Paula: “Non hai avuto scelta” (e non è vero!). Zack: “Un uomo ha sempre una scelta”, e cominciamo ad addentrarci nei territori del Mito. Segue sceneggiata degna di Merola con lui che non ne vuole sapere, lei invoca attenzione, lui la offende e la scaccia, lei piange, lui la raggiunge, le soffia in un orecchio, una carezza, un bacio e voilà, e dopo la prima chiavata cowboy style lei è subito geisha e gli cucina le uova col bacon (e lui mangia come un cafone, con la testa nel piatto, la forchetta tenuta come un pugnale e pure i gomiti sul tavolo. Bah). Ahia, qui c’è già puzza di famiglia. Intanto l’addestramento punteggia la narrazione evidenziando le caratteristiche dei compagni di corso, tra cui Casey Seeger, la ragazza che non riesce a superare il percorso di guerra. Alla truppa viene insegnata la disciplina e lo spirito di corpo e Foley prova a far fuori Zack che commerciava in scarpe e fibbie lucidate, il mascalzoncello. Non ottiene le sue dimissioni dopo un’altra scena madre (“Don’t you eyeball me, boy!”) e da lì in poi il corso è una passeggiata di piacere. Però viene fuori che Paula è figlia di un aspirante ufficiale che poi ha mollato lì la madre. Allora lui scappa, il cazzo non vuole pensieri, eh. Sulle note dell’assolo di Tunnel of Love dei Dire Straits si riavvicinano, lui si fa sotto, è lei a sfancularlo e gli fa capire un po’ di cose. Intanto siamo a fine addestramento, diversi aspiranti piloti hanno rinunciato, e arriva una scena MONUMENTALE, quando Mayo rinuncia a fare il record sul percorso di guerra perché va in soccorso di Seeger. Perché non vince nessuno se non si vince tutti, te capì? E subito, dietro l’angolo c’è il DRAMMA. L’amico di lui, Sid Worley, un burino rifatto del Midwest che deve dimostrare al padre che ha le palle per far dimenticare un fratello morto in Vietnam, scopre che Lynette è forse incinta… detto fatto: dimissioni e anello di fidanzamento. Ma la sgallettata vuole girare il mondo al seguito del suo ufficiale e confessa che no, non c’è nessun bimbo in arrivo. Sconforto. Zack cerca uno sfogo con Foley: si randellano in un confronto edipico, battere il maestro per diventare adulti. Non ci riesce per un pelo e piglia un calcio nei coglioni che dovrebbe farlo cantare come Farinelli per il resto dei suoi giorni. Ha perso ma è come se avesse vinto. Siamo all’EPICA PURA: Sid si suicida e Mayo piange calde lagrime. Ormai è un uomo. Il finale è APOTEOSI GALATTICA: lui, graduato, va a prendere in fabbrica Paula, se la piglia in braccio e la libera dalle sue catene proletarie tra gli applausi delle altre operaie, compresa Lynette che piagnucola “È così che si fa” (e non si capisce se intenda che gli uomini vadano infinocchiati in questa maniera o cosa, boh). Finale da Cenerentola con Joe Cocker e Jennifer Warnes che cantano Up Where We Belong. Beh, cosa posso dire ancora? Eh, che siamo davanti a un capolavoro ricattatorio, perfetto esempio di cinema popolare, capace di abbattere ogni preclusione ideologica o resistenza alla melassa. E io son stato fatto prigioniero, tutto sommato felicemente, lo ammetto. E ora: “Fuori dalle palle, Mayo!”. (Dvd, dicembre ’09)
756 – Un’altra vita? Life on Mars di Aa.Vv., Gran Bretagna 2006
Cosa farei io se capitassi nell’Inghilterra del 1973? Ah, beh: avrei una lista di concerti lunga così a cui andare. Invece Sam non sa ben come comportarsi, perché lui nel 1973 ci capita dopo esser stato investito da un’auto nel 2006, rimanendo vagamente stordito. Che ci fa, lì? Come mai ha fatto un salto nel tempo? Il dubbio è la vera linea tesa nel racconto, che procede per casi polizieschi, giacché il protagonista finisce a lavorare come sbirro nella stessa Manchester dal cui futuro proviene. Da un certo punto in poi il protagonista sente le voci come Giovanna d’Arco, senza particolari colpi di scena, e vive la sua esperienza parallela come se fosse in coma profondo, un po’ come in A Matter of Life and Death (Scala per il paradiso di Powell e Pressburger: citare in originale fa molto Ghezzi). Là c’erano più IPM (invenzioni per minuto), va detto, ma paragonare un film a una serie è sciocco e siccome ci vuole niente per farmi su, mi affeziono a Sam e al suo superiore, il clamoroso ispettore capo DCI Gene Hunt, omofobo, fisico, violento, tutto istinto animale, ignorante come una campana, ma dotato di un innegabile fiuto. Perché i casi all’epoca si risolvevano così: a botte date e a botte d’intuito avute. Giocando molto la serie sugli anacronismi, fa un po’ ridere pensare che adesso abbiamo i profili psicologici, il luminol, le impronte e le analisi scientifiche, perché poi, oggi come allora, c’è chi è segnato e pagherà e chi invece la farà sempre franca. Bella è la ricostruzione della Gran Bretagna dell’epoca, dominata da uno squallore bestiale: tutti morti di fame, dai poliziotti ai malviventi, e le rapine in banca erano faccende improvvisate, come le indagini che seguivano. Ci si divertiva con birra e freccette e la televisione era ammorbante. Forse per reazione, usciva musica di una bellezza unica, che colorava il grigiore di quella società: la soundtrack è eccezionale, con almeno due grandi hit a puntata (Bowie, Deep Purple, Pink Floyd, Wings, Slade, Sweet, Free etc.) e un generale gusto per la riscoperta di alcune chicche musicali coeve (che mi vanto di riconoscere tutte dopo due note). Il finale della serie è così cosà: rimanda la soluzione dell’inghippo e ci lascia nel limbo in cui si trova anche il povero Sam. Vedremo. (Dvd; dicembre 2009)
757 – Le semplificazioni di Mio fratello è figlio unico di Daniele Luchetti, Italia/Francia 2006
Quando vedi un film ogni due mesi, poi rischi che ti sembrino tutti dei capolavori. Non è questo il caso, ma il film si fa vedere, soprattutto per il buon cast. Antonio Pennacchi, autore del romanzo Il fasciocomunista da cui il film è tratto, ha protestato molto per il trattamento. Diciamo che Pennacchi s’incazza e fa caciara a prescindere, ma qui ha ragione da vendere. Il fatto è che Il fasciocomunista faceva dell’ambiguità, del dubbio e dell’incazzatura verso il mondo, la sua cifra. Luchetti assieme agli ubiqui Rulli e Petraglia ha invece optato per una più comprensibile e manichea suddivisione dei personaggi: i buoni e i cattivi, il bene e il male. E se il libro rimaneva inconcluso – in qualche maniera – era proprio perché la rabbia del personaggio era irriducibile; qui invece ti tocca pure il lieto fine che ci manca che suonino le trombe e gli angeli cantino in coro. Semplificando, si son tenuti i caratteri dominanti dei personaggi (tutti bellissimi, ricchi, sfaccettati, nel romanzo; qui più monodimensionali) e s’è dato un ordine lineare alla trama. Come se avessero squadrato il romanzo, lo avessero razionalizzato, mentre là era bello proprio quel disordine, specchio di una personalità e di una società. Accio Benassi è l’ultimogenito di una famiglia di Latina e non ci sta, mai. Contesta, protesta e mena (botte che sono sempre abbracci, ricerche di contatto fisico, richieste d’amore e di calore), non gli vanno la religione e i ruoli familiari e, da fascistello contestatore, diventa presto comunista (conversione che nel romanzo è, per forza di cose, dosata meglio), seguendo le orme del fratello Manrico e della brava sorella maggiore. Subplot che fa da colonna dorsale del film è la mancanza di una casa, invenzione da manuale di narrativa dei due sceneggiatori onnipresenti, che porterà a un canonico finale liberatorio, catartico, con riscatto e ricompensa. La prima parte del film vive bene, poi la narrazione s’impantana un po’ e funziona solo grazie alle interpretazioni: il porcino Riccardo Scamarcio, il nervoso Elio Germano che sembra un Mastandrea sotto eccitanti, la splendida Diane Fleri e Alba Rohrwacher, brava e intrigante, con la sua faccia da strega di Salem. Buon film medio per il pubblico borghese quale ormai rappresento degnamente con i miei 94 chili di ciccia. Consueto sonoro italico pessimo, accettabile la ricostruzione storica e almeno una gran bella scena: quella dell’occupazione del conservatorio, dove si sente il piacere della fratellanza nella condivisione politica, della provocazione, del gioco, dell’emozione. (Dvd; 23/12/09)
759 – Poca roba, 24: Redemption di Jon Cassar, USA 2008
Lotsa spoilers, here, folks! Ma detto tra noi, non vi perdete niente: il film è frutto dell’annata storta della fiction USA, conseguente allo sciopero degli sceneggiatori. Si è arronzato un film, ma anche lavorando, direi che gli sceneggiatori hanno continuato a manifestare (tra l’altro, magari lo facessero in Italia uno sciopero, gli sceneggiatori, che ci risparmieremmo i Cesaroni…), perché questo Redemption è una mezza schifezza, praticamente un Bud Spencer-movie con le pistolettate al posto dei ceffoni. Jack Bauer è in Africa, a espiare, nel misconosciuto stato del Sangala, paese che ogni volta che veniva citato mi faceva pensare a Bracardi che urla “Fangala! Pippe Baute, fangala!”. Non si sa bene di cosa sia ricco, il Sangala, ma i bianchi tramano con l’aiuto di milizie e soldataglia violenta e tonta (ovvio, sono neri). Jack resiste assieme al volontario Robert Carlyle, corrugato come un olivo saraceno. Gli tostano un’orecchia e lui reagisce tentando di salvare tanti bambini innocenti. I ribelli hanno ovviamente bandiere rosse; gli uomini delle Nazioni Unite sono traditori e vigliacchi. Botte, fughe, inseguimenti, ma siamo abituati a 24 ore croccanti, noi, non a 100 minuti raffermi. Nelle ultime scene vanno in parallelo il discorso d’insediamento della nuova presidentessa d’America (dopo il nero, la donna: chissà mai che non ci azzecchino anche stavolta) e la fuga in elicottero dall’ambasciata di Sangala (molto Saigon-style). E mentre si parla di libertà e ricerca della felicità vengono mostrati i volti di chi vende armi e trama sottobanco. Tornerà tutto nella prossima serie? (Dvd; 27/12/09)
760 – Scopano come cani in Caos calmo di Antonello Grimaldi, Italia 2008
Premetto: anni fa, sulla scorta del successo (…) di Fame chimica, Paolo Vari, regista, e io, indegno suo giullare, abbiamo letto ancora in bozze Caos Calmo, di Sandro Veronesi. Siccome abbiamo fiuto da vendere e volevamo dimostrare ai cinematografari romani che non eravamo gente che si comprava con un best seller, avevamo storto il naso: ci pareva ‘na strunzata, insomma. E invece il film che ne è venuto fuori sta in piedi nonostante richieda una bella sospensione d’incredulità di fronte alle vicende raccontate, peraltro intrise di realismo spicciolo, in una curiosa contraddizione che però funziona. Comunque: è la sera prima di capodanno e festeggiamo la fine di questi insipidi anni Zero soli soletti a casa di mia sorella, a Genova, sapendo che ci sveglieremo dopo la mezzanotte a causa di Elena e non dei botti. Regista è quell’Antonello Grimaldi, già “direction consultant” di Radiofreccia di Luciano Ligabue, cioè, secondo la maldicenza di alcuni del settore, il vero regista. Qua se la cava benissimo, pur rifugiandosi talvolta in un mimetismo morettiano che – a seconda dei gusti – può irritare o compiacere: la vertigine della lista, le manie, i tic, le idiosincrasie di Nanni si attagliano alla sofferenza di un protagonista che vuol fare ordine nel passato per trovare chiarezza nel presente. La storia non ve la racconto perché esistono apposta centinaia di enciclopedie in Rete e su carta. Noto solo che già nella prima scena appare il capezzolone di Isabella Ferrari, quasi un monito per ciò che capiterà dopo. E cioè una scena di sesso dove l’austero Nanni perde ogni inibizione e titilla le mammelle della biondona come se fossero il joystick della Playstation e, dopo tanto desiderare, la tromba, la bomba e la pistona, sfasciandola più di quanto non sia già sfasciata di suo, con la faccia di lei che sembra un mascherone da tragedia greca. Beh, se ripenso al Sapore di mare vanziniano, mai avrei pensato a un incontro di questo tipo, Moretti vs. Isabellina. Va anche detto che la sequenza che tutti ha fatto parlare ha un suo perché. È grottesca ma anche vera, imbarazzante perché non patinata, realistica nella goffaggine, nelle smorfie, nei grugniti, nella mancanza di eleganza (mani che ciancicano, leccate bavose, pelle)… e non è sotto la lenzuola come fanno quei falsoni degli americani, anzi: mentre tampona la Ferrari da tergo, Nanni mostra il culone e una frazione di secondo di pendaglio moscio. Vabbeh. Detto della sequenza cult, noto che Gassman è sempre più bravo, la Golino è come la Gorgona (cioè con la testa mozzata appoggiata al collo) e Kasja Smutniak ha un sorriso che illumina lo schermo. Lo sapevo – modestamente – anche dal vivo, ma non lo ricordavo più. Buon anno. (Dvd; 31/12/09)
761 – L’assiderante Le conseguenze dell’amore di Paolo Sorrentino, Italia 2004
Film stralunato, freddissimo, quasi ibernato, improntato a un’estetica minimale che può anche irritare. Toni Servillo oscilla tra la perfezione e la gigioneria: il confine è labilissimo ed è solo con la ritrovata umanità della seconda parte che viene fuori la bravura dell’attore che si scongela grazie al sentimento. Comprimaria una nipote della Magnani, dall’occhio inceneritore finché non apre bocca e infatti mai più sentita né vista, anche se negli extra del Dvd straparla come se avesse vinto un Oscar e pure un Nobel. Comunque mica male ‘sto Sorrentino, sai? (Dvd; 7/1/10)
762 – La salutare distopia di Battle Royal di Kinji Fukasaku, Giappone 2000
Non ricordo bene come ci sono arrivato, ma in una botta di esotica spericolatezza, mi procuro il cofanetto del film in un’edizione con un non meglio specificato “alternate ending” e ricca di bonus. Lo vedo con la cugina Alessandra una sera che Barbara è via, e il film ci prende, inutile negarlo. Giappone di un prossimo futuro, con la gioventù ormai allo sbando. Per dare una qualche scossa ai ragazzi se ne portano un tot su un’isola e li si costringe a combattere per sopravvivere: ne devono rimanere due, vivi, e ogni colpo proibito è ammesso. La competizione mortale viene ripresa e trasmessa come un reality estremo dalla funzione altamente educativa. Le grafiche rendono conto di ogni eliminazione e molte le vediamo – con gusto cinico – mentre accadono, col privilegio di entrare anche nella narrazione, non solo assistendo al programma tivù dentro al film. Però è come se – rispetto al testo ricchissimo di suggestioni – ci fosse una messa in scena qualche volta non all’altezza. Intendo dire non così inventiva. Però sono io un rompipalle, il film ha già dieci anni e il regista Fukasaku ne aveva pur 71 e mica poteva fare il tarantinato a ogni momento. Bellissime le sequenze dei sogni, l’uso della musica classica (il violento Dies Irae di Verdi che è autentico Heavy Metal ottocentesco, ma di quello cattivo) e il tema della sessualità adolescenziale. Invece alla teatralità degli attori (penso alle scene di gruppo iniziali) bisogna farci un po’ l’abitudine. Immenso Takeshi Kitano, che ha la parte del cattivo maestro (raramente m’è capitato di pensarla diversamente su di lui). Film da vedere eccome, comunque. (Dvd; 9/1/10)
763 – Lo splendido The Shield – Prima Stagione di Shawn Ryan, USA, 2002
Un’altra serie. Che è una bomba, ma della quale non m’innamoro subitissimo. Perché non voglio. È che il mio cuore è già su E.R., inarrivabile, e anche un po’ su 24, da cui sto provando a disintossicarmi. E poi ho finalmente recuperato Prigionieri delle pietre, uno sceneggiato (si chiamavano così) inglese degli anni Settanta per ragazzi di cui attendo da più di trent’anni di sapere come vada a finire. Ragazzi: le serie tv esigono la visione compulsiva ed esclusiva, sono droghe, le vedi alterato dalla scimmia on yo back: ho un migliaio di Dvd da vedere e devo tornare a cibi sani, a fare sport, dormire bene. Devo tornare a vivere, cioè vedere film. Ovviamente dopo la fine di Lost, la morte di Green in E.R. e qualunque cosa accada in 24, Boris e pure quei Soprano che mi aspettano da un anno in cofanetto ancora cellofanato. Poi smetto, giuro. Però The Shield è grande, maledizione, grandissimo: distretto di polizia losangelino dove bene e male sono indistricabilmente allacciati, dove l’etica si scontra ogni giorno col pragmatismo o l’interesse, dove ti affezioni a gente moralmente schifosa ma che fa quello che fa perché qualcuno deve pur farlo. Sai che non è giusto, ma ci caschi e l’equilibrio del dubbio è la scommessa vinta da questi sceneggiatori eccezionali. The Shield è acido, imbarazzante, ambiguo, sporco. È inaccettabile ed è la vita, come non vorremmo che fosse messa in scena perché già la viviamo, ma è questo coraggio insopportabile a renderla una serie unica. Scritto come se fosse Ellroy e girato come un Dogma senza pretese, ma vivo e ansiogeno, vedremo come va avanti, se riesce a non sbracare. Ah: non merita una recensione perché l’ho visto a pezzi, ma Il gobbo di Notre Dame non è niente male. E vogliamo parlare della zingara Esmeralda? Beh, se le donne rom fossero tutte così, credo che gli italiani diventerebbero il popolo più ospitale della terra, a partire dal Presidente del consiglio. Esmeralda sembra una pornostar anni Ottanta, di quelle tettute, con gli occhioni verdi da cerbiatta e i capelli vaporosi. Senza dubbio la miglior CILF (Cartoon I’d Like to Fuck, vedi qui e qui) di sempre. Animazioni belle, architetture gotiche sublimi e messaggi inconsueti per l’universo Disney. Il Potere ne esce malissimo al grido dei disperati: “Diritto d’asilooooo!”. Fa più propaganda questo Disney che 10 anni di Partito Democratico, senza esagerare. (Dvd; gennaio e febbraio 2010)
764 – L’esistenziale Boris 2 di Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo, Italia 2008
Boris riparte abbastanza bene, poi ha una flessione (verso la quinta e sesta puntata) e poi piazza lo scatto con un rush finale da antologia, clamoroso, con rimandi mistici (“Senti la Forza, René!”) e all’attualità (sempre attuali: l’Italia è il paese del disastroso eterno presente). Immenso Corrado Guzzanti in una parte di attore sciroccato che sostiene di aver parlato con Gesù Cristo sulla Roma-L’Aquila e invece scarico in un ruolo di contorno da ecclesiastico sui generis. Nella serie sono più chiare alcune linee narrative e diventa un motivo dominante la storia d’amore tra l’assistente Arianna e lo stagista Alessandro, mentre crescono i personaggi dello stagista muto, Lorenzo, e dell’elettricista esaurito Biascica. Non male neanche la nuova divetta, cagnissima, e lo zoccolone di contorno, la vivace Karin. I personaggi principali si alternano, ma René rimane il cardine centrale, lui e il suo dubbio esistenziale/professionale. Capolavoro in crescendo, con una sfumatura poetica sempre più accentuata, pur nella descrizione quotidiana dell’aberrante professionalità televisiva. Ed è tutto vero, vi assicuro. (Dvd; febbraio 2010)
766 – Muovi il culo e pensa: WattStax di Mel Stuart, USA 1973
Un concertone per celebrare la dignità del popolo afroamericano nel settimo anniversario della rivolta di Watts, un sobborgo nero di Los Angeles. Lo organizzò la Stax ed è passato alla storia come la Woodstock black, anche se la similitudine tra le due manifestazione finisce nell’assonanza e nel fatto che ne sia stato tratto un film. Là il caos, qui un’organizzazione ferrea, uno spettacolo superbo e un’affermazione politica che ha fatto epoca e purtroppo non ha avuto seguito, come se fosse stata la pietra tombale sul movimento di emancipazione nero, da lì in poi represso sempre più violentemente, annientato con le armi, la droga o i consumi. La musica stessa è al top del suo fulgore, molto bella e sentita, con testi che dicono sempre qualcosa, in maniera sofferta, com’è tradizione, ma con frequenti apertura alla gioia del canto e alla bellezza della danza prima della deriva puramente edonistica che seguirà nei tardi anni Settanta (musica sempre divertentissima, intendiamoci, ma un po’ senza cervello). Si cantano ancora l’orgoglio, il desiderio di libertà, la frustrazione del blues. Poi saranno solo smancerie, come in qualche caso qui già anticipato. Il documentario fa vedere ed ascoltare i diversi partecipanti, su cui spiccano – nel mio personale score – il Rance Allen Group (gospel rock potentissimo con un cantante che stazza come Giuliano Ferrara e canta come Ian Gillan con i coglioni in una morsa) e i Bar-Kays, conciati come comparse di Jesus Christ Superstar ma senza ritenersi in costume. Il pubblico è partecipe in maniera straordinaria e si fa sentire fin dal sermone rap del reverendo Jackson (con un testone afro da paura) che fa recitare a tutto il Coliseum il mantra I AM SOMEBODY: povero, ignorante, senza lavoro, senza capacità, ma IO sono qualcuno, con una dignità da rispettare. Il massimo si raggiunge quando molti spettatori abbandonano le gradinate per invadere il campo e… ballare. Non gliene frega niente di andare sotto il palco ad esagitarsi, non importa essere vicini all’artista: interessa avere spazio per muoversi, esprimersi, e una volta finita l’esibizione di Rufus Thomas, al suo cortese invito tornano tutti ai loro posti. Semplicemente incredibile. La regia intervalla le performance con interviste alla gente del quartiere e, con un montaggio agile, sappiamo come la pensavano su sesso, religione, politica, lavoro e non solo. Perché è estremamente politico parlare anche della propria capigliatura, del gospel e del blues, dell’espressione corporea che si comunica col ballo, dei rapporti tra uomini e donne (o meglio tra brothas ‘n sistas), dell’eredità culturale africana, del perché – in definitiva – nero sia bello. E molto: gli intervistati sono splendidi, scelti benissimo, saggi, scaltri, con la lingua velocissima (e seguire il film in originale è veramente difficoltoso). Ma stupiscono l’eleganza, la fierezza e l’austera bellezza della razza, sinuosa e muscolare, sensuale e fisica. A stemperare un clima che comunque è sereno e piacevolissimo, l’ulteriore bonus dello stand up comedian Richard Pryor che è un’esplosione di macchiette godibili. Questo film è un capolavoro che fa muovere il culo e il cervello. Ne ricordo pochi, recentemente. (Dvd; 27/2/10)
(Continua – 68)
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