di Dziga Cacace
Sbrighiamoci, prima che torni a tutti il buonsenso! (Re Julien, Madagascar 2)
742 – Lo spietato capolavoro Old Boy di Chan wook Park, Corea del Sud, 2005
Certo, lo so: sono come un carcerato che, al momento della liberazione, troverebbe sollievo carnale anche in una bambola di plastica dura, quella coi bordi taglienti. Però, oh, ve lo giuro: questo Old Boy è un capolavoro, un film di rara bellezza e intensità. E ha tutto per farmi bene oggi che il cinismo televisivo è ormai diventato un mio sinistro tratto costitutivo accompagnato alla spocchia di chi non vuole misurarsi con l’ignoto per paura di non capire. Questo è un masterpiece assoluto in salsa agrodolce. Dunque (e occhio agli spoiler, coreanamente agliati): Oh-Dae-Soo è un poveretto con un diavolo per capello, una sorta di Brancaleone incazzato come una pantera per aver passato 15 anni di prigionia in un appartamento, senza sapere per quale motivo meritasse la pena e chi lo avesse costretto lì dentro. La tortura atroce però non è stata solo la reclusione ma proprio il dubbio: la classica frase “cosa ho fatto per meritarmi tutto questo?”. E quando il protagonista si trova all’improvviso libero, il suo unico pensiero è capire il perché e il per come. E vi ho già detto troppo. Film grandioso e agghiacciante, pieno di idee e violentissimo, ma di una violenza psicologica terribile, fuori scena, che non ti serve chiudere gli occhi: fa male lo stesso. Girato benissimo, fotografato da dio con gelida rarefazione cromatica, recitato e montato meglio, Old Boy ti spiazza e ti spezza con continui cambi di registro, in un vortice senza fondo. Eccezionale, insomma, anche al netto della mia difficoltà coi nomi coreani: ad un certo punto ho rimpianto i film dei tempi dell’autarchia, quando i protagonisti dei film stranieri avevano sempre nomi tradotti in italiano e tutto era molto più semplice (anche se un coreano di nome Rodolfo o Gioacchino farebbe strano, eh?). (Dvd; 29/4/09)
743 – Il truffaldino Pinocchio yankee, di Hamilton Luske e Ben Sharpsteen, USA 1940
Sofia rimane abbastanza indifferente alla favolona, io mi diverto amaramente a notare l’adattamento disneyano che ha regalato al mondo un Collodi completamente stravolto: rivoglio Mastro Ciliegia! Il disegno è splendido per ricchezza di dettaglio, morbidezza di tratto e cura del colore, ma gli sfondi testimoniano un’aberrante congiura semplificatoria, tipicamente yankee: l’architettura è completamente incoerente e predomina un inedito stile alpino-alsaziano remixato con un gonfio neocoloniale messicano. Passando ai personaggi molto zuccherosi, la fatina – possibile CILF (Cartoon I’d Like to Fuck, Cacace) per le mie fantasie malate – non mi attizza per niente: sarà il ricordo dell’agghiacciante Lollobrigida col capello bluastro nel Pinocchio televisivo di Comencini (sceneggiato che puzzava di povertà da ogni dove, ma era bello proprio per quel motivo) o perché qui è una slavata biondina che parla come una mentecatta e perdona sempre Pinocchio, tanto che il burattino ci ricasca ogni volta. Chissà se da Burbank han mai pagato qualche diritto agli eredi di Collodi: più che altro meriterebbero i danni, visto lo scempio subito dal libro. Considerato uno dei grandi capolavori Disney, in realtà è uno dei meno memorabili e dei più colpevoli. Ma non ho la forza per arrabbiarmi ulteriormente, dài. (Dvd; 16/5/09)
744 – L’eccitante La bella addormentata nel bosco di Clyde Geronimi, USA 1959
Cinemascope grandioso, sfondi e architetture disegnati perfettamente e tratto spigoloso un po’ Fifties. Film molto carino, se si pensa che la vicenda è una fiaba da tre minuti tre di racconto. Sofia è ammaliata e non la spaventa la cattiveria della fata malvagia. Bene: dopo il composto pensierino da persona seria, il doveroso commento da vecchio porco: la principessa Aurora è finalmente una CILF (vedi pensierini sopra) niente niente male. Se le metti addosso un body rosso hai una perfetta popputa bagnina di Baywatch, dallo sguardo finto-virginale un po’ assente. Ma non deve essere neanche una brutta chiavata la strega Malefica, bicornuta, molto Suicide Girl ante litteram e con dei poteri magici che potrebbero garantire inediti fuochi d’artificio. Vabbeh, basta. Ah, no: ma cosa cazzo è un fuso? E un arcolaio?! Me lo chiede Sofia e non so rispondere, da sempre! (Dvd; 22/5/09)
745 – Ancora strepitoso, E.R. Anno 7 di Michael Crichton, USA 2000/2001
La vita, la morte e tutto quello che sta in mezzo. Sarà la lontananza di oltre due mesi da un seriale tivù, ma questo mi sembra molto movimentato e adrenalinico. È evidente che gli sceneggiatori stiano concertando un diluvio emozionale inesorabile e ogni puntata ha un bel crescendo e diversi colpi di scena, sia drammatici che d’azione. Prendo ad esempio la numero 7, Rescue Me (e fate finta di conoscere il cast. Anzi, no: vi do due ragguagli ogni volta): Elizabeth (inglese, chirurgo, fidanzata di Benton) scopre di aspettare un bimbo e viene denunciata per negligenza in sala operatoria; Mark (Ciccio, il capo del pronto soccorso) accerta la presenza di un tumore nella sua testa; Jing-Mei (tirocinante) affronta la madre tradizionalista che non sa che è incinta, di un nero oltre tutto; Benton (chirurgo, nero, tormentato) ha casini a non finire col lavoro, la fidanzata e la sua situazione familiare. Abby (infermiera) non riesce a liberarsi della madre bipolare ma continua il suo avvicinamento a Kovac (nuovo pediatra dell’ER), che ha appena scazzato con Carter (ricco e democratico) che deve stare attento a non drogarsi di nuovo… Ritmo tesissimo, dramma ai massimi livelli. I nuovi personaggi sono ormai ben ambientati e non c’è la sensazione che si stia prendendo tempo: le storie sono fluide e mettono alla prova i nervi e le ghiandole lacrimali spesso e volentieri. Non posso dire perché, perché già lo saprete essendo io impostato su un fuso orario indietro di dieci anni, ma questa è la penultima serie che vedo. Dopo non avrà più senso e sto già soffrendo. (Dvd; giugno e luglio 2009)
746 – Il dionisiaco Madagascar 2 di Eric Darnell e Tom McGrath, USA 2008
Secondo episodio decisamente migliore del primo (già godibile, alla fin fine), con i quattro amici (leone, zebra, giraffa e ippopotama scappati dallo zoo di New York) finiti nella savana africana. La trama continua a essere semplice e leggibile, ma crescono esponenzialmente le caratterizzazioni, specialmente quelle dei personaggi secondari, e le gag funzionano. C’è uno straordinario villain, il leone Makunga, dotato di una mimica facciale incredibile come il suo avversario, il poderoso felino “alfa” Zuba; ma esaltano anche i quattro pinguini in missione impossibile, la vecchietta nemesi newyorchese di Alex (il leone del quartetto) e soprattutto quel grandioso inno all’imbecillità che è Re Julien, un lemure felicemente ambiguo e sessualmente lascivo, carogna e se possibile dedito alla crapula. L’animazione è di gran livello e i primi 20 minuti sono da antologia, come sintesi di racconto e ritmo indiavolato. Mentre il primo Madagascar cresce alla distanza, questo prende subito e c’è da augurarsi un terzo capitolo. A tanto son ridotto (29 giugno, Sofia: “Speriamo che stanotte dormi papà, eh… però mi sa di no, sai?”). (Dvd; giugno 2009)
Il Grande Passo Falso 2009
Anticipare le vacanze assieme a una coppia di amici ci era sembrata una buona idea: rifugiarci in un villaggio evitando il caos e la calura d’agosto e dedicarci allo svacco più atroce, senza doversi preoccupare troppo dei bambini. Solo che abbiamo sbagliato tutto perché siamo finiti in una di quelle centrali concentrazionarie del divertimento che David Foster Wallace mi fa un baffo, anche se non saprò raccontarvela come lui.
Il luogo del delitto è il famoso Tanka Village, un resort oceanico vicino a Villasimius, nel sud della Sardegna. Non proprio a buon mercato ma provvisto di ogni comfort, ristoranti, teatro con musical (wow), anfiteatro con concerti, baby dance e altro ancora. Oh, del resto: lavoro, guadagno, spendo, pretendo.
E così ci ritroviamo immersi fino al collo nella fanga dell’Italia berlusconiana – di cui il nano è profeta massimo, ispiratore e perfetto faccia da cesso specchio riflesso – tra mandrie di villeggianti che immagini indebitati fino al collo per concedersi questa settimana di esibizione reciproca, dove ci si veste, trucca e parla come Simona Ventura e Costantino Vitaliano. Tutti giovani forever, ancora ragazzi a cinquant’anni, adulti mai: catenazze, collane, ori, argenti e mirre, pietre preziose, braccialetti, tatuaggi, orologi con quadranti grotteschi, vestiti a colori acidi, lamé e strappi ad arte, marchi, firme ed etichette, a coprire e scoprire pance che debordano, ombelichi su ventri rugosi, tette che crollano come l’Aquila e pelli istericamente abbronzate. Uomini e donne esibiscono le mutande fuori dai calzoni, unghie curatissime con la perizia di un amanuense e calzature che neanche Caligola nei periodi di minore lucidità: gli stivali in pelle (con 32° di temperatura media), però infradito. Giuro.
Mi sento il Numero 6 de Il prigioniero. Non capisco nulla.
Siamo abbacinati e sconvolti. Tolta l’oretta tardo pomeridiana jazz di tre scappati di casa che ascolto solo io, unico nel resort, non riusciamo a godere di nessuno dei benefit – snob del cazzo che non siamo altro – in imbarazzo costante con la t-shirt nera dei Deep Purple in mezzo a gente firmata Dolce e Gabbana. Per un volatile sollievo rimane l’edicola del villaggio, dove però trovi poca roba e ti devi accontentare di stampa sovversiva come Repubblica o il Corriere. A leggere cosa scrivono Pigi Battista o Ezio Mauro ti crollano i coglioni (questi orchestrano il dibattito politico nazionale con la credibilità di un Alvaro Vitali direttore di Segnocinema) e aumenta il nervoso. Guadagno quotidianamente le mie copie in mezzo a trogloditi che si fanno la mazzetta con Libero, Il Giornale, Chi, Visto, Novella 3000 e Di Più. Di più non so di cosa. Noto anche l’eccentrica con gutturale accento nordestino che chiede “il giornale di puszl, grazie”.
E poi siamo in coda, sempre in coda, sempre superati in coda, a pranzo e cena, guardando tonnellate di cibo buttato via. E per una Sofia che si diverte frequentando il kindergarten, c’è un’Elena che si rifiuta di farci dormire, rendendoci degli irritabili zombie catatonici: siamo giunti pressoché DOA, rischiamo di ripartire OPD. Nel caldo venezolano realizziamo che dopo una vacanza così servirebbe un’altra vacanza per riprendersi. Magari anche un po’ d’ufficio farebbe bene. Sicuramente un consulto psichiatrico.
Tento di movimentare la villeggiatura facendo uno scherzo al fraterno amico Ric, compagno di sventura. E’ fresco e vanitoso proprietario di una macchina insensatamente voluminosa e lo stuzzico lasciandogli sul parabrezza un biglietto: “La sua auto è grossa e me ne compiaccio, ma la mia lo è di più. Firmato l’inquilino della 256”. Me ne dimentico, sinché non mi viene a bussare alla camera la sera dopo. Apro la porta della stanza, lo vedo tutto rosso in volto, penso che mi abbia sgamato e invece lo sento dire: “Adesso vieni con me che devo spaccare la faccia al deficiente della stanza 256”. Siamo ridotti così, come dei miserabili, contagiati dall’aggressività consumistica del contesto.
Le poche volte che mi avventuro in spiaggia sono vicino di sdraio di Mimmo Criscito (terzino del Genoa dall’italiano prealfabetico), del musicista Mario Lavezzi (ex Camaleonti e Flora Fauna Cemento, che importuno con un progetto strampalato di intervista che poi lascio perdere), del telecronista Mediaset Bruno Longhi (già bassista anche lui nei Flora Fauna Cemento, figuriamoci se non gli rompo le balle) e infine di Alessandra Mussolini, colpo di grazia che mi fa desistere da ulteriori frequentazioni del bagnasciuga (Mussolini, bagnasciuga… com’era la faccenda? Ah, che ci han fatto un culo come un rosone. Per fortuna).
Barbara riparte col demonietto in aereo e io ritorno in macchina percorrendo la Sardegna con Sofia e quasi per espiare mi fermo, nel sole di un primo pomeriggio, a Ghilarza, luogo gramsciano per eccellenza. Ci sono 42 gradi secchi, è tutto chiuso e non so cosa visitare. Che senso ha? Vedo una grande foto di Gramsci. Mi guarda severo, forse è un’allucinazione climatica. Sembra che muova le labbra. Sì, lo fa. Dice “Coglione”. (Luglio 2009)
747 – Si può fare di Giulio Manfredonia, Italia 2008 e un delinquenziale Abel Ferrara
Si può fare è una buona commedia drammatica, popolare, come se ne facevano una volta, che tratta di disagio mentale senza essere farlocca o facilona. Poi, certo, c’è qualche cedimento alla retorica e alla lacrimuzza (nel finale) e più di una volta senti l’assonanza di troppo con Qualcuno volò sul nido del cuculo. Ma, ripeto, è un film onesto, non banale, che spazia da Basaglia a Forman, e in controluce ci parla anche di tradimento degli ideali e adattamento alla società “fredda” dopo il calore della contestazione giovanile. Insomma, tocco leggero e attento nell’affrontare un tema invece pesante, con qualche scena molto intensa (la scelta dei “nuovi” matti da portare in una cooperativa, liberandoli dall’istituto di cura) e altre molto divertenti (il sesso in gita aziendale, la stella a 5 punte “vista sui muri” e riprodotta senza intenzione). Claudio Bisio è in forma e il cast di facce azzeccate è ben diretto. Ritmo sostenuto, bel copione, fotografia discreta, musica divertente (i genovesi Pivio e De Scalzi blueseggianti e balcanici: un po’ alla cazzo, ma fan sempre piacere). Insomma: un buon piccolo film. A differenza di quello che ho visto venerdì 17 luglio, quando ho sopportato assieme a mio padre mezz’ora di Go Go Tales di Abel Ferrara, prodottino semplicemente allucinante. Certo, è ingiusto valutare dopo pochi minuti, ma sono mica la Cassazione, io. E come posso descrivervi il senso di dislocamento spazio-temporale di fronte al doppiaggio, la recitazione, le situazioni messe in scena, le facce da cazzo assortite e la totale mancanza di senso di questo film (se non aver raggirato un produttore che ha messo il grano perché Ferrara passasse qualche mese a Roma, tra alcol, polveri e baldracche)? Detto ciò, Abel viene sempre perdonato, avendoci regalato Il cattivo tenente e la slinguazzata tra Asia Argento e un rottweiler. (Dvd; 18/7/09)
748 – Grindhouse – Death Proof, una defecatio post mortem di Quentin Tarantino, USA 2007
Che Tarantino fosse pericoloso, era noto. Perché è il brillantone che può anche imbroccare la serata storta e sfinirti di cazzate ed è quello che accade con questo film insensato, omaggio/parodia/calco dell’exploitation anni Settanta, talmente calligrafico e imitativo da risultare una fetecchia esattamente come le opere (…) che vuole omaggiare. A prova di morte è pervaso da quell’atmosfera malata che trovavamo in quelle cagate con regia e storie completamente scrause che solo le tivù private della nostra infanzia compravano e avevano il coraggio di mandare in onda. In più metteteci decine di citazioni incrociate di film propri e di amici, di slasher sconosciuti ai più, di poliziotteschi italiani e di film brutti e basta, in un frullatore dove non capisci più questo darsi di gomito col vicino rimbambito pure lui. Insomma, rimani stordito da questa messe immane di vaccate, ma il problema vero – alla fine – è nella lunghezza del film, nella pressoché totale mancanza di azione (a parte due scene) e nei dialoghi senza qualità, eterni ed esiziali. Quentin ha dichiarato: ho voluto celebrare le donne e le loro chiacchiere. Sarebbe da denuncia, ed esistessero ancora quei bei gruppi di femministe incazzate ne verrebbe fuori proprio una scena tarantiniana, con le scalmanate che se lo vogliono evirare. La confezione è d’altro canto divertente: si parte con titoli seventies bellissimi e si prosegue con programmatici errori di continuità, bloopers clamorosi, scavalcamenti di campo, salti di pellicola e di audio, giunte sporche tra i rulli, impronte, righe e spuntinature. La musica come sempre va a segno e anche la fotografia satura è notevole. Però, se in Kill Bill la voglia di giocare era assecondata da invenzioni narrative continue, qui no e ho presto realizzato che Quentin mi stava lentamente sodomizzando, me consenziente. A prova di morte dura due ore, sembrano sei e non ne meriterebbe mezza… solo gli ultimi 20 minuti hanno un po’ di consistenza (cioè pura e semplice ottusa azione). Se volete, il finale è anche divertente, però il film rimane una merdaccia, di una bruttezza e di una inconcludenza da non crederci. Grande il perfido Kurt Russell, deludente Rosario Dawson che sembra un pugile dopo 8 round, c’è pure un cameo di Tarantino, con una faccia che, se lo vedeva Lombroso, gli faceva comminare un ergastolo per direttissima. (Dvd; 20/7/09)
749 – L’incredibile Azur e Asmar di Michel Ocelot, Francia 2007
Fiaba splendida, messa in scena con perizia cromatica inarrivabile. Si è investiti da geometrie e composizioni abbacinanti, mentre si racconta la vicenda di due fratelli uniti dalla vita e separati dal censo, dalla razza e dalla religione. Uno bianco, ricco e con gli occhi azzurri, l’altro arabo, crespo e che – dopo un’infanzia povera – è diventato un altero principe. Avventure a non finire, morale all’insegna della tolleranza reciproca, scoperte continue e un piacevole senso di serenità, avvolti dagli sfondi e dalle architetture sontuose. Nonostante ogni tanto pensassi al videogioco Prince of Persia, visivamente Azur e Asmar è eccezionale. Il messaggio conciliante e la speranza di dialogo tra Occidente e Oriente, riportano purtroppo alla natura fiabesca del racconto. (Dvd; 27/7/09)
750 – Un bel colpo (secco): Slap Shot di George Roy Hill, USA 1977
La squadra di hockey va male, la fabbrica cittadina sta chiudendo e presto saranno tutti a spasso: operai e giocatori. Il coach che va ancora in campo, Reggie Dunlop, deve farsi venire qualche idea, anche perché come hockeista è ormai passé mentre come allenatore, con questi risultati, non se lo piglierebbe nessuno. E comincia a giocare sporco, ma mica come la Juve, no, niente Moggi: lui fa soffiate false alla stampa, irride gli avversari, usa ogni trucco a disposizione per creare spaesamento nel nemico ed entusiasmo nella sua squadra, demotivata e zeppa di cialtroni. E riesce nel miracolo, anche grazie all’arrivo nel team dei tre fratelli Hanson, che sembrano sfigati come Joey Ramone ma sul ghiaccio menano di brutto come Johnny con la sua Mosrite. E così i Chiefs di Charlestown cominciano a vincere, trascinano il pubblico, diventano consapevoli di risorse fino a quel momento nascoste, fino a un finale folle e veramente inaspettato. In mezzo ci sono incomprensioni linguistiche, fidanzate e mogli disperate, gelosie professionali e allenamenti a sollevare birre. Reggie ha la faccia furbetta di Paul Newman e alla regia c’è quella vecchia volpe di Roy Hill. Un po’ Stangata, un po’ Butch Cassidy, Colpo secco è un film solido, divertente e arguto, magnifico esemplare di quel cinema anni Settanta bello robusto. (Ri)Visto perché più volte citato dai Wu Ming come loro cult. Come dargli torto? (Dvd; 31/7/09)
751 – Poesia: Wall E di Andrew Stanton, USA 2008
Riportando tutto a casa, tra 700 anni: una pianticella in mezzo alla rumenta, i nuovi primi passi dell’umanità. Pura poesia, digitale e umanissima, con una prima mezz’ora che è il cinema all’ennesima potenza, con protagonista un robottino sfigato in mezzo alla devastazione del pianeta. Incredibile. Come sempre, alla Pixar, spira la brezza del genio. Poi la vicenda diventa più ordinaria e fanciullesca, con la consueta corsa contro il tempo etc. etc. Però siamo sempre dalla parte del capolavoro, come caratterizzazione dei personaggi, tocco leggero, invenzioni. Sofia ha visto senza problemi la parte iniziale, muta (siamo noi adulti ad avere paura della mancanza di dialoghi. Anzi, siete voi!). Qualche apprensione normale per i suoi 4 anni nel concitato prosieguo. Significa che dovremo rivederlo. Spero presto. (Dvd; 5/8/09)
752 – L’imbarazzante 24 – Stagione Sei di Joel Surnow e Robert Cochran, USA 2007
(Attenzione: spoiler a go-go). La sesta serie di 24 parte nel peggiore dei modi: nessuna plausibilità, tutto drammatizzato senza ritegno e senza equilibrio. Dopo che alla fine della splendida serie precedente Jack Bauer era stato sacrificato alla ragion di stato e consegnato ai perfidi cinesi, ecco che qui basta una telefonata del presidente (il fratello di David Palmer, il Kennedy nero) per farselo rendere. Barbuto, zozzo, tumefatto e ammutolito. Arriva che il cielo è ancora nero (le 6 e 13 di L.A.) e dopo 15 minuti c’è un sole che spacca le pietre e lui è sbarbato, pettinato, probabilmente profumato e pure con una manicure invidiabile. E sapete perché se lo son ripreso gli americani? Per darlo in mano a un terrorista islamico assetato di vendetta che in cambio rivelerà dove trovare il responsabile degli attentati che stanno mettendo sotto assedio gli USA. Ovviamente Bauer accetta (non fiata, obbedisce e va mestamente al macello; 20 mesi in mano ai cinesi devono averlo rincorbellito non poco… e non solo: c’è il consueto imperativo morale ricattatorio, l’higher good, il bene superiore, davanti al quale ogni considerazione etica va a farsi benedire, fino all’autosacrificio. Di questo ne riparliamo più avanti) ma ovviamente la faccenda non finisce qui. Come detto, il primo episodio fa abbastanza schifo. Il ritmo c’è e l’azione pure, ma manca la sospensione d’incredulità che ci ha tirati scemi per anni. Stavolta il miracolo non accade. E da qui in poi è un crescendo. Pretendere verosimiglianza sarebbe assurdo, è chiaro (tra l’altro verosimiglianza con cosa?). Ma questo non è più un thriller, è fantascienza. Al quarto episodio viene data l’immunità a un terrorista efferato, Jack Bauer fa secco un commilitone per difendere il succitato cattivone e poi c’è un bello champignon atomico sulla città degli angeli. Insomma, di questo passo arriveremo alla fine della serie con: lo scioglimento della calotta polare in poche ore, l’arrivo del Messia in Israele (quello vero, a questo punto), l’atterraggio degli UFO e la scoperta dei responsabili di Ustica… (nah!, così sarebbe troppo). Però non ci risparmiamo la consueta cagnara in un consolato straniero, una tragedia familiare shakespeariana, i terroristi che sono una masnada di montanari coglioni, il gusto – tra il menagramo e l’apotropaico – nel far vedere cosa potrebbe accadere (se non ci difendessimo a ogni costo) alla Land of the Free, la classica cospirazioncina bombastica interna alla White House e i “veri” patrioti che per amor della Nazione fan nuclearizzare il loro paese, così poi si può rispondere al fuoco, per Dio. Siccome vedere 24 è come fumare crack, rimaniamo scimmiati dalla serie anche stavolta e, va da sé, il divertimento c’è. Eccome, ma l’equilibrio perfetto (e subdolo) di altre edizioni s’è perso. Crediamo per sempre, perché ormai o si esagera ancor di più o sembra tutto all’acqua di rose. Il problema più grosso, ad ogni modo, è che l’inganno di 24 è diventato sempre più scoperto, non c’è più alcuna reputazione “democratica” da difendere: Jack Bauer, pentendosene sempre dopo e magari anche affrontandone le conseguenze (con lacrime coccodrillesche), travalica ogni volta i limiti: la tortura non è un metodo – aberrante e inumano a cui, Dio non voglia!, siamo stati costretti a ricorrere -, è il metodo e dagli e ridagli, per quanto forti siano le tue difese intellettuali, ti abitui a considerarla una brutta cosa che qualcuno deve pur fare per salvare il culo a tutti. Questa serie in particolare è scopertamente assolutoria e, se vogliamo, paradossalmente anche meno insincera del solito: tutti i politicanti ambigui, alla fine, fanno le scelte giuste per la Patria. E in fondo, a parte qualche arabo puzzone e qualche cinese infido, non ci sono veri cattivi. Per cui, sì, dopo anni, devo ammetterlo: 24 è una serie clamorosa, molto entertaining, molto destrorsa, decisamente bushiana. Mi verrebbe da dire che, no!, io so resistere e so godere solo del lato ludico. Ma poi la notte un po’ ci penso e ho i complessi di colpa. (Dvd; settembre e ottobre 2009)
753 – Altro giro, altro capolavoro: Mr. Vendetta di Chan wook Park, Corea del Sud, 2004
Evidentemente questo regista è un genio. Qui c’è tutto quello che voglio da un film, oggi. Ho 40 anni, sono un ordinario rimbambito italiano, dormo poco o niente da un anno e mezzo e sono ancora lontano dal riprendermi. Ma soprattutto nella mia vita ho ingurgitato tonnellate di pellicola e ascoltato migliaia di storie. Per divertirmi, per pensare, perché ne valga la pena insomma, ho bisogno di una vicenda originale, che mi sorprenda e che mi appaghi. Sono come quella puzzona della signora in giallo con Ambrogio, quella col languorino, per capirci. Oh: lo so che non è facile, ma per godere devo trovare soluzioni espressive inedite. Un’estetica diversa, che mi stupisca e che mi faccia dire: a questo non ci aveva ancora pensato nessuno. Tanto meno io, te capì? E questo Park è grandioso: qui non c’è nulla di risaputo. Sembra tutto fresco, diverso. Dico “sembra” perché la distanza occidentale e la mia abissale ignoranza del cinema dell’est asiatico probabilmente ingigantiscono il sapore di novità, ma qui mi esaltano i volti, le ellissi narrative, le scelte fotografiche, gli snodi imprevisti. Questo è un film bello da vedere, tanto che potrebbe essere anche muto, ed è quasi perfetto perché Old Boy porterà al livello estremo le premesse di Mr. Vendetta. Riassunti non ve ne faccio, ma uno spoilerino insignificante sì: dopo trapianti senza anestesia, autopsie, torture con gli elettrodi, suicidi, annegamenti e colpi di mannaia o di mazza da baseball, alla fine trionfa la giustizia rivoluzionaria. E se un film così lo fa un coreano del sud, chissà che bocconcini ci riservano quei buontemponi del nord schienati dal cinefilo Kim Jong Il, eh. (Dvd; 11/10/09)
754 – E ho pianto: Up! di Pete Docter e Bob Peterson, USA 2009
Interrompo il mio digiuno cinematografico in sala che dura da ben 515 giorni (per un film visto parzialmente, perché se dobbiamo a risalire a un film intero, i giorni di astinenza sono 679. Interessantissimo, no? La parola magica è: “figli”) e vado con Sofia a testare questo nuovo Pixar di cui si dicono mirabilie. E in effetti Up! è un film straordinario, un Frank Capra del nuovo secolo. Io piangevo di nascosto, tirando su col naso e mordendomi l’interno delle guance, e Sofia mi chiedeva preoccupata se stessi male. E piangevo dopo neanche dieci minuti (in cui si racconta con intensità impressionante la vita di una coppia), perché questi artisti geniali della Pixar hanno saputo costruire un inno all’avventura, all’amore e alla fedeltà alle idee seguendo i percorsi meno battuti e prevedibili. Il protagonista è un simil Spencer Tracy, molto incazzato coll’orbe terracqueo intero, sdentato e catarroso, talmente legato al vecchio mondo che grida (con la voce di Arnoldo Foà: 94 anni e non sentirli) “tagliati i capelli, hippie!” a uno yuppie. Si accompagna a un bimbo petulante, che conosce il mondo solo attraverso esperienze vicarie (dai libri ai videogiochi). Assieme scopriranno tante cose che, se le elencassi, il film sembrerebbe una stronzata. E invece è l’ennesimo capolavoro che ci dice che si può diventare adulti e rimanere bambini e liberarsi di tutto, anche delle cose che ci sembrano irrinunciabili, per volare di nuovo. Discutendo con amici, c’è chi individua nella moglie rimpianta la zavorra che legava il protagonista. Ma il problema è loro, non mio, e del resto le recensioni sono esercizi d’autoanalisi su sogni di celluloide condivisi. In sala c’erano pochi spettatori, nessun bambino e qualche liceale che viene al cinema per chiacchierare. Ah: il 3D, questo 3D, è pazzesco. (Cinema Gloria, Milano; 19/11/09)
(Continua – 67)
Qui le altre puntate di Divine divane visioni