di Cristina Rosati
[Anticipiamo il primo, breve capitolo del romanzo di Cristina Rosati Piombo quotidiano, Villaggio Maori Edizioni, pp. 280, € 16,00. Il tema è quanto mai insolito: la vita odierna dei ricercati italiani degli “anni di piombo”, che trovarono rifugio in Francia grazie alla “dottrina Mitterrand”. Dimenticati dalla patria ma non dai suoi servizi segreti. La storia, largamente autobiografica, è quella di una giovane donna nata un decennio dopo. Giunta a Parigi, trova lavoro in un caffè gestito da espatriati (luoghi e persone sono facilmente riconoscibili, per chi li abbia conosciuti). Pian piano, si accorge di chi siano coloro che ha intorno, e prende contatto – tra timore e fascino – con idealità e passioni di cui non ha mai avuto nozione diretta. E con la durezza di fondo della vita del fuoriuscito. Un romanzo avvincente e scritto benissimo, che getta uno sguardo su un piccolo mondo costretto a una latitanza infinita. L’autrice presenterà il suo lavoro, sabato 21 febbraio alle 12, alla benemerita Libreria Trame di Bologna, in via Goito 3/C.] (V.E.)
Trovare lavoro, subito. Sono a Parigi da tre giorni appena. Mi sembra un’eternità.
Casa di Luca è in rue de paradis, decimo arrondissement, il quartiere segnalato dalla guida Routard come poco attrattivo per i turisti, ingolfato di traffico e ricco di etnie differenti. A tutti gli effetti, un quartiere interessante. Luca lo avevo incontrato una sola volta, in un bar di Bologna, qualche giorno prima di partire. Il suo appartamento parigino era libero per tutto il mese di aprile e senza giri di parole Luca mi aveva consegnato le chiavi, sorseggiando un caffè sotto i portici di Palazzo Re Enzo.
«Quando sono arrivato a Parigi, dieci anni fa – mi aveva spiegato – mi hanno aiutato. La città è dura. Voglio fare la stessa cosa con te».
Davanti agli occhi avevo un ragazzo sconosciuto, un amico di un amico, che senza esitazioni mi stava consegnando le chiavi di casa sua e non reclamava niente in cambio. Mi era sembrato tutto naturale, come se le cose dovessero andare proprio in questo modo per una sorta di destino non scritto, ma evidente. Analizzavo i riccioli brizzolati di Luca e mi chiedevo quanti anni avesse. Coetanei? Sentivo il peso delle sue esperienze renderlo molto più anziano di me.
Luca mi aveva parlato per la prima volta del bar: «Se vuoi conoscere tutti, ci devi andare». Tutti, senza aggiungere altro. Non avevo chiesto spiegazioni, ero rimasta in silenzio a guardarlo, piena di gratitudine. In quei giorni prima di partire era come se non avessi avuto nessuna voglia di anticipazioni. Un «è dura» era sufficiente.
Quel pomeriggio dei primi giorni d’aprile è freddo, nebbioso, pioviggina. Nel monolocale di dodici metri quadrati ciondolo dal divano alla scrivania, dal letto al bagno. Per fortuna c’è un soppalco con un materasso matrimoniale e l’armadio è ben incastrato al di sotto di questa struttura. Ho come l’impressione che questo tipo di “casa-loculo” sia la norma, in una città sovrappopolata come Parigi. Ma la casa è il secondo problema da risolvere, un mese passa in fretta e non posso approfittare per sempre di Luca, lo sconosciuto gentile. Il primo punto: trovare lavoro.
Cerco nei quattro angoli dello studio la forza per uscire, alla ricerca di bar, ristoranti, osterie, tutti quei posti in cui la capacità manuale possa far passare in secondo piano la mia quasi totale mancanza di vocabolario. «Avete bisogno di una cameriera» come si dirà in francese? Prendo tempo, i pensieri persi nel vuoto. Sistemo i vestiti ancora nella valigia, passo l’aspirapolvere, do una controllata al libro di grammatica francese e prima di iniziare a pulire, senza motivo evidente, i vetri dell’angolo cottura, mi scaravento in strada pensando che le parole verranno, con la necessità di dover comunicare. Mi è sempre piaciuto lasciare un po’ di spazio alla casualità, è forse per questo motivo che ho lasciato la mia Bologna per Parigi. Non sono una persona coraggiosa, ma avventata sì.
Trovo un primo bar proprio sotto casa e riesco a pronunciare correttamente la parola serveuse. No, non hanno bisogno, ma mi consigliano di provare nel ristorante dall’altro lato della strada. “Ristorante Italiano” è la pacchiana insegna al neon giallo e rosso che lampeggia all’entrata del locale. Voilà. Andrà di certo bene. Sulla lavagna nera all’ingresso sono segnalati i piatti del giorno scritti con l’intramontabile uniposca giallo e verde. Un tripudio di buon gusto. Tra le pietanze consigliate dallo chef il più amato dagli italiani, il rinomato “osso bucco”. Bucco. No, non sono italiani. Mentre mi attardo imbambolata e rapita dal giallo fluorescente del menù, un signore alto e biondo si avvicina e cerca di capire cosa ci faccio nel suo locale con l’aria di chi si trova lì assolutamente per caso. Mi prende alla sprovvista, ho completamente dimenticato la breve e semplice frase per propormi come cameriera. In pochi secondi si forma un capannello di curiosi attorno a me, una manciata di occhi chiari che mi guarda con un sorriso beffardo sulle labbra, mentre cerco di argomentare con convinzione un discorso sulla necessità di assumere una cameriera italiana in un ristorante italiano. La mia strampalata arte oratoria in una lingua per lo più sconosciuta non sortisce alcun effetto, ma forse mi rende simpatica ai loro occhi e non impacciata come invece mi sento io. Il signore biondo mi consiglia di provare nel bar accanto, quello sì che è italiano.
Ancora una volta, insisti, non demordere.
«Est-ce que vous avez besoin d’une serveuse?», questa volta mi viene proprio bene. No, hanno trovato da poco una bellissima ed efficiente cameriera, ma mi consigliano di propormi in un’osteria italiana non molto distante dove forse hanno bisogno. Penso ad osso bucco e mi deprimo. Intanto comincia a piovere davvero. Cammino senza guardarmi attorno, mentre cerco di racimolare un po’ di forza per un nuovo tentativo. Solo pochi dettagli attorno catturano la mia attenzione: volti scuri e pallidi, tacchi rumorosi, cappotti rossi e vestiti di seta, cappelli spelacchiati, occhiali dalla montatura retrò e il largo marciapiede che procede dritto sotto gli alberi che trattengono la pioggia. All’angolo della strada scorgo l’insegna di un bar, o forse di un ristorante. Di certo non avranno bisogno, ma devo insistere, almeno una volta ancora.
Entro in una stanza quasi buia, è pomeriggio, piove, tutto è tinto di grigio. Cinque o sei tavoli apparecchiati ricoprono l’intero pavimento della saletta oscura; sulla destra un corto bancone sul quale sono impilati una decina di piatti e bicchieri brillanti e appena dietro un’apertura che dà sulla cucina. Non è ora di cena e la sala è vuota. Non mi accorgo subito di un uomo intento a sistemare le posate sul tavolo dell’angolo più in ombra della sala. Serveuse. Questa volta viene fuori un grugnito impossibile da riprodurre. Sento i capelli bagnati incollarsi al viso. L’uomo sarà francese, di origine russa o polacca a giudicare dagli occhi sottili e chiari che brillano nonostante l’oscurità della sala.
«Parli italiano?» mi dice con un fortissimo accento romano. Immediatamente avverto tutti i muscoli del corpo rilassarsi, in maniera così improvvisa che ho paura di sciogliermi sul pavimento.
«Sì sì sì, sono italiana!» grido, travolta dall’inattesa rivelazione. No, non hanno bisogno. E mi spiega anche le ragioni: il locale è piccolo, hanno già una squadra, hanno assunto da poco. «Ma qui dietro – continua –, proprio dall’altro lato della strada, c’è un bar. Sono sicuro che lì stanno cercando una cameriera. Si chiama…».
Smetto di ascoltare. Ancora una volta mi dicono di andare dall’altro lato della strada, perché sicuramente stanno cercando una cameriera. Mentre l’uomo continua a chiacchierare io mi domando se si tratti o meno di una strategia di concorrenza, inviare tutte le sprovvedute in cerca di lavoro nel locale del vicino con il solo obiettivo di far perdere tempo al titolare.
«Allora ci sei stata in questo bar, La Commedia?»
Il romano con gli occhi dell’est riporta la mia attenzione nella saletta oscura. Il nome del bar mi dice qualcosa, sono quasi sicura che si tratti dell’osso bucco. «Sì, ci sono stata, non hanno bisogno, grazie comunque».
L’uomo mi guarda stupito e ricomincia a parlare. Non lo ascolto più, cerco la porta, lo ringrazio con eccessiva cortesia in modo che mi lasci uscire senza trattenermi un solo secondo; la fatica ha completamente preso il sopravvento. Esco dal ristorante e la pioggia è ancora lì, forte e battente. Non c’è quasi più nessuno in giro, nessun tacchettio rumoreggiante, solo il mio ombrello blu sotto il quale si accumulano pensieri alla rinfusa. Quando a Parigi piove serve l’ombrello? Nessuno tra i pochi passanti ha l’ombrello, eppure piove e con fare deciso. I rari superstiti che popolano ancora il marciapiede non provano neanche a ripararsi dalle gocce. Io tento di coprirmi come meglio posso, ma sento l’umidità dentro le ossa, i capelli arruffarsi come il pelo di un gatto selvatico. Anche la pioggia mi sembra diversa a Parigi.
Di altri bar neanche l’ombra e soprattutto non ho più voglia di provare. I pavé mi sembrano tutti uguali, gli alberi anche. Imbocco una stradina a sinistra e cerco di leggerne il nome. Ombrello, mappa di Parigi, borsa: non mi bastano le mani. Percorro i vicoli a caso, senza rendermi conto della direzione, e mi torna in mente quel nome, La Commedia. Ma ci sono davvero già stata? Sento che devo tentare ancora un’ultima volta. Torno indietro sui miei passi e cerco di ricordare le indicazioni che mi ha dato il signore dagli occhi dell’est, se almeno lo avessi ascoltato con attenzione! Comincio a pensare di essermi persa, ma continuo a camminare assumendo l’aria di chi sa esattamente in che direzione andare. Il boulevard è in salita e poi si abbassa con una breve scalinata. Prima di percorrere le scale mi fermo ad osservare le griglie laterali di ferro battuto che compongono spirali, le seguo con il dito bagnato dalla pioggia insistente e mi guardo attorno. Proprio da lì, sul punto più alto del boulevard, scorgo in lontananza una tenda rossa. La Commedia. Brasserie. Non conosco questo posto, non ci sono stata, ho mentito. Tutte le forze perdute in un momento si rimpossessano di me. Accelero il passo in direzione della tenda sferzata dalla pioggia. Mi devono prendere a lavorare, è una certezza.
Entro nel bar e con l’ombrello ancora aperto ripropongo la stessa scena patetica davanti ad una signora dai capelli rosso fuoco, ma questa volta la parola serveuse mi viene proprio bene, sono soddisfatta. Non convinco: «Parli italiano?». Ancora un forte accento romano.