di Bushra Al Said
[Il testo e le fotografie che seguono costituiscono la testimonianza, sincera e intensa, di una giovane donna palestinese che, dal 4 all’8 Febbraio 2015, è stata in missione umanitaria presso i campi profughi siriani e palestinesi in territorio turco con la delegazione ABSPP (Associazione benefica di solidarietà con il popolo palestinese) e con la collaborazione di altre due associazioni quali Interpal e Al Marhama convoy con l’obiettivo di consegnare aiuti umanitari e materiale utile per la sopravvivenza dei profughi palestinesi e siriani, condannati ad un esodo che sembra ormai non avere più fine. S. M.]
Lasciate che la vostra mente viaggi senza sosta sino alla fine di queste righe.
Il primo giorno la testa mi doleva. Era un boom di emozioni, il cuore batteva all’impazzata.
Mentre gli uomini andavano avanti ed indietro tra un pacco viveri ed un altro contenenti fagioli, spaghetti, semola, zucchero, olio, sardine, dolcetti, riso, pastina e tanto altro, mentre trasportavano sacchi di carbone e coperte, io avevo il compito di immortalare attraverso una fotocamera un istante, un sorriso, un viso scarno, degli occhi spenti, spossati, la fatica nel volto di un uomo che issa un pacco viveri di 28 kg sulla spalla per sfamare la propria prole, un braccio ingessato o semplicemente di immortalare dei bambini in cui, nonostante la miseria e la decadenza attorno, lo spirito di gioco è riuscito a sopravvivere attraverso una palla che rotola tra i loro piedi scalzi.
Kilis, questo il nome della città nella quale il primo giorno abbiamo trascorso il nostro tempo.
Quando camminavo i bottoni di accensione del sorriso che portavo nelle tasche mi davano fastidio, gli scomparti del mio gilet erano stracolmi di dolcetti ed involontariamente quando il mio sguardo incontrava quello di un bimbo, la mia mano acchiappava un cioccolatino e lo porgeva a quegli occhi spenti che subito prendevano vita. Le caramelle, un ponte per la felicità.
“Vi prego, prendete il mio bimbo, portatelo via con voi” Tra le braccia un creatura sorridente, indosso l’ultimo pannolino rimasto, il viso sporco. “Non beve latte da tempo, come sostituto gli do il tè. Prendilo con te, una bocca in meno da sfamare sarebbe” continua la donna, lo sguardo speranzoso.
Più in là dei bimbi giocano con una trottola, un filo attorcigliato attorno ad essa, i capelli arruffati, sporchi, le mani luride. Ridono come pazzi quando invano cerco di lanciare la trottola per farla rotolare attraverso l’asfalto sghembo. “Non sei capace” mi dicono, lo sguardo sardonico.
“Zaatar 1 ed olio, zaatar ed olio a colazione, pranzo e cena. Non ricordo più i giorni in cui la mia bocca ha assaporato altro” sento dire dietro di me. Lo sguardo sorridente nonostante tutto.
Nella periferia di Kilis sopravvivono 29 famiglie siriane e palestinesi in tende da 9 mq ciascuna. Un unico bagno per le donne, 2 lavatrici, una “cucina”, i vestiti appesi ad asciugare su dei fili tra una tenda e l’altra.
Una bambina, nonostante non possieda nulla, mi dona un blocchetto ed un tappetino. “Mi sei entrata nel cuore, appena ti ho vista. Dal primo sguardo” mi dice, prima che io me ne vada.
Per le gravi condizioni nelle quali vivono, malnutrizione, freddo, mancanza di igiene, medicinali, una donna ha partorito una creatura morta. Ora la vedo sorridere, il ventre gonfio “Speriamo nasca vivo, questa volta” la sento dire.
Nizip e Sanliurfa sono le tappe previste per il secondo giorno. Due città a pochi chilometri di distanza dal confine siriano. Qui abbiamo il compito di sfamare 25 famiglie tra siriani e palestinesi.
Un ragazzino trasporta una sedia a rotelle. Mi guardo attorno, nessun disabile. Dopo pochi minuti il padre lo raggiunge, tra le braccia un pacco viveri e un sacco di carbone. Deposita il tutto sulla sedia e si avviano verso casa. Chissà se quando hanno comprato quella sedia a rotelle si sarebbero mai immaginati di usarla in un modo tanto improbabile.
Ho conosciuto bambini non solo vittime di guerra ma anche del pregiudizio più paradossale tant’è che quando chiedo a due bambini abbracciati, compagni di giochi da più di 6 mesi, le loro nazionalità ed un di loro mi risponde “palestinese”, l’altro siriano, scioglie di scatto l’abbraccio ed inizia ad insultarlo, la voce colma di disprezzo, il bambino palestinese intanto tiene lo sguardo basso, addossandosi la “colpa”. Perché anche nella miseria, anche nella condivisione di una tenda, di una coperta, anche nella povertà o nell’ingiustizia purtroppo i pregiudizi sopravvivono. Conseguenza a questo, lo status di profugo al palestinese non viene concesso, tanto meno il diritto al lavoro e l’assistenza sanitaria gratuita. Sono 63 i mestieri che una persona di nazionalità palestinese non può praticare, insomma tutti.
Il terzo giorno la nostra ultima tappa è Gaziantep, famosa per l’industria tessile ed il pistacchio. La stessa città nella quale abbiamo alloggiato durante la nostra missione umanitaria per cinque giorni, dal 4 all’8 Febbraio 2015. Alcune donne palestinesi mi hanno supplicato di dar loro un po di denaro, giusto quanto basta per fuggire. “Qui abitiamo nella miseria più totale, non abbiamo alcun diritto. I nostri figli stanno morendo di fame. Le mura tra le quali viviamo sono decadenti, l’odore di muffa è insopportabile. Preferisco vivere sotto i bombardamenti in Siria che sopravvivere qui in Turchia” mi riferisce una di loro.
Mi sento un busta stracciata, una lettera lasciata scritta solo per metà, un bicchiere mezzo vuoto, una bottiglia senza tappo, un ombrello aperto dimenticato sotto la pioggia scrosciante.
Mi sento incompleta. Qualcosa non c’è più, oppure è stato dimenticato o ancora lasciato volutamente lì, in Turchia, in quei campi profughi, tra quei volti scarni, gli occhi spenti e le risate dei bimbi in fondo alla via.
it: timo ↩