di Sandro Moiso
Emil Cioran, Sulla Francia, Voland 2014, pp. 110, € 13,00
Non è un autore molto frequentato Emil Cioran, soprattutto negli ambienti della sinistra antagonista.
Ed è facile capirne il perché: amico di personaggi come Mircea Eliade aveva fatto parte, negli anni che avevano preceduto il secondo conflitto mondiale, della Guardia di ferro di Corneliu Zelea Codreanu, un movimento anti-semita, filo-nazista e ultra-reazionario che si era sviluppato tra gli anni venti e trenta nel suo paese d’origine, la Romania.
Però, il libro in questione, prima traduzione italiana a cura di Giovanni Rotiroti di un manoscritto del 1941 dimenticato per decenni tra le carte depositate presso la Bibliothèque Jacques Doucet, può rivelarsi molto interessante ed utile per rivedere alla luce di un suo importante teorico la teoria della decadenza della civiltà e coglierne tutte le subdole conseguenze ideologiche e politiche. Soprattutto1 in momenti, come l’attuale, in cui i rischi connessi all’esplodere di crisi economiche e militari sempre più virulente e devastanti sembrano aver messo in crisi gli equilibri raggiunti nel secondo dopoguerra e l’opulenza e la sicurezza delle società europee.
“Una nazione raggiunge la grandezza solo se guarda al di là delle sue frontiere, odiando i propri vicini e volendo soggiogarli. Essere una grande potenza significa non ammettere valori paralleli, non sopportare vita accanto a sé, imporsi come senso imperativo e intollerante […] Un tempo, dai villaggi francesi scaturivano energie debordanti, forze avide di gloria… Oggi, l’aratro è noioso, le fattorie intorpidite, il lavoro senza fascino” (pp.79-80)
Mentre scriveva queste righe, Cioran si trovava a Parigi, che aveva raggiunto nel 1937 ufficialmente con una borsa di studio per approfondire gli studi su Bergson, e nella primavera del 1941 aveva fatto parte della Legazione romena di Vichy. Tra il 1940 e il 1941 era anche ritornato tempestivamente in patria per onorare alla radio di Bucarest la memoria del “Capitano” Codreanu, ucciso dal governo di re Carlo II di Romania nel 1938.2
Da un anno le truppe tedesche avevano invaso e sottomesso la Francia, marciando per i viali di Parigi nel giugno del 1940. E’ chiaro il raffronto che passa nella testa del trentenne Cioran: le nazioni giovani e forti sono quelle che invadono e sanno soffrire, che sanno donarsi ad una causa. Come affermerà nella sua “esaltazione di uno scettico” in memoria di Codreanu: “Dinanzi al Capitano nessuno restava indifferente. Il paese era stato attraversato da un nuovo brivido […] La sofferenza diventa il criterio della dignità e la morte quello della chiamata. In pochi anni la Romania ha conosciuto una tragica pulsazione, e la sua intensità ci consola della vigliaccheria per mille anni di non storia”.3
Sacrificio, morte e rigenerazione stanno alla base del pensiero di Cioran e dove questi elementi non convivono allora, sembra dire, non vi è che il non senso e la decadenza. Non ci sono alternative: conquista e morte oppure decadenza e mancanza di vitalità. Ipotesi che avvicina il pensatore rumeno non soltanto ai fanatici del sacrificio e del massacro operanti nell’ISIS, ma un po’ a tutti coloro che nel sacrificio per la nazione, sia essa borghese o socialista o nazionalsocialista, vedono l’unica possibilità di rigenerazione della società.
Ma, anche, a coloro che, come Michel Houellebecq, guardano con timore alla perdita di identità della Francia o dell’Europa a favore dei nuovi venuti, di religioni diverse e culture altre che non tengono conto dei valori affermatisi nel vecchio continente fin dalla Grande Rivoluzione e dalle conquiste (guarda caso) napoleoniche. “Due volte – nella sua storia- la Francia ha raggiunto la grandezza: all’epoca della costruzione delle cattedrali e al tempo di Napoleone” (pag.31)
Le basi della Grandeur per Cioran stanno tutte lì: nel cristianesimo e nelle conquiste territoriali. Religione ed espansione. D’altra parte anche Codreanu, prima di dare vita alla sua Legione, aveva contribuito a fondare, nel 1923, la Lega per la Difesa Nazionale Cristiana. Il sogno nazionalista è già tutto racchiuso in quei due fattori.
“La veduta delle grandi dissoluzioni ci intossica e ci indurisce. Il veleno abbatte la nostra fiera costituzione, ma la volontà di non perire provoca la reazione” (pag.87) Così che gli avversari di oggi o di ieri assomigliano sempre di più ad immagini specularmente rovesciate e riflettentisi l’una nell’altra. Ed è proprio questo che si tarda a capire, da troppo tempo. Anche se un’attenta lettura del breve testo di Cioran ci può aiutare a comprenderlo un po’ di più.
Il compianto del filosofo rumeno, ancora fresco di ferree emozioni, per una Francia che successivamente gli permise di riciclarsi negli ambienti esistenzialisti ed intellettuali, sta quasi tutto all’interno del pensiero borghese, perbenista e nazionalista, che rimpiange le proprie origini “eroiche”. Così, prima di procedere oltre, almeno questo occorre rilevare: Céline fu odioso per il suo antisemitismo, ma mai smise di denunciare, anzi di gridare, il suo odio per la guerra, il militarismo, il colonialismo e la doppiezza della borghesia e della sua presunta cultura ed intellettualità. Mentre Cioran, nel compiangere il tramonto di una civiltà e di una cultura ne esalta sia le forme accademiche e distaccate che il ben più rozzo sogno militarista di conquista .
Il primo non fu mai perdonato, pur essendo uno dei più grandi scrittori francesi del ‘900, mentre il secondo, insieme ai suoi compari, poté facilmente riciclarsi, nella cultura della Francia dei decenni successivi, in qualità di “filosofo del tragico”. Una questione, insomma, non solo di di forma, ma anche, come spesso accade, di sostanza.4
Si confronti “Cosa ha amato, la Francia? Gli stili, i piaceri dell’intelligenza, i salotti, la ragione, le piccole perfezioni. L’espressione precede la Natura. Siamo di fronte a una cultura della forma che ricopre le forze elementari e che, sopra ogni impulso passionale, stende la vernice elaborata della raffinatezza” (pag.24) con “Napoleone […] ha saputo dare un contenuto imperialista alla loro vanità, chiamata anche gloria” (pag.33). Ecco il rimpianto vero per la Francia: quando sapeva e poteva essere imperialista.
E l’impressione è che, ancora oggi, nelle pagine del libro ultimo di Houellebecq come nelle piazze d’oltralpe del dopo Charlie, la questione vera sia quella, così come per l’identità vera di cui buona parte dei francesi che votano per Marine Le Pen sente l’assenza. “La decadenza non è altro che l’incapacità di creare ancora, nella cerchia di valori che la definiscono” (pag.33) I valori borghesi su cui la Francia ha costruito la sua identità nazionale e perciò formale non trovano più riscontro nella realtà. Si finge che siano altri a negarli, quando in realtà si sono negati da sé…ammesso che siano mai stati davvero universali.
L’eguaglianza formale sul piano del diritto, la generica libertà individuale…già i cartisti inglesi del primo ottocento, preceduti da Rousseau, avevano capito che tali diritti non sarebbero mai stati di sostanza finché fosse sussistita la diversità sostanziale tra chi ha e chi non ha. Discorso saltato a piè pari oggi sia da chi afferma l’unità della umma5 come da chi dà per scontato che i diritti siano già uguali per tutti (di parola, di stampa, di espressione, di lavoro, di scelta, etc.), là dove manca l’uguaglianza reale: quella economica.
Inoltre “La Francia – come l’antica Grecia – […] sono gli unici due paesi che hanno utilizzato il concetto di barbaro, come caratterizzazione negativa dello straniero – esprimendo, in fondo, nient’altro che il rifiuto di una civiltà ben definita di aprirsi al nuovo” (pag.34) Qui Cioran, probabilmente, vuole sentirsi barbaro, così come lo dovevano sentirsi orgogliosamente i conquistatori dell’antica Roma o di Parigi nel giugno del 1940. Ma ciò non toglie che quel sentimento faccia parte, in questo caso per i francesi e dei loro ammiratori e sostenitori, della nostalgia per l’identità perduta. Quella che permetteva di distinguersi dai barbari appunto.
“Decadenza significa […] non avere più anima. E’ il caso della Francia” (pag.48) Qui è ancora il barbaro Cioran, fascista tutt’altro che pentito, che guarda alla patria di Cartesio e si compiace della sua decadenza, a favore della novella barbarie nazista. ”Dopo aver verificato l’utilità o l’inutilità dei principi della Rivoluzione, quale nuovo contenuto potrei ancora attribuirle? […] La più grande rivoluzione moderna finisce come una paccottiglia dello spirito […] Potrebbe ancora servire alla patria? ” (pag. 46)
Una rivoluzione che non serva alla patria è inutile. Ecco il punto. Per questo i senza patria non hanno nulla a che spartire con le rivoluzioni che esaltano gli stati, le religioni e i partiti nazionalisti; anche con quelle che volevano costruire il socialismo in un solo paese, trasformando così anche il sogno proletario in una nuova e categorica religione nazionale. Forse è giunta l’ora di abbandonare l’ideale rivoluzionario statalista e giacobino, che ha erroneamente fondato tutte le rivoluzioni socialiste del ‘900, trasformandole, tutte indistintamente, in null’altro che ripetizioni, spesso mal riuscite, della rivoluzione nazionale borghese.
Cosa che ci costringe a riflettere su un’altra questione: se saltano i valori borghesi e della rivoluzione che li ha fondati esiste davvero solo la decadenza? Oppure la specie umana dovrà promuovere valori altri, rispetto a quelli fondati dalle religioni, dai nazionalismo, dagli imperialismi, dal capitale e dalla sua classe dirigente? Non dovrà forse il comunismo o l’organizzazione sociale futura distruggere anche i valori del pensiero e della società borghese, promuoverne e curarne la decadenza, per liberare davvero l’umanità intera?
Per un reazionario nichilista ed ultra-conservatore come Cioran la fine dei valori della società borghese per una nazione come la Francia, una volta finita l’epoca “eroica” delle conquiste, poteva significare soltanto due cose: l’ergersi all’orizzonte di una nuova potenza (la Germania di Hitler) oppure la decadenza e la fine della civiltà, in una visione totalitaria e tutt’altro che dialettica del divenire storico.
Mentre per chi crede nel superamento della società basata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sull’accumulazione di profitti, anche il superamento del diritto formale borghese e delle sue illusioni, comprese quelle religiose, è inevitabile e necessario. Cosicché spiarne l’agonia significa anche individuare i fattori del suo tramonto.
Poiché, per la maggior parte dell’umanità e sempre più per i lavoratori, oggi non esiste ancora libertà d’espressione. Non esiste uguaglianza davanti alla legge (basta confrontare i procedimenti giudiziari contro chi lotta con quelli a carico di coloro che hanno contribuito ad uccidere, come nel recentissimo caso della Eternit, migliaia di lavoratori). Non esiste sicurezza del lavoro, della proprietà e del futuro per i propri figli. Non dobbiamo scegliere tra uno e l’altro o l’altro ancora dei contendenti attuali. Dobbiamo scegliere un mondo altro e forme altre di espressione e di lotta, perché, come Rosa Luxemburg ci ha insegnato ormai da più di un secolo, la scelta futura non sarà tra civiltà (borghese) e barbarie, ma tra barbarie e socialismo. Hic Rhodus, hic salta.
C’è però da dire che , almeno, l’ambiguo o sincero Cioran del 1941 sapeva ancora riconoscere due cose: “La Rivoluzione del 1789 ha fatto il suo tempo, e la borghesia pure […] Essa ha solo una riserva sociale: il proletariato. E una sola formula: il comunismo” (pag.54) e “La vita esiste solo in banlieue. Una Francia proletaria è ormai l’unica possibile” (pag.79). Con buona pace di chi oggi volesse ancora soltanto demonizzare tout court i casseur o i loro sottoprodotti politici e militari.
In realtà Cioran non dava troppo credito a tale ipotesi. Anzi, la utilizzava proprio come paradosso per dimostrare l’irreparabile decadenza della società borghese francese, ma almeno aveva ancora la capacità di porla sul piatto, mentre oggi nel dibattito intellettuale e, anche se non lo vorrei dire, soprattutto a sinistra la lotta di classe e le sue conseguenze sono ormai totalmente rimosse a favore di discorsi che tengono conto dell’etica e delle idee, ma non della effettiva realtà sociale e di tutte le sue esplosive e spesso terribili contraddizioni.
In questo senso, leggere e riflettere sul piccolo testo di Cioran può essere utile. Non solo perché contiene al suo interno ancora numerosi altri spunti,6 ma anche perché, a volte, ci “insegna” di più un nemico sicuro che un alleato incerto e, proprio per questo, potenzialmente infido. Cosa che il testo rivela, mostrando la sottile o quasi invisibile linea di demarcazione che separa il pensiero conservatore, se non reazionario, da quello genericamente progressista, là dove l’autonomia politica di classe viene a mancare per appiattirsi invece sulle formule più scontate del pensiero dominante.
Come ha già sottolineato Mario Andrea Rigoni, anche se con finalità diverse da chi scrive, in una recensione comparsa sul Corriere della sera: Cioran anticipò Houellebecq, 16 gennaio 2015 ↩
Sul “passato” fascista di Cioran, Eliade e sul più che contraddittorio Ionesco si consulti Alexandre Laignel-Lavastine, Il fascismo rimosso: Cioran, Eliade, Ionesco. Tre intellettuali rumeni nella bufera del secolo, UTET 2008 ↩
cit. da Giovanni Rotiroti nella sua introduzione a Cioran, Sulla Francia, pp.9-10 ↩
Anche se l’antisemitismo di Cioran, pur non manifestandosi in maniera violenta negli scritti francesi come in quelli rumeni prima del suo arrivo a Parigi, si manifesta sporadicamente ed incontenibilmente anche nel corso del testo qui trattato. Un esempio per tutti: “Tutti i paesi falliti hanno qualcosa dell’equivoco del destino giudaico; sono erosi dall’ossessione dell’implacabile incompiutezza” (pag.71) Là dove, per l’appunto, l’essere ebrei coincide con l’essere individui o popoli incompiuti, non completi, mancanti di qualcosa, sostanzialmente inferiori. ↩
Nell’Islam è la comunità dei fedeli, al di sopra delle barriere sociali e nazionali ↩
Basti per tutti, in un’epoca di cuochi televisivi e ricette gastronomiche presenti in ogni dove, la seguente riflessione: “Il fenomeno della decadenza è inseparabile dalla gastronomia [… ]l’atto di mangiare si è elevato al rango di rito. Ciò che è rivelatore, non è il fatto di mangiare, ma di meditare, di speculare, di intrattenersi per ore e ore su questo argomento”(pag.67) ↩